«È paradossalmente più facile sentirsi ebrei per via di un nonno deportato ad Auschwitz che assumersi l’impegno di una ricerca costante delle proprie radici attraverso lo studio e la pratica in un vissuto quotidiano», di rav Roberto Della Rocca
Riprendiamo per gentile concessione dell’autore, uno dei rabbini della comunità ebraica di Roma e nostro amico, un post da lui pubblicato sul suo profilo Facebook il 29/1/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfonmdimenti sulla Shoah vedi su questo stesso sito la mostra on-line Voci dalla Shoah. Per approfondimenti sull'identità ebraica vedi la sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (10/2/2013)
Dopo le celebrazioni, i filmati, le trasmissioni televisive, gli incontri, i convegni, le visite ad Auschwitz, ci domandiamo oggi su come e quanto tutta questa informazione abbia sensibilizzato ed educato noi stessi e chi ci circonda. Torniamo a interrogarci, con sana preoccupazione, sulle finalità della didattica della Shoah: che cosa significa e che cosa comporta trasmettere la Shoah?
Quali risultati vogliamo raggiungere? Basta informare? E che cosa vogliamo che si generi da questo Giorno della Memoria: solidarietà, commozione, responsabilità, consapevolezza o impegno etico e politico? Ma l'interrogativo ancora più inquietante che mi assale oggi è: quando rivedremo nelle nostre attività comunitarie quei molti ebrei che abbiamo incontrato in questi giorni nelle varie sedi istituzionali cittadine?
Anche questa, non meno dell'insidia dell'oblio, è una pericolosa degenerazione che contagia sempre di più molti ebrei che, sentendosi oggetto di attenzione per un giorno all’anno, privilegiano un vettore identitario, quello della religione della Shoah, che, seppur stringente, costituisce un impegno meno oneroso rispetto a una militanza ebraica attiva e creativa.
In questo senso la celebrazione della Shoah rischia di trasformarsi, anche per gli stessi ebrei, in una sorta di scorciatoia identitaria. È paradossalmente più facile sentirsi ebrei per via di un nonno deportato ad Auschwitz che assumersi l’impegno di una ricerca costante delle proprie radici attraverso lo studio e la pratica in un vissuto quotidiano.
Se una politica educativa basata su un’ informazione pura o basata sulla semplice emozionalità non hanno saputo sensibilizzare l’altro, è perché forse non abbiamo ancora fatto lo sforzo, in quanto ebrei, di porre questa storia in un contesto presente, più ampio e condiviso, partendo dalle nostre idee, dai nostri paradigmi culturali, dalle nostre pratiche religiose, dallo studio dei nostri testi e della nostra storia, dai nostri doveri etici e sociali, e dall’attualità, per poterle tessere insieme e trasformarle in maniera duratura e significativa.