Cristianesimo/Cristianesimi nell’antichità. Una prospettiva unitaria, di Carlo Dell’Osso
Riprendiamo dalla rivista “Augustinianum” 52/1, 2012, pp. 85-104 un articolo scritto da Carlo Dell’Osso, docente presso l’ Istituto Patristico Augustinianum. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sezioni Sacra Scrittura e Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (10/2/2013)
Indice
- Introduzione
- L’identità collettiva: la cornice
- L’identità collettiva: i contenuti
- Suggestioni conclusive
- Note al testo
Introduzione
L’idea che è alla base di questo nostro contributo è la convinzione che i credenti in Cristo abbiano avuto fin dagli inizi la consapevolezza della propria fede e si siano sforzati di non dissolversi in diverse credenze o dottrine, restando fedeli agli insegnamenti ricevuti dai primi annunciatori della vita e delle opere di Cristo, apostoli o missionari che fossero. Questa sostanziale unità del primo Cristianesimo, secondo noi, resistette anche quando altre credenze/sette/dottrine tentarono di intrufolarsi in esso, approfittando della grande capacità pervasiva del Cristianesimo stesso.
In questa prospettiva esiste il rischio di fare una “storia a ritroso”, e cioè una storia alla ricerca delle “fasi” che precedettero un cristianesimo unitario di un certo periodo storico e di una determinata area geografica[1]. Per evitare questo, tenteremo di essere quanto mai fedeli alle fonti storiografiche, schiudendo l’orizzonte alla ricerca dell’identità collettiva dei primi cristiani e focalizzando la nostra lente sul periodo storico immediatamente successivo all’età apostolica, ossia tra la fine del I secolo e la metà del II e cioè quando i primi credenti in Cristo strutturarono la propria identità collettiva.
La difficoltà di questa nostra impresa sta nel fatto che essa richiede diverse competenze specifiche, come ad esempio in filologia, esegesi, teologia, liturgia, spiritualità, diritto, etc.; e questa è cosa molto ardua dal momento che non siamo in grado di padroneggiare tutti gli studi in ambiti tanto diversi, per cui abbiamo fatto riferimento agli esiti dei lavori di altri studiosi e specialisti, ben consapevoli dei rischi che possiamo correre. Oltre a ciò la documentazione a nostra disposizione è esigua, se non del tutto scarsa in alcuni casi; e questo certamente non giova al nostro intento.
Ciò nonostante, non esitiamo a presentare questa prospettiva unitaria sul cristianesimo delle origini che desideriamo sottoporre alla discussione e al confronto, consci che alcune affermazioni resteranno nell’ambito delle ipotesi e che non si potrà avere la totalità dei consensi.
L’identità collettiva: la cornice
Il concetto di “religione” - come è noto - nel mondo antico non era relegato alla sfera del credo personale, ma implicava anche la sfera sociale, culturale, politica ed etnica, nonché domestica[2]. Attesa questa pluralità di significati, da più parti si propone, in alternativa a questo concetto, quello di “identità collettiva” con cui si intende l’identificazione di se stessi con un determinato gruppo e l’autodefinizione di un gruppo in riferimento alle sue origini, credenze, valori, pratiche, riti, norme e valori, ovvero tutto ciò che fa si che quel gruppo sia tale e non tal altro[3].
Questa autodefinizione si realizza con i processi di creazione di legami tra i membri e di differenziazione dagli altri gruppi, ponendo delimitazioni e confini[4]. In tal senso, si parla anche di “liminalità”, un concetto elaborato nel secolo scorso da Arnold Van Gennep (1873 – 1957) e Victor Turner (1920 – 1983) secondo cui «il limen/margine rappresenta una fase di transito e di sospensione, che relega l’individuo o un gruppo di individui ai margini della società nell’attesa del suo ingresso in uno status sociale nuovo»[5] . Sembra che proprio questa concezione si adatti, meglio di altre, al genere di comunità dei primi gruppi cristiani, là dove si ponesse la questione relativa agli inizi di quel gruppo di credenti in Cristo con una propria identità collettiva, che nel nostro caso si può chiamare identità “cristiana”.
Ma che significa questo per il cristianesimo? Significa che i credenti in Cristo erano un gruppo all’interno dei confini del giudaismo? Oppure erano un gruppo che trovava la sua identità separandosi e/o opponendosi al giudaismo? E quando è iniziato questo gruppo? Molti studiosi accolgono la prima opzione che identifica i primi gruppi cristiani con una setta all’interno del Giudaismo, come Farisei, Sadducei, Esseni, Giudei apocalittici etc., almeno lungo tutto il I secolo, riducendo di fatto il fenomeno della loro “liminalità” rispetto al giudaismo[6].
A dispetto di questo, però, si è notato che mai il primo gruppo di “cristiani” si è chiamato Ioudaioi oppure Israele, e che il Tempio per loro non costituiva lo spazio sacro, dove celebrare il pasto “di pane e vino” o la cena pasquale[7]; per cui altri studiosi sostengono che i credenti in Cristo non avessero l’identità di un sottogruppo giudaico, bensì un’identità che andava oltre quelle dei giudei e dei gentili.
In tal senso è stato inteso il passo degli Atti degli Apostoli 11, 19 – 26, dove il termine Christianoi marca la differenza rispetto ai Greci (Hellenes) e ai Giudei (Iudaioi)[8]. Lo stesso è stato notato in alcuni passi delle lettere paoline, dove le comunità dei credenti in Cristo si autocomprendono come una terza opzione rispetto ai Giudei e ai Pagani; per cui la comunità è per così dire un tertium genus[9]. Se questo è vero, a ragione R. Penna afferma che «i credenti in Gesù come Cristo e Signore si trovavano in parte favoriti e in parte svantaggiati. Essi, infatti, se erano ebrei d’origine, non si trovavano del tutto integrati nel giudaismo classico; e, se erano gentili di origine, non sentivano di far semplicemente parte dei timorati di Dio e tanto meno della categoria dei proseliti»[10].
