Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica. File audio e antologia di testi delle lezioni di un corso tenuto da Andrea Lonardo presso l'Istituto di Scienze religiose Ecclesia Mater
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Riprendiamo ad experimentum per valutare l'opportunità della presenza di files audio sul nostro sito le lezioni tenute da Andrea Lonardo nel I semesetre dell'anno accademico 2012/2013 presso l'Istituto di Scienze religiose Ecclesia Mater. Per altri files audio vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti sul CCC vedi su questo stesso sito Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, di Andrea Lonardo).
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2013)
N.B. Manca la registrazione delle prime due ore di lezione.
Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Lezioni III e IV
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Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Lezioni V e VI
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Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Lezioni VII e VIII
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Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Lezioni IX e X
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Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Lezioni XI e XII
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Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Lezioni XIII e XIV
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Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Lezioni XV e XVI
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Andrea Lonardo: Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica 2012/2013
Traccia ed antologia di testi per il Corso Introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica
Nota previa
Per l’esame è richiesta una conoscenza della storia del CCC e delle problematiche connesse alla sua origine. Inoltre una conoscenza approfondita delle prime sezioni dei quattro capitoli del CCC.
Si consiglia l’edizione con commento teologico di Piemme, Casale Monferrato, 1993.
Inoltre, l’articolo, A. Lonardo, Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, in M. Cozzoli (ed.) Pensare, professare, vivere la fede, LUP, Roma, 2012, pp. 473-507.
1/ La grande questione del Catechismo: esiste una fede della Chiesa? Ed essa può essere detta?
da Ratzinger Joseph, La trasmissione della fede e le fonti della fede, Conferenza tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger il 15 gennaio 1983 nella basilica di Notre-Dame di Fourvière a Lione ed il 16 gennaio 1983 nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi (il testo integrale è disponibile on-line su www.gliscritti.it nella sezione Catechesi e pastorale)
Un primo grave errore fu quello di sopprimere il catechismo e di dichiarare "sorpassato" il genere stesso del catechismo. Certo, il catechismo come libro è divenuto comune soltanto al tempo della Riforma; ma la trasmissione della fede, come struttura fondamentale nata dalla logica della fede, è vecchia quanto il catecumenato, cioè quanto la Chiesa stessa. Essa scaturisce dalla natura stessa della sua missione e, dunque, non si può rinunciarvi. La rottura con una trasmissione della fede attinta nella sua strutturazione fondamentale alle fonti di una tradizione presa nella sua globalità, ha avuto come conseguenza la frammentazione della proclamazione della fede. Essa fu non solo arbitrariamente accolta nella sua esposizione, ma anche messa in discussione in alcune sue parti, che appartengono a un tutto e che, staccate da esso, appaiono sconnesse.
Cosa vi era dietro questa decisione errata, affrettata e universale? Le ragioni sono molteplici e fino a ora poco esaminate. Sicuramente questa decisione è da mettere in rapporto con la evoluzione generale dell'insegnamento e della pedagogia, caratterizzata da una ipertrofia del metodo rispetto al contenuto delle diverse discipline. I metodi diventano i criteri del contenuto e non più i veicoli di esso. L'offerta si regola sulla domanda: è così che sono state tracciate le vie della nuova catechesi nella disputa sul catechismo olandese.
Ne conseguì che ci si limitò alle questioni per principianti, invece di cercare le vie che avrebbero permesso di superarle e di arrivare a ciò che inizialmente non si comprendeva, unico metodo che modifica positivamente l'uomo e il mondo. Così, il potenziale di cambiamento proprio della fede fu paralizzato. Infatti la teologia pratica non era più intesa come uno sviluppo concreto della teologia dogmatica o sistematica, ma come un valore in sé. Ciò corrispondeva, di nuovo, alla tendenza attuale a subordinare la verità alla prassi, che, nel contesto delle filosofie neo-marxistiche e positivistiche, ha fatto breccia anche in teologia.
