Se le liste del Senato le facesse Chesterton, ci sarebbero Aristotele e San Benedetto (e mio nonno), di Annalisa Teggi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Annalisa Teggi pubblicato il 28/1/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi su questo stesso sito la pagina tematica Testi di e su G.K. Chesterton.
Il Centro culturale Gli scritti (3/2/2013)
«Non ho mai capito – si chiedeva il signor Chesterton nel libro Ortodossia – da dove è saltata fuori l’idea che la democrazia sia qualcosa di opposto alla tradizione». E aggiungeva: «È ovvio che la tradizione non è altro che la democrazia estesa nel tempo. È dare credito al consenso dell’intera comunità delle voci umane piuttosto che a qualche isolata testimonianza. La tradizione può essere definita come un’estensione del diritto di rappresentanza. Tradizione significa dare il diritto di voto alla più oscura delle classi, quella dei nostri predecessori».
Evidentemente, pur dicendo «è ovvio», sapeva bene di aver acceso la miccia di una discussione. Perché non è più affatto così ovvio; oggi, appena uno usa la parola «tradizione» per lo meno si tira addosso un sacco di imprecazioni. Bene, ce ne prenderemo la nostra razione! – pare aggiungere Chesterton, che così replica ai suoi oppositori: «Quelli che s’infervorano contro la tradizione, dicendo che gli uomini del passato erano ignoranti, possono andare a dirlo nei circoli alla moda, insieme alla dichiarazione che gli elettori delle periferie sono ignoranti. La democrazia ci insegna di non trascurare l’opinione di un brav’uomo, anche se è uno stalliere; la tradizione ci chiede di non trascurare l’opinione di un brav’uomo, anche se è nostro padre. Avremo i morti nei nostri consigli. Gli antichi Greci votavano con le pietre; i morti voteranno con le loro pietre sepolcrali. È una cosa del tutto regolare e ufficiale, visto che le schede elettorali tanto quanto le tombe si contrassegnano con una croce».
Mi è venuta in mente quest’ultima frase qualche giorno fa, mentre ascoltavo su un canale qualsiasi la cronaca sulla campagna elettorale: si sono messi in castigo gli impresentabili, si è fatta la cernita dei riciclati, si è verificato quanto e come è stato rispettato il sacro dogma delle quote rose e ora comincia il gioco dell’indovina chi-sta-con-chi per avere la maggioranza in Senato. Ed è a questo punto che mi sono venuti in mente i morti al governo di cui parla Chesterton, perché penso che la nostra situazione sia meno fragile di come ce la si fa vedere. È fragile pensare che il nostro futuro dipenda interamente e solo da ricette anti-crisi, agende di governo, contratti con gli italiani. È fragile, perché se è vero che noi siamo quelli che concretamente si inoltreranno nell’incerto futuro prossimo, è fatale incamminarsi giudicando che quello che è alle nostre spalle è solo passato. È falso che si insinui l’idea che questo oceano profondo della crisi sia fatto solo di vorticose correnti che ci possono inabissare da ogni parte e che, quindi, a noi non resta che aggrapparci a corde lanciate d’urgenza. Non dico che la situazione sia facile, ma che diventa fragile se dimentichiamo che nel senato civile della nostra comunità c’è già una maggioranza forte che ci tende la mano.
Geograficamente non siamo inabissati, la nostra penisola è un avamposto di terra in mezzo alle acque, e non sta a galla solo perché è attaccata all’Europa – dall’arco alpino. Sta a galla perché è edificata sulla grande storia che ha attraversato il Mediterraneo. La voce della tradizione non è una dittatura, ma ha la forza di ricordarci che sono vere quelle cose essenziali che da sempre gli uomini hanno in comune. Qualcosa che non si può mettere in discussione c’è, non è tutta burrasca e solo precipizio. Ma di sicuro questo avamposto di solida terra diventa invisibile, se noi cominciamo a dubitare di cose che Aristotele, San Benedetto e mio nonno ritenevano indubitabili.