Dunque, potremmo delineare sinteticamente le tappe iniziali della formazione dell’identità collettiva di questo tertium genus, senza entrare nella storia delle origini delle varie chiese[11], nel modo seguente: in primo luogo, è plausibile che si fosse creato un movimento di persone attorno a Gesù di Nazaret, evidentemente un sottogruppo all’interno dell’identità collettiva di Israele di quel tempo[12]. Dopo la crocifissione di Gesù sorsero delle comunità di “credenti in Gesù come Cristo e Signore” a Gerusalemme e nella Giudea, che pur essendo ancora all’interno dell’identità collettiva d’Israele, si distinguevano per l’attesa messianica e per il nuovo atteggiamento rispetto al Tempio. Queste collettività sperimentarono, poi, un fondamentale cambio della loro identità, quando estesero l’adesione ad esse e accolsero tra i “credenti in Cristo” coloro che provenivano da altri popoli. A questo particolare “gruppo misto” di credenti in Cristo, giudei e non, dovevano appartenere coloro che Luca negli Atti chiama Christianoi. Così che è molto probabile che già alla fine del I secolo ci fossero dei gruppi di “credenti in Cristo” al di fuori della terra d’Israele, che basavano la loro identità sulla “tradizione di Gesù” (Jesus tradition)[13]. Inoltre, alcuni di questi gruppi modellarono la propria identità opponendosi al Giudaismo e alle forme giudaizzanti (cfr. Ignazio di Antiochia)[14].
Oltre a tali considerazioni, si può supporre che questo gruppo con una propria identità fosse noto anche alla società civile, dal momento che, in occasione dell’incendio del 64, le autorità romane furono in grado di distinguere i cristiani dai giudei[15]; e così pure il governatore della Bitinia, Plinio, indirizzandosi all’imperatore Traiano nella sua lettera (X, 96) si servì dell’appellativo di Christiani senza alcun riferimento al Giudaismo. Donde è plausibile che anche in ambito civile il gruppo dei credenti in Cristo fosse distinto dai Giudei e dagli altri gruppi ed avesse una propria fisionomia ed identità collettiva riconosciuta anche al di fuori degli ambienti specificamente religiosi[16].
Dunque, riteniamo che al passaggio tra il I e il II secolo tra “credenti in Cristo”, Giudei e Gentili fossero già stati marcati i confini così da far emergere una cornice identitaria ben identificabile[17].
L’identità collettiva: i contenuti
I vangeli canonici.
È difficile definire con certezza gli elementi che contraddistinguevano la comune identità dei credenti in Cristo perché, come si è detto, la documentazione a nostra disposizione è scarsa, ma soprattutto perché la vita certamente supera quanto è registrato nelle fonti storiografiche.
Ora, gli studi sul Nuovo Testamento sembrano seguire un’altra direzione rispetto alla prospettiva che desideriamo tracciare; infatti, hanno evidenziato le tracce dell’esistenza di gruppi differenti di credenti in Cristo: la comunità gerosolimitana originaria costituita di apostoli e discepoli, il cosiddetto circolo giovanneo, la comunità gerosolimitana radunata attorno a Giacomo, un gruppo di credenti in Cristo attivi in Galilea lettori della cosiddetta fonte Q, ancora un gruppo di credenti che sono alla base delle tradizioni preservate nel Vangelo di Tommaso e così via[18]. Nonostante ciò, anche i più accesi sostenitori delle differenze, riconoscono che le prime comunità di cristiani avevano come elemento coagulante la fede in Gesù di Nazareth riconosciuto come Cristo, Signore, Messia che è risuscitato dai morti[19]. Inoltre, questi primi gruppi di credenti in Cristo avevano la consapevolezza che con Gesù di Nazareth era iniziato un nuovo periodo della storia, una nuova alleanza, un secondo ed ultimo intervento di Dio nella storia[20]. Per questo è ovvio che essi fossero ansiosi di avere notizie di Gesù da coloro che lo avevano conosciuto o da coloro che avevano ascoltato i più anziani, così che preferivano la tradizione orale e cioè la proclamazione a viva voce dell’insegnamento di Gesù piuttosto che prestare fede a quanto cominciava a circolare per iscritto[21]. Questo atteggiamento che riteniamo comune a tutti i credenti in Cristo delle prime generazioni, si scorge nella testimonianza di Papia di Gerapoli riportata da Eusebio, quando dice:
Non esiterò ad aggiungerti alle spiegazioni anche quanto un tempo ho ben appreso dai presbiteri ed ho ben in mente, confermandone la verità. Infatti, non mi rallegravo, come fa la maggioranza, di coloro che dicono un sacco di cose, ma piuttosto di coloro che insegnano la verità, né di coloro che tramandano precetti altrui, ma piuttosto di coloro che tramandano i precetti dati alla fede dal Signore e scaturiti dalla stessa verità; qualora, poi, giungesse un discepolo dei presbiteri, gli chiedevo le parole dei presbiteri, ad esempio, cosa disse Andrea o Pietro o Filippo o Tommaso o Giacomo o Giovanni o Matteo o qualche altro dei discepoli del Signore oppure quelle cose che dicono Aristione o il presbitero Giovanni, discepoli del Signore. Infatti, non pensavo che le cose tratte dai libri mi giovassero tanto quanto quelle sentite da una voce viva e duratura (sopravvivente)[22].
Dunque, atteso che circolassero già diversi scritti su Gesù, il frammento di Papia testimonia che intorno all’anno 130 la tradizione orale era ancora viva e preferita a quella scritta.
Nasce allora la questione quando tra questi scritti emerse e si impose alla comunità cristiana il vangelo tetramorfo? Solo alla fine del II secolo, stando alla testimonianza di Ireneo, mentre prima la comunità cristiana era in preda ad ogni tipo di scritti su Gesù? Per rispondere alla domanda occorre esaminare il lasso di tempo che va da Papia a Ireneo, un periodo di circa 50/60 anni. Che cosa accadde in quel periodo? È evidente che in quegli anni i cristiani ormai non potessero più attingere alla viva voce dei primi missionari e quindi dovettero prendere in considerazione i libri che circolavano su Gesù[23], operando delle scelte senza rischiare di confondersi, poiché era in gioco la propria identità. Per questo pensiamo che ben presto, diversi anni prima di Ireneo, si vide nei vangeli considerati poi “canonici” di Matteo, Marco, Luca e Giovanni la confluenza degli insegnamenti orali di Gesù, degli apostoli e dei presbiteri, ovvero gli scritti in cui le comunità cristiane riconoscevano la propria fede e si ritrovavano, anche se con questo non si esclude che circolassero anche di altri scritti. In tal senso è stato individuato un comune consenso tra i capi delle comunità cristiane a partire dal II secolo riguardo all’autorità riconosciuta ai vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni[24]; di recente poi è stata ripresa in considerazione la possibilità dell’esistenza e della circolazione di codici contenenti più vangeli[25], rievocando l’ipotesi fatta dal papirologo T. C. Skeat dell’esistenza di un manoscritto databile alla metà del II secolo contenente i quattro vangeli di Matteo, Giovanni, Luca e Marco, ipotesi che, come è noto, è stata messa fortemente in discussione e rigettata dagli esperti[26].