Tutti questi fatti contribuirono a impoverire considerevolmente l’antropologia: precedenza del metodo sul contenuto significa predominanza dell'antropologia sulla teologia, di modo che questa dovette trovarsi un posto nel contesto di un antropocentrismo radicale. Il declino dell'antropologia fece apparire, a sua volta, nuovi centri di gravità: supremazia della sociologia, o, ancora, primato della esperienza, come nuovi criteri di comprensione della fede tradizionale.
Dietro a queste cause e ad altre ancora, che si possono trovare nel rifiuto del catechismo e nel crollo della catechesi classica, vi è tuttavia un processo più profondo. Il fatto di non avere più il coraggio di presentare la fede come un tutto organico in se stesso, ma solamente come una serie di riflessi scelti di esperienze antropologiche parziali, si fondava, in ultima analisi, su di una certa diffidenza nei riguardi della totalità.
Esso si spiega con una crisi della fede, meglio: della fede comune alla Chiesa di tutti tempi. Ne risultava che la catechesi ometteva generalmente il dogma e tentava di ricostruire la fede direttamente a partire dalla Bibbia. Ora, il dogma non è niente altro, per definizione, che interpretazione della Scrittura, ma questa interpretazione, nata dalla fede dei secoli, non sembrava più potersi accordare con la comprensione dei testi, a cui il metodo storico aveva nel frattempo condotto. In questo modo, coesistevano due forme di interpretazione apparentemente irriducibili: la interpretazione storica e quella dogmatica.
Ma quest'ultima, secondo le concezioni contemporanee, poteva essere considerata solo come una tappa pre-scientifica della nuova interpretazione.
da J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, p. 26
I Simboli [della fede], intesi come la forma tipica ed il saldo punto di cristallizzazione di ciò che si chiamerà più tardi dogma, non sono un’aggiunta alla Scrittura, ma il filo conduttore attraverso di essa; sono il canone nel canone, appositamente elaborato; sono per così dire il filo di Arianna, che permette di percorrere il Labirinto e ne fa conoscere la pianta.
Conseguentemente, non sono neppure la spiegazione che viene dall’esterno ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura.
[Contro questa visione del dogma] una tendenza molto più forte considera la fede della comunità in maniera completamente diversa: poiché, si dice, ciò che è comune ed oggettivo non può più essere fondato e colto, la fede allora è, di volta in volta, ciò che la comunità presente pensa e, nello scambio delle idee («dialogo»), raggiunge come convinzione comune. La «comunità» prende il posto della chiesa, la sua esperienza religiosa quello della tradizione ecclesiastica. Con una siffatta concezione si è abbandonato non solo la fede, nel senso vero e proprio del termine, ma si è rinunciato logicamente anche ad una reale predicazione ed alla chiesa stessa; il «dialogo», di cui ora si parla, non è una predicazione, ma un dialogo con se stessi, seguendo l’eco di antiche tradizioni.
da Paolo Asolan, Per una più consapevole e vigorosa adesione al vangelo, Lateran University Press, in corso di pubblicazione
Il 15 gennaio 1969 Hubert Jedin – celebre storico del concilio tridentino[1] ed egli stesso coinvolto nello studio del congegno procedurale del Vaticano II e nella riforma degli studi teologici – pubblicò un articolo su L'Osservatore Romano, dal titolo Storia della Chiesa e crisi della Chiesa[2].
Tale crisi veniva da lui classificata come una crisi liturgica, dell'autorità e di fede: quest'ultima – la più grave – identificabile con il venir meno del «privilegio della Chiesa cattolica di dire chiaro e univocamente ai suoi fedeli ciò che devono credere»[3].