Idealmente io vedo queste tre figure stabilmente sedute nel nostro senato, come protagonisti tuttora autorevoli della nostra cosa pubblica. I primi due sono cardini portanti della Storia di cui siamo fatti. Il terzo, adattando le sembianze al contesto personale di ciascuno, è ancora più concretamente all’origine della storia di cui siamo fatti; parlando per me, posso dire che la voce di grandi uomini come Aristotele e San Benedetto non mi è arrivata solo dopo aver fatto l’interrogazione di filosofia al liceo o dopo l’esame di storia medievale all’università, ma stava già nel sottofondo dell’esperienza semplice e contadina che ho conosciuto tenendo per mano chi ha messo al mondo mio padre. Quella voce antica è arrivata a me attraverso una viva catena umana di gente che, pur non avendo nozioni di greco o latino, sentiva nella vita quotidiana la verità delle cose essenziali e comuni già presenti nella Politica di Aristotele e nella Regola di San Benedetto.
Mi è facile immaginare pronunciate da mio nonno, di sicuro in dialetto, le parole con cui Aristotele si introduce a parlare della sua visione politica: «Guardando al modo in cui le cose nascono dal loro principio, si otterranno risultati migliori. Prima di tutto è necessario unire i termini che non possono sussistere separatamente, per esempio la femmina e il maschio in quanto strumenti di generazione; e tali non sono perché se lo propongono, ma perché è naturale per l’uomo come per gli altri animali e le piante il mirare a lasciare un qualche altro essere simile a sé». Insomma, la distinzione sessuale guardata nel suo dato naturale come principio generativo.
Mi è ancora più facile vedere nel lavoro di mio nonno la pratica quotidiana della visione economica con cui San Benedetto rimise in piedi l’Europa, in un tempo in cui ben si poteva usare la parola crisi. Ora et labora. È una sintesi eccellente, non certo uno slogan; non vuol semplicemente dire «recita il rosario e poi abbassa la testa e zappa». È una visione pienamente umana dell’umano: perché l’uomo normalmente ora et labora, e non solo labora. Ognuno può dare al pregare il significato che preferisce, perché è innanzitutto lo stare nel mondo con inter-esse. L’esserci immersi, il riconoscersi consistenti dentro la trama delle cose; non solo meramente operativi, ma operanti e reagenti all’accadere di tutto. Sentire la sostanza semplice di questa nostra consistenza è necessario, a maggior ragione quando si fa cupo l’orizzonte sul labora e ci vengono continuamente snocciolati i dati allarmanti sulla disoccupazione.
Anche in questo caso mi vengono in soccorso altre parole del signor Chesterton, che colgono il punto in modo più spicciolo e concreto: «È semplicemente falso pensare che la politica non sia altro che espressione dell’economia. Significa confondere le condizioni indispensabili della vita con le normali preoccupazioni della vita, che sono tutt’altra cosa. È come dire che, visto che si cammina su due gambe, si cammina solo per andare a comprarsi le scarpe. [...] Quello che più occupa la mente dell’uomo non è il meccanismo necessario alla sua esistenza, ma piuttosto l’esistenza stessa, il mondo che egli vede ogni mattina quando si sveglia. Qualche cosa gli preme più del vitto, ed è la vita. Per una volta che pensa ai problemi del lavoro e al guadagno che gli permette o meno di campare, egli penserà almeno dieci volte che la giornata è magnifica, o che il mondo è proprio strano, o che la vita è degna di essere vissuta, o che la vita matrimoniale non è poi così rose e fiori, e si compiacerà o si dispererà coi suoi bambini, o rimpiangerà la sua giovinezza. E questo avviene alla maggioranza degli schiavi salariati di questo nostro moderno e morboso industrialismo, la cui schifosa inumanità spinge in prima linea i fatti economici. [...] Anche questi aridi pedanti, che fanno dipendere la morale dall’economia, devono ammettere che l’economia dipende dall’esistenza. Le nostre quotidiane incertezze e fantasticherie riguardano l’esistenza: non il come possiamo vivere, ma il perché si vive» (da L’uomo eterno).