Ma, lasciando ai filologi e agli esperti le questioni più ardue circa i papiri e i codici, giova molto alla nostra riflessione sull’autorità dei vangeli canonici, l’opera compilatoria del Diatessaron di Taziano, composto attorno agli anni 160 – 170, che ha, appunto, come base i quattro vangeli canonici[27]. E questo, a detta di Metzger, «fornisce la prova che tutti e quattro i vangeli erano considerati autoritativi, altrimenti è improbabile che Taziano avrebbe osato combinarli insieme in un unico racconto evangelico»[28]. Tale operazione, inoltre, non doveva riguardare l’area siriaca soltanto, dal momento che sembra che Taziano avesse composto il Diatessaron in greco durante il suo soggiorno a Roma, dove si era convertito al cristianesimo grazie a Giustino.
In tal senso, è stato notato come lo stesso Giustino parli di «fatti memorabili degli apostoli…che vengono letti per quanto il tempo lo consenta. Poi il lettore si ferma e il capo istruisce a viva voce esortando all’imitazione di queste cose buone. Poi tutti ci alziamo in piedi e preghiamo»[29], e poi dice che i “fatti memorabili”, letti in un contesto celebrativo, erano chiamati anche “vangeli”[30]. Le sue citazioni «mostrano spesso forme di armonizzazione di Matteo e Luca e in altri casi rivelano occasionalmente l’armonizzazione di Marco con un altro vangelo sinottico»[31]. In altri passi, poi, Giustino dà prova di conoscere anche il vangelo di Giovanni[32].
Si consolida, dunque, l’ipotesi della diffusione e dell’apprezzamento dei quattro vangeli canonici già dalla metà del II secolo tra le comunità cristiane, collocate anche a grande distanza l’una dall’altra. Per cui si può, a ragione, ipotizzare che i credenti in Cristo videro in quei quattro vangeli e non negli altri – che pure circolavano e conoscevano - rispecchiata meglio la propria identità. Se questo è vero, le notizie di Ireneo sul vangelo tetramorfo non costituivano una novità e nemmeno vanno considerate l’inizio di un percorso che avrebbe influenzato le epoche successive, bensì dovevano essere l’eco di una operazione già avvenuta, quando cioè vincendo la ritrosia verso le testimonianze scritte, ossia al passaggio dalla tradizione orale a quella scritta, i credenti in Cristo dovettero decidere quali scritti fossero più conformi alla predicazione orale, ovvero quali rispecchiassero il vero volto e insegnamento di Gesù di Nazareth, così come era tramandato nelle comunità.
Il giorno della celebrazione
Un altro elemento che contraddistingueva l’identità collettiva dei primi credenti in Cristo era costituito dal giorno della riunione per celebrare Cristo Signore e consumare insieme il pasto comunitario con il pane e il vino, ossia il giorno dopo il sabato. È celeberrimo il testo della Didachè:
Riuniti nel giorno del Signore, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché sia puro il vostro sacrificio[33].
Questo testo è uno dei primi della letteratura cristiana antica ad attestare la denominazione di giorno del Signore per il giorno che la comunità riservava alla celebrazione eucaristica, intesa come rendimento di grazie al Signore e come riconciliazione con il prossimo. La stessa denominazione si ritrova anche nella lettera ai cristiani di Magnesia di Ignazio di Antiochia[34] e nel Nuovo Testamento[35]; così che i cristiani non celebravano più il sabato, ma avevano il loro giorno proprio, in cui facevano memoria della morte e resurrezione di Cristo.
Quanto, poi, alla diffusione della celebrazione della domenica in ogni latitudine cristiana rimandiamo al lavoro di W. Rordorf, Der Sonntag: Geschichte des Ruhe- und Gottesdiensttagges im ältesten Christentum, Zurigo 1962.
Se, poi, dal giorno della celebrazione passiamo ai riti celebrati, troviamo ancora altri elementi che contraddistinguono i credenti in Cristo, ad esempio la “cena del Signore”, la cui testimonianza più antica è ancora quella della Didachè, che - come è stato notato – «affonda le sue radici negli strati più profondi delle origini cristiane, là dove era ancora viva e fluida la tradizione su Gesù, era ancora vitale il legame con la spiritualità, l’etica e la liturgia giudaiche e dove risuona ancora l’eco diretta dell’eucharistia protocristiana e dell’annuncio dei profeti cristiani»[36]. Ora, non solo gli esperti di liturgia hanno evidenziato l’antichità del testo, ma anche il fatto che la Didachè abbia «trasmesso i più antichi formulari liturgici circa l’agape cristiana in cui è possibile vedere l’origine della “preghiera eucaristica”, come poi verrà codificata nelle diverse famiglie liturgiche»[37].
Circa, poi, la natura esclusivamente cristiana dell’eucaristia descritta nella Didachè non ci sono dubbi per il divieto che si fa a coloro che non sono battezzati nel nome di Cristo di mangiare e bere del pane e del vino consacrati. A partire da questo è stata studiata la diffusione di formulari liturgici “essenzialmente” simili tra le comunità cristiane primitive, anzi è stato ipotizzato un unico formulario di base, sul tipo di quello della Didaché, utilizzato prima della nascite delle diverse famiglie liturgiche.
Anche l’uso del termine “eucaristia” è la testimonianza di una comune tradizione liturgica, formatasi già nelle prime comunità cristiane[38], tant’è vero che è stato evidenziato come il termine “rendere grazie/rendimento di grazie” fosse utilizzato in apertura di preghiera in tutte le liturgie indistintamente, fossero esse greche, latine, siriache, copte ed etiopiche. E la formula: “Ringraziamo (lett. facciamo l’eucaristia) il Signore nostro Dio” con la risposta: “È cosa degna e giusta”, ritenuta di remota antichità, è riportata alla chiesa apostolica, oltre che alla tradizione ebraica[39].
Circa gli altri riti o sacramenti, diversi studi sono stati fatti sul battesimo, sulla riconciliazione, sull’imposizione delle mani e sul matrimonio, ai quali rimandiamo per ovvi motivi. Comunque, è possibile notare tra i membri delle comunità cristiane una “ritualità” comune, che tendeva a scandire i momenti più importanti della vita[40]; e in tal senso la distanza dal giudaismo si allargava dal momento che il giudaismo non ha sviluppato nessuna prassi sacramentale, per cui è ovvio che i “riti” cristiani costituissero parte irrinunciabile dell’identità collettiva dei credenti in Cristo e attestassero la liminalità del cristianesimo rispetto al giudaismo.
L’organizzazione della comunità
Passando all’organizzazione ecclesiale, è plausibile che una comunità con una propria specifica identità collettiva si desse delle regole al proprio interno, specialmente quanto ai compiti da svolgere, come attesta l’autore della lettera di Clemente ai Corinti che afferma:
Ciascuno di noi, fratelli, nel proprio ordine piaccia a Dio, stando in buona coscienza, senza infrangere la norma stabilita per la sua funzione con dignità[41].
Il che significa che ciascuno doveva stare al suo posto senza infrangere le norme che delimitavano il suo compito; per cui l’organizzazione della comunità non era lasciata alla libera iniziativa, ma era determinata da regole e norme che ne permettevano l’organico funzionamento. In tal senso va considerata la funzione della guida della comunità, affidata ai capi/vescovi e detta monoepiscopato, che gli studiosi riconoscono come una forma di organizzazione predominante nelle comunità cristiane solo alla fine del II e agli inizi del III secolo. Si ritiene, infatti, che a partire da Ignazio di Antiochia si sia diffuso e successivamente imposto l’istituto del monoepiscopato, dal momento che si era reso necessario un governo forte delle comunità cristiane in contingenze difficili come i contrasti disciplinari e dottrinali[42].
A nostro avviso, invece, con Ignazio non abbiamo un punto di partenza, ma la registrazione dell’esistenza negli anni 110/120 dell’episcopato monarchico[43] ad Antiochia e per tutta l’Asia. La diffusione di questo istituto non dovette avvenire istantaneamente né tanto meno ci risulta che Ignazio lo inventò per la sua città e per tutte quelle dell’Asia che avevano i propri vescovi non ordinati o imposti da lui, per cui sembra possibile retrodatare almeno agli anni 90/100 l’origine del monoepiscopato, ossia ai tempi della seconda/terza generazione cristiana, quando venuti meno gli apostoli, i primi missionari lasciavano un “responsabile”, un “punto di riferimento”, un loro “luogotenente” o “una guida locale” nelle comunità dove avevano annunciato il vangelo dopo aver stazionato per un certo tempo.
Contrariamente a questo, si ritiene che nelle comunità cristiane microasiatiche del tempo di Ignazio alcuni membri si rifiutassero di riconoscere l’autorità del vescovo[44], perché venuta meno l’organizzazione di tipo missionario, si era creato un vuoto colmato o da un modello organizzativo giudaico, cioè proponendo un ordinamento presbiterale sulla falsariga di quello sinagogale, oppure da un modello di tipo “monarchico”. I fautori delle due modalità, rispettivamente i giudeocristiani e gli etnocristiani, sarebbero venuti a contesa per l’imposizione del modello monoepiscopale da parte dei secondi a svantaggio del probabile precedente governo presbiterale[45]. Ignazio avrebbe favorito la soluzione “monarchica” o “monoepiscopale”, che poi avrebbe avuto la meglio nelle comunità cristiane nonostante tutta una serie di reazioni e proteste, di cui si troverebbe testimonianza nelle lettere[46].
Per dirimere la questione, è necessario capire chi fossero gli oppositori di Ignazio che, secondo l’ipotesi di E. Norelli, andrebbero identificati in un unico gruppo proveniente dagli ambienti del profetismo da cui avrebbe tratto origine l’Ascensione di Isaia. In quegli ambienti, infatti, si professava un’ecclesiologia di tipo carismatico con un forte accento polemico nei confronti degli ordinamenti vigenti nelle chiese di allora, e in cui oltre al tono giudaizzante, si trovava anche una concezione cristologica con evidenti tratti di docetismo[47]. Secondo noi, a questa ipotesi va aggiunta l’osservazione di P. J. Donahue che, in considerazione del breve tempo trascorso da Ignazio a Filadelfia e Smirne e della puntualità delle sue risposte alle problematiche di quelle comunità, ritiene che le lettere ignaziane rimandino alla situazione di Antiochia piuttosto che a quella delle altre chiese[48]. Per cui Ignazio, alla luce della sua esperienza, sarebbe stato a conoscenza del movimento giudaizzante e doceta che, a Filadelfia come ad Antiochia, doveva aver creato scompiglio nella comunità[49]. Ora, se è vero che Ignazio aveva dinanzi a sé un unico gruppo e che egli rivide, mutatis mutandis, la condizione della chiesa di Antiochia nelle altre chiese microasiatiche, possiamo dedurre che quel movimento di tipo profetico, polemico verso le forme istituzionali vigenti, si stava diffondendo cercando adepti in tutte le chiese d’Asia, minacciando le chiese e le loro strutture. Dunque, gli oppositori di Ignazio non sarebbero stati coloro che rifiutavano il monoepiscopato in nome di una gestione collegiale della comunità, ma coloro che avevano una visione diversa di Cristo e della Chiesa e che rifiutavano qualsiasi tipo di organizzazione ecclesiastica preferendo una “via profetica”.
In tal modo viene a cadere l’ipotesi dell’esistenza di una “fronda” antiepiscopale ad Antiochia e in Asia e, di conseguenza, la successiva diffusione ed estensione del monoepiscopato attesterebbe una sua generale accettazione da parte delle comunità cristiane, essendo la forma di organizzazione comunitaria più consolidata e la più adatta a tenere unite le comunità in contingenze difficili come i successivi contrasti dottrinali e disciplinari.