Lo storico paragonò i mutamenti ai quali la fede era sottoposta nell'immediato dopo Concilio a quelli avvenuti in due diversi passaggi cruciali della storia della Chiesa, e cioè il tramonto della cultura ellenistico-romana e la Riforma luterana. In entrambi i casi, la vita e la missione della Chiesa poterono continuare sia per un rafforzamento dell'autorità istituzionale dei suoi pastori (debitamente ri-formata e ri-converita al suo statuto evangelico), sia per il ristabilimento della sicurezza della fede, dando così anche alla teologia un fondamento certo sopra il quale esercitarsi.
«La Chiesa ha potuto resistere e sopravvivere a entrambe le crisi che noi abbiamo tirato in campo come oggetti di confronto, perché ha messo al primo posto la preservazione del patrimonio rivelato affidatole, mediante il magistero. La teologia dopo la caduta del mondo antico non ha potuto mantenersi all'altezza che aveva raggiunto all'epoca dei grandi Padri della Chiesa, con un Origene e un Agostino. Il magistero ecclesiatico ha ripiegato su formule come il Simbolo di fede niceno-costantinopolitano, il cosiddetto Credo di Atanasio ed altri Simboli, nella istruzione del popolo e nell'evangelizzazione segnatamente si è accontentata dei più semplici strumenti dottrinari, il Credo apostolico, il Pater noster e il decalogo»[4].
La tesi – del tutto condivisibile – dello storico è questa: anche in questa sorta di “automutilazione” (e, forse, proprio in virtù di essa) il magistero ha saputo/potuto conservare la continuità della fede, organicamente espressa nei Simboli della fede.
Da qui discende un corollario pastoralmente interessante e bisognoso di esprimersi praticamente in forme assai migliori di quanto non sia finora avvenuto: il magistero della Chiesa, non la teologia, è e rimane anche oggi la norma vincolante della nostra fede.
La teologia deve cercare (con la fede!) di impadronirsi del contenuto della fede, può renderne meglio intelligibili e comprensibili i misteri, mostrando le relazioni che essi mutuamente intrattengono tra loro. Può/deve fare questo lavorando con il proprio metodo scientifico, svolgendo così un compito importante per il magistero stesso, ma non si identifica con esso.
Portatori del magistero sono e rimangono i successori degli apostoli.
Emerge sotto questo profilo, il compito fondamentale del vescovo e una nota saliente della sua figura la quale, nella percezione diffusa, «appare come la più sbiadita delle figure ecclesiali: riferita, perlopiù, al conferimento della cresima, o al ruolo di direzione della Chiesa (dei preti) su un determinato territorio, per mandato e in rappresentanza del Papa»[5].
In realtà, nella sua Chiesa egli è anzitutto testimone della fede in Cristo Risorto.
Nella prospettiva neo-testamentaria, infatti, il munus profetico non fa appello, nel suo riferimento genetico e nel suo nucleo sostanziale, a un dono di ispirazione individuale (“carismatico”, com'è invalso sempre più dire, non del tutto propriamente), ma allo spessore storico-biografico della fede testimoniale[6]. Il vescovo, cioè, non è garante dell'ortodossia della fede in forza di un carisma soggettivo, e neppure della sua (peraltro auspicabile) competenza teologica, ma in forza della ininterrotta e incorrotta successione apostolica.
Rimanda egli stesso, cioè, a un evento e a una Persona storici, e li annuncia non come un fatto del passato, ma come un evento efficace, dinamico e prolettico.
La crisi della fede che stiamo attraversando, perciò, pone con sempre maggior rilievo, tra le esigenze strutturali della conversione pastorale, la forte connotazione del vescovo come pastore reale del popolo a lui affidato e primo testimone/confessore della fede apostolica. Non sarà un caso che il n. 8 del Motu proprio costituisca un invito che il Papa rivolge ai “Confratelli Vescovi di tutto l'orbe”.
da Cristo e la Chiesa. Problemi attuali di teologia e conseguenze per la catechesi, di Joseph Ratzinger, in Joseph Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo: saggi di cristologia e liturgia, Jaca Book, Milano, 1996, pp. 39-47
La situazione di fede e teologia è oggi in Europa contrassegnata ampiamente da senso di stanchezza nei confronti della Chiesa. La contrapposizione «Gesù sì, Chiesa no» sembra essere tipica del pensiero di una intera generazione. Non giova molto, di contro a questa affermazione, voler poi mettere in luce anche gli aspetti positivi della Chiesa e la sua inseparabilità da Gesù. Per comprendere il reale bisogno di fede del nostro tempo bisogna andare più a fondo.