Dunque, l’istituto del monoepiscopato dovette emergere gradualmente, ma l’ufficio dell’ episkopé, comunque fosse esercitato, venne percepito come di istituzione apostolica e questo per noi significa attestarne l’apostolicità[50]. Con ciò, tuttavia, non escludiamo che in un’epoca così precoce le comunità potessero organizzarsi anche in altre maniere.
La comunicazione
Un ultimo aspetto che desideriamo mettere in evidenza per rimarcare l’identità collettiva dei primi credenti in Cristo è l’importanza della comunicazione[51]. Un gruppo nuovo e non molto numeroso doveva mantenere i contatti anche a lunga distanza, per questo «un tratto peculiare delle prime comunità cristiane è dato dal modo in cui la loro vita – per così dire – rinserrata in rapporti di strettissima e riservata intimità, era poi vista come facente parte di un movimento o di una entità molto più ampia, anzi di un’identità che, in definitiva, si estendeva a tutto il mondo»[52]. In tal senso sono stati fatti diversi studi sugli spostamenti, i viaggi, i soggiorni dei primi cristiani[53], sono stati messi in evidenza anche i legami tra chiese madri e chiese figlie[54]. In questa medesima prospettiva sono stati studiati gli Atti degli Apostoli che forniscono informazioni circa la natura dei viaggi talvolta di natura missionaria, talvolta pastorale; abbiamo studi sui viaggi negli Atti apocrifi, specie quelli di Pietro.
Ma, a nostro avviso, si dovrebbe mettere meglio in evidenza la “preoccupazione per la comunicazione” dei primi cristiani, ovvero come le comunità cristiane si mantenessero in comunicazione e fossero in relazione tra loro. Questa preoccupazione doveva essere più diffusa e capillare di quanto non appaia dalla fonti a nostra disposizione, dal momento che la diffusione del cristianesimo avvenne per “gemmazione” da comunità madri a comunità figlie. Sappiamo, infatti, che nel II secolo due viaggiatori si diressero verso direzioni opposte, ma con le stesse intenzioni: Abercio che dice di aver fatto un viaggio fin oltre l’Eufrate e di aver costatato la comunione con i “fratelli” di quelle chiese così distanti, ed Egesippo che, stando alla testimonianza di Eusebio, compì un viaggio fino a Roma passando per Corinto e durante il viaggio ebbe modo di confrontare la sua fede con gli altri e la trovò simile, infatti durante il suo viaggio «ebbe relazioni con moltissimi vescovi e presso tutti trovò sempre la stessa e identica dottrina»[55].
È innegabile, dunque, che ci fosse l’esigenza di comunicare tra i cristiani non per la necessità di avere relazioni sociali, ma per il desiderio di unità nella fede del gruppo dei credenti in Cristo[56], per cui i contatti con altre comunità cristiane servivano per mantenere e sviluppare la coscienza di essere un’unità di molte comunità, come una “federazione di chiese”[57]. In considerazione di questo, si è detto anche che la brevità delle lettere della prima letteratura cristiana sia indicativa del fatto che esse servissero solo per mantenere i contatti non per trasmettere notizie, come nel caso di 1 Tess. 2, 14 – 16, dove Paolo dà per scontato che i Tessalonicesi conoscessero gli eventi capitati ai cristiani di Gerusalemme e della Giudea; lo stesso si potrebbe dire per le brevi lettere di Ignazio. Nella stessa prospettiva è significativo che anche la lettera di Clemente ai Corinti, seppure non breve, non specifichi mai i particolari degli eventi capitati a Corinto, evidentemente erano già noti.
Dunque, la comunicazione e il confronto tra le comunità, particolarmente tra le chiese “figlie” e di nuova fondazione con quelle principali, doveva appartenere al cuore del primo movimento cristiano costituito di comunità diverse, lontane e con un numero esiguo di fedeli, ma che avevano ben vivo il desiderio di autoidentificazione con il gruppo e di autodefinizione del gruppo stesso anche su vasta scala; e questo creava la consapevolezza di avere un’identità definita insieme con la percezione di essere un “unico corpo”.
Suggestioni conclusive
Avremmo potuto continuare nell’elencazione degli elementi che attestano l’identità collettiva dei primi credenti in Cristo, nonostante ciò il nostro punto di vista non vuole negare le differenze locali e regionali, le tensioni dottrinali e disciplinari del cristianesimo registrate nelle fonti storiografiche, anche se più evidenti nei periodi successivi a quello delle origini. Abbiamo messo in evidenza come dovesse essere di vitale importanza per i credenti in Cristo conservare la propria identità, sia dal punto di vista scritturistico/dottrinale, cultuale/liturgico ed organizzativo, salvando la coesione del loro gruppo rispetto alle spinte disgreganti provenienti dall’interno e dall’esterno, in altri termini attestando la liminalità del loro gruppo rispetto agli altri.
In questa prospettiva, riteniamo che il criterio metodologico, oggi più accolto, quello cioè di leggere gli scritti su Gesù, canonici o apocrifi che si dicano, sullo stesso piano e allo stesso livello, se risulta proficuo da un punto di vista letterario per l’individuazione del contesto, dell’ambiente, della fortuna di una determinata opera, può essere deformante da un punto di vista storico. Infatti, a nostro avviso, è la ricezione da parte delle comunità cristiane che denota l’uso e il valore riconosciuto ad una certa opera, non semplicemente l’esistenza stessa di quell’opera.
Se, poi, da frammenti di opere diverse si pretende di individuare diversi cristianesimi, si dovrebbe dire anche che tipo di liturgia svolgessero quelle comunità, che organizzazione avessero, come comunicassero con le altre comunità etc..; ma sembra che le fonti non diano tali notizie. Va tenuto ben presente, infatti, che il cristianesimo non fu un fenomeno letterario, né tanto meno una corrente letteraria, bensì un movimento di persone, di cui le testimonianze scritte sono ben poca cosa rispetto alla vita stessa dei credenti in Cristo.
In tal senso, riteniamo che aver liquidato come storicamente inattendibili alcuni criteri teologici, come ad esempio quello della canonicità, non giovi alla corretta ricostruzione storica degli eventi e dei personaggi del primo cristianesimo; infatti, pensiamo che il criterio teologico della canonicità non sia una costruzione astratta indotta su alcune opere della letteratura cristiana da parte di non si sa quali capi, ma riveli invece l’uso e l’accoglienza di quei testi da parte di più comunità cristiane, anche molto distanti tra loro, e dunque sveli un dato storicamente rilevante e rilevabile.
A nostro avviso, poi, parlando dell’esistenza di più cristianesimi, là dove non si chiariscano bene i termini, si potrebbe rischiare di presentare i credenti in Cristo come un gruppo senza identità e di far passare i cristiani come gente che in realtà non sapesse esattamente chi fosse e in cosa credesse. Inoltre si potrebbe giungere a ritenere i primi credenti in Cristo come una serie di gruppuscoli vagamente ispirati alla vita e all’insegnamento di Cristo, un personaggio dai contorni storici sfuocati se non addirittura mitologizzati. Ma questo, come si è detto, non sarebbe stato possibile nel mondo antico dove la religione costituiva l’identità collettiva di un gruppo e contribuiva a distinguere un gruppo dagli altri non solo per la fede e la vita cultuale, ma anche per i comportamenti sociali, per le scelte politiche, economiche, etc.. Il fatto, poi, che in alcune regioni o ambienti potessero prevalere forme alienate di Cristianesimo, non lede nulla alla fondamentale unità del Cristianesimo stesso.
Cogliamo l’occasione di esprimere in questa sede una certa delusione riguardo agli studi sul cristianesimo delle origini, perché gli studi storici, storico-letterari ed esegetici, così minuziosi e specialistici, si concentrano su frammenti che registrano spaccati molto esigui della realtà e talvolta annunciano scoperte sensazionali per dati storicamente irrilevanti oppure già noti e accantonati fin dall’antichità[58]. Ma la storia è fatta anche di frammenti! A questo, poi, si aggiunge l’incapacità dei teologi di proporre sguardi di insieme o di ricomporre il mosaico con le tessere offerte dagli storici. Ed è così che assistiamo oggi alla pubblicazione di manuali di teologia che sembrano zibaldoni di dati storici e che rischiano di far perdere la trebisonda nel mare di pedanti dettagli.
In considerazione di quest’ultima divagazione, riteniamo che la prospettiva unitaria che abbiamo proposto in questo nostro esiguo contributo, sia veramente “teologica” e “sapienziale” e, per questo, siamo convinti che sia necessario guardare al Cristianesimo originario come ad un movimento di persone che riconobbero Gesù di Nazareth come Signore e Cristo; questo movimento, sebbene diffuso a diverse latitudini, ebbe la consapevolezza di essere un unico popolo e un’unica nazione, nonostante si diffondessero visioni diverse di Cristo e scritti non in sintonia con la primitiva predicazione apostolica e missionaria.
Note al testo
[1] Questo è quanto rimproverano A. Destro e M. Pesce a coloro che preferiscono visioni piuttosto unitarie del cristianesimo delle origini cf. A. Destro – M. Pesce, Come è nato il cristianesimo, in Annali di Storia dell’esegesi 21/2 (2004), 529 – 531.
[2] Sul concetto di “religione” nel mondo antico gli studi sono sterminati, per comodità rimandiamo a W. Stegemann, The Emergence of Early Christianity as a Collective Identity Pleading for a Shift in the Frame, in Annali di Storia dell’Esegesi 24/1 (2007), 114, che si rifà a S. K. Stowers, A Rereading of Romans: Justice, Jews and Gentiles, New Haven 1994, 26ss. Su questo stesso argomento è intervenuto anche M. Pesce, Quando nasce il cristianesimo? Aspetti dell’attuale dibattito storiografico e uso delle fonti, in Annali di Storia dell’esegesi 20/1 (2003), 39 – 56.
[3] Il termine identità collettiva evoca il greco di ethnos, laos, genos cf. S. C. Mimouni, Qu’est-ce qu’un “chretien” aux I et II siècles? Identité ou conscience? in Annali di storia dell’esegesi 27/1 (2010), 13. Stegeman preferisce anche “etnicità” al concetto di “religione” cf. W. Stegeman, The Emergence of God’s New People. The Beginnings of Christinity Reconsidered, in Annali di storia dell’esegesi 21/2 (2004), 497 – 513.
[4] Cf. W. Stegemann, The Emergence, 114 – 117; M. Pesce, Quando nasce, 40. Recentemente S. C. Mimouni ha proposto di parlare di “coscienza cristiana” piuttosto che di “identità cristiana” ed ha portato il caso della comunità di Antiochia cf. S. C. Mimouni, Qu’est-ce qu’un “chretien” aux I et II siècles? Identité ou conscience? in Annali di storia dell’esegesi 27/1 (2010), 11 – 34. In questo caso il concetto di “coscienza” metterebbe in evidenza il fatto che “si diviene” cristiani, mentre l’identità ha un significato più statico, in tal senso si metterebbe in discussione il concetto di “etnicità”. Questa impostazione porterebbe a collocare la reale separazione del cristianesimo dal giudaismo al IV secolo e non più al II secolo cf. S. C. Mimouni, Qu’est-ce, 32; il che ha già dei precedenti in D. Boyarin, Dying for God. Martyrdom and the Making of Christianity and Judaism, Stanford 1999, 8, secondo cui fino al IV secolo è molto difficile definire i confini tra cristiani e giudei
[5] R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, Roma 2011, 231.
[6] Cf. R. E. Brown, Not Jewish Christianity and Gentile Christianity but Types of Jewish/Gentile Christianity, in Catholic Biblical Quarterly 45 (1983), 74 – 79; J. D. Crossan, The Birth of Christianity. Discovering what happened in years immediately after the Execution of Christ, S. Francisco 1998; S. C. Mimouni, Le Judéo-christianisme ancient. Essais historiques, Paris 1998, 19; A. Destro – M. Pesce, Come è nato, 531 – 33.
[7] Cf. R. Penna, Le prime comunità, 234.
[8] Questa è la posizione di W. Stegemann, The Emergence, 120. A. Destro e M. Pesce sostengono che con christianoi negli Atti degli Apostoli si intende un gruppo senza specificare di che società più vasta esso faccia parte, per cui “può trattarsi, nel linguaggio di coloro che per primi l’usarono, della designazione di uno dei tanti gruppi della costellazione giudaica in Antiochia”, cf. A. Destro – M. Pesce, Come è nato, 532.