Infatti dietro l'ampiamente diffusa contrapposizione tra Gesù e la Chiesa si nasconde ultimamente un problema cristologico. La vera e propria contrapposizione a cui ci dobbiamo opporre non viene espressa dalla formula «Gesù sì, Chiesa no»; dovrebbe piuttosto venir descritta con la frase «Gesù sì, Cristo no» oppure «Gesù sì, Figlio di Dio no».
C'è oggi una vera e propria moda di Gesù con le più diverse accentuazioni: Gesù nei film, Gesù nelle opere rock, Gesù come parola-chiave di opzioni politiche contestatrici. Tutti questi fenomeni esprimono forme di entusiasmo e passione religiosa, che vorrebbero appoggiarsi alla misteriosa e affascinante figura di Gesù e alla sua forza interiore, ma allo stesso tempo non vogliono sapere nulla di ciò che di Gesù dice la fede della Chiesa e, a suo fondamento, la fede degli evangelisti.
Gesù appare come uno degli «uomini determinanti», come ha detto Karl Jaspers. Ciò che di lui colpisce è la sua dimensione umana. La confessione di fede per cui egli è il Figlio unigenito di Dio sembra solo allontanarlo da noi, collocarlo in ambiti inavvicinabili e irreali, e sottoporlo allo stesso tempo all'amministrazione da parte del potere ecclesiastico.
La separazione tra Gesù e Cristo è allo stesso tempo la separazione tra Gesù e la Chiesa. Cristo lo si lascia alla Chiesa, sembra opera sua. Mentre lo si spinge da parte, si spera così di guadagnare Gesù e con ciò una nuova forma di libertà, di «redenzione».
Se dunque la vera e propria crisi sta nella cristologia e non nella ecclesiologia, bisogna allora chiederci: Perché è così? Quali sono le radici di questa separazione tra Gesù e Cristo, di cui del resto tratta approfonditamente già la prima lettera di Giovanni, che parla più volte di coloro che dicono che Gesù non è il Cristo (2,22; 4,3), ove la lettera mette alla pari i titoli «Cristo» e «Figlio di Dio» (2,22 e 23; 4,15 e 5,1)?
Giovanni chiama poi coloro che negano che Gesù sia Cristo «anticristi». Forse è questa, in fondo, l'origine del termine «anticristo»: essere contrari a Gesù come Cristo, non attribuirgli più il titolo di Cristo.
dalla Lectio divina su At 20,17-38 (il discorso di Mileto) di Benedetto XVI nell’incontro con i parroci e i sacerdoti della diocesi di Roma, 11/3/2011
“Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi” (v. 20). San Paolo ritorna, dopo alcune frasi, di nuovo su questo punto e dice: “Non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio” (v. 27). Questo è importante: l’Apostolo non predica un Cristianesimo “à la carte”, secondo i propri gusti, non predica un Vangelo secondo le proprie idee teologiche preferite; non si sottrae all’impegno di annunciare tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non piacciono tanto. E’ la nostra missione di annunciare tutta la volontà di Dio, nella sua totalità e ultima semplicità. Ma è importante il fatto che dobbiamo istruire e predicare - come dice qui san Paolo - e proporre realmente la volontà intera di Dio. E penso che il mondo di oggi sia curioso di conoscere tutto, tanto più dovremmo essere curiosi noi di conoscere la volontà di Dio: che cosa potrebbe essere più interessante, più importante, più essenziale