[9] I riferimenti a Paolo sono in W. Stegemann, The Emergence, 120 – 121: 1 Cor. 10, 32; 2 Cor. 11, 24 – 29; Rom. 1,7.
[10] Cf. R. Penna, Le prime comunità, 237.
[11] In questa sede non possiamo trattare delle varie chiese cristiane primitive: giudeo-cristiane, paoline, post-paoline, di tradizione sinottica, giovannee, d’Egitto, per le quali sono date sufficienti informazioni nel volume di R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, Roma 2011.
[12] Cf. R. Penna, Le prime comunità, 35 – 42, dove l’autore tratta appunto del “movimento di Gesù”.
[13] Per Stegemann la 1 Ptr. rifletterebbe questo momento.
[14] Cf. W. Stegemann, The Emergence, 122- 123.
[15] Gli studi sui rapporti tra cristiani ed ebrei sono sterminati, quanto alla capacità delle autorità romane di distinguere i cristiani dai giudei, rimandiamo ad uno dei più recenti: S. Spence, The Parting of the Ways. The Roman Church as a Case Study, Leuven 2004, 135. La posizione di Spence è ritenuta troppo assertiva da parte di E. Prinzivalli che comunque riconosce come fondamentale la data dell’episodio persecutorio del 64, cf. E. Prinzivalli, La Prima lettera di Clemente ai Corinzi e il cristianesimo romano, in Ricerche storico bibliche 23/1 (2011), 130. Inoltre va notato come le chiese paoline e quelle giovannee, oltre ad essere liminali rispetto al giudaismo, lo fossero ancor di più rispetto al circostante mondo pagano, cf. R. Penna, Le prime comunità, 237.
[16] Cf. R. Penna, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, Bologna 2006, 245 – 295, dove vengono riportate tutte le testimonianze del mondo pagano sui cristiani.
[17] E’ stato notato come la cosiddetta “retorica della superiorità” all’interno della “retorica per il reclutamento” contraddistinguesse tutti i gruppi nel mondo greco-romano. Di questa retorica si servirono anche i primi credenti in Cristo, per rinsaldare la propria identità cf. R. S. Ascough, Defining Community-Ethos in Light of the ‘Other’: Recruitment Rhetoric Among Greco-Roman Associations, in Annali di Storia dell’Esegesi 24/1 (2007), 59 – 75.
[18] Cf. F. Bovon, The Emergence of Christianity, in Annali di Storia dell’Esegesi 24/1 (2007), 13 – 29. Cf. anche nostra nota 11, dove abbiamo citato il volume di R. Penna.
[19] Cf. 1 Thess. 4, 14. A. Di Berardino, Percorsi di koinonia nei primi secoli cristiani, in Concilium 37/3 (2001), 68.
[20] Cf. F. Bovon, The Emergence, 21.
[21] Questo è l’atteggiamento di Papia di Gerapoli, come vedremo nel frammento che presenteremo più avanti. Cf. F. Bovon, The Emergence, 22.
[22] Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 3, 39,3-4, trad. it.: C. dell’Osso (a cura di), I Padri apostolici, Roma 2011, 164.
[23] Cf. M. Pesce, Quando nasce, 47, secondo lui occorre ricostruire la storia delle diverse correnti proto cristiane da Gesù fino alla fine del II secolo non soltanto alla luce della testimonianza derivante dai ventisette scritti del NT, ma anche dalle opere proto-cristiane non-neotestamentarie, ovvero le opere apocrife.
[24] Cf. C. E. Hill, Who chose the Gospels? Probing the Great Gospel Cospiracy, OxfordUniversity Press 2010.
[25] Cf. C. E. Hill in un suo intervento dal titolo: Skeat’s Thesis, not Dead yet? On the Making of P4, P64 and P7, tenuto al Meeting annuale della Society of Biblical Literature, Atalanta 2010, ha riconsiderato la possibilità dell’esistenza del codice contenente più vangeli. Si è pensato anche che all’origine della diffusione del “codice” ci fosse la necessità dei cristiani di collocare insieme i quattro vangeli oppure le lettere di Paolo cf. C. H. Roberts – T. C. Skeat, The Birth of Codex, London 1983; H. Y. Gamble, Books and Readers in the Early Church: a History of Early Christian Texts, New Haven 1995. Ma recentemente queste ipotesi sono state messe in discussione da R. S. Bagnall, che invece colloca l’origine e la diffusione del codice in ambito romano considerando la diffusione del codice come un segno della “romanizzazione” del Mediterraneo, cf. R. S. Bagnall, Early Christian Books in Egypt, Princeton 2009, 70 – 90.
[26] Cf. T. C. Skeat, The oldest manuscript of the four Gospels?, in New Testament Studies 43 (1997), 1 – 34. L’ipotesi di Skeat venne accolta con favore da G. N. Stanton, The Fourfold Gospel, in New Testament Studies 43 (1997), 317 – 46. Invece la stessa ipotesi è stata fortemente criticata e rigettata da P. M. Head, Is P4, P64 and P67 the oldest manuscript of the Four Gospels? A Response to T. C. Skeat, in New Testament Studies 51 (2005), 450 – 457 e da S. D. Charlesworth, T. C. Skeat, P64+67 and P4, and the Problem of Fibre Orientation in Codicological Reconstruction, in New Testament Studies 53 (2007), 582–604.
[27] Cf. W. L. Petersen, Tatian’s Diatessaron: its Creation, Dissemination, Significance and History in Scholarship, Leida 1997; P. M. Head, Tatian’s Christology and its Influence on the Composition of Diatessaron, in Tyndale Bulletin 43/1 (1992), 121 – 133.
[28] B. M. Metzger, Il canone, 1997, 107.
[29] Giustino, I apologia 67, 3 – 5.
[30] Cf. Giustino, I apologia 66,3.
[31] B.M. Metzger, Il canone, 132.
[32] Cf. B.M. Metzger, Il canone 132.
[33] Didaché 14,1, trad. it. C. dell’Osso, I Padri apostolici, 28.
[34] Lettera ai Magnesii 9,1, dove si attesta che non si celebra più il sabato, bensì il giorno del Signore.
[35] Cf. Apocalisse 1, 10 dove è scritto: «rapito in estasi, nel giorno del Signore…».
[36] G. Visonà in Didachè. Insegnamento degli apostoli, Milano 2000, 24.
[37] E. Mazza, L’anafora liturgica. Studi sulle origini, Roma 1992.
[38] Cf. S. Marsili, A. Nocent, M. Augé, A.J. Chupungoco, Eucaristia: teologia e storia delle celebrazione, Casale Monferrato 1983, 16.
[39] Ibid.
[40] Cf. V. Saxer, Les Rites de l’initiation chrétienne du IIe au VIe siècle. Esquisse historique et signification d’après leurs principaux témoins, Spoleto 1988; K. McDonnell – G. T. Montague, Iniziazione cristiana e battesimo nello Spirito Santo. Testimonianze dei primi otto secoli, Bologna 1993.
[41] Lettera di Clemente romano ai Corinti 41,1, trad. it. C. dell’Osso, I Padri apostolici, 63.
[42] Cf. M. Simonetti, Presbiteri e vescovi nella chiesa del I e II secolo, in Vetera Christianorum 33 (1996), 132. Per Simonetti da poco si era imposta la nuova forma di organizzazione ecclesiale del monoepiscopato Cf. M. Simonetti, Eresia ed ortodossia ad Antiochia nei primi tre secoli, in Salesianum 58 (1996), 650.
[43] Noi utilizziamo i termini monoepiscopato ed episcopato monarchico come sinonimi, ma non tutti gli studiosi lo fanno, alcuni con monoepiscopato definiscono una situazione originaria in cui il vescovo aveva il ruolo di un primus inter pares con i presbiteri, mentre solo dopo il vescovo si sarebbe imposto come capo assoluto della comunità al di sopra di tutti.
[44] Cf. E. Prinzivalli – M. Simonetti, Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini, Milano 2010, I, 294.
[45] Cf. F. W. Schlatter, The Restoration of Peace in Ignatius’Antioch, in Journal of Theological Studies n.s. 34 (1984), 465 – 9; circa la situazione conflittuale ad Antiochia Cf. M. Simonetti, Eresia ed ortodossia, 649 – 653, che sostiene apertamente: «In effetti per quel che consta a noi, negli ultimi decenni del I secolo nelle comunità cristiane si era vastamente diffuso l’istituto del collegio dei presbiteri quale organo direttivo, così come lo era nelle comunità giudaiche della diaspora», 650.
[46] Alcuni studiosi sostengono che la contrastata elezione episcopale di Ignazio e il modo forte di esercitare il suo ministero avrebbero favorito l’insorgere delle discordie interne cf. E. Prinzivalli – M. Simonetti, Seguendo Gesù, 297 – 98; M. Simonetti, Eresia ed ortodossia, 650; C. P. Hammond Bammel, Ignatian problems, in Journal of Theological Studies n.s. 33 (1982), 78ss .
[47] Cf. Ascensione di Isaia 11, 8ss.. Secondo Norelli, il gruppo contro cui si scagliava Ignazio sarebbe stato costituito da alcuni carismatici che pretendevano di avere una conoscenza delle gerarchie angeliche e del mondo celeste e per cui Gesù Cristo sarebbe stato un essere celeste venuto dall’alto, etc. cf. E Norelli, Modelli carismatici di Chiesa e loro tramonto nella Siria occidentale del II secolo: ciò che ci insegnano l’Ascensione di Isaia e Ignazio di Antiochia, in A. Carfora – E. Cattaneo (a cura di), Profeti e profezia: figura profetiche nel cristianesimo del II secolo, Trapani 2007, 44 – 52. Anche Goulder ha sostenuto il carattere giudeocristiano radicale, di tipo ebionitico, del docetismo contrastato da Ignazio cf. M. D. Goulder, Ignatius’ Docetists, in Vigiliae Christianae 53 (1999), 16 – 30.
[48] Cf. P. J. Donahue, Jewish Christianity in the Letters of Ignatius of Antioch, in Vigiliae Christianae 32 (1978), 81.
[49] In Filadelfiesi 8,2 Ignazio rispondendo a coloro che sospettavano che qualcuno lo avesse avvertito della situazione della comunità a Filadelfia, dice che era stato lo Spirito a suggerirglielo; a nostro avviso è plausibile che Ignazio non fosse stato avvertito in precedenza, perché poteva aver immaginato la presenza dello stesso gruppo di eretici che erano ad Antiochia anche in Filadelfia e nelle altre città d’Asia.
[50] Cf. E. Cattaneo, L’origine apostolica dell’episkopé nella lettere di Clemente ai Corinzi (I Clem. 40 – 44), in Rassegna di Teologia 51 (2010), 375, n. 68.
[51] Per questo aspetto ci riferiamo a F. Bovon, The Emergence, 24 – 26.
[52] W. A. Meeks, I cristiani dei primi secoli. Il mondo sociale dell’apostolo Paolo, Bologna 1992, 207.
[53] Per quanto riguarda i viaggi nell’antichità cf. L. Casson, Travel in Ancient World, Baltimore 1994; C. Adams – R. Laurence, Travel and Geography in the Roman Empire, London 2001. Nel II secolo moltissimi si recarono a Roma per coltivare i rapporti con la chiesa della capitale e confrontare il loro insegnamento: Giustino, Abercio, Taziano, Policarpo, Montano, Egesippo, Ireneo, Origene, Marcione, Noeto, etc.
[54] Cf. A. Di Berardino, Percorsi, 67 – 85.
[55] Cf. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 4, 22. Egesippo fu a Roma dal 155 al 189. Cf. A. Di Berardino, Percorsi, 72.
[56] Cf. F. Bovon, The Emergence, 25.
[57] A. Di Berardino, Percorsi, 84.
[58] E’ significativo che molta letteratura cristiana extracanonica dell’epoca precostantiniana non si trova nella tradizione manoscritta medievale ed è conosciuta solo grazie alle recenti scoperte archeologiche. Secondo R. G. Bagnall, questo sarebbe dovuto al fatto che tali scritti rappresentano alcuni gruppi molto limitati di cristiani, per questo “not objective witnesses to the early character of Christianity” cf. R. G. Bagnall, Early Christian Books in Egypt, Princeton 2009, 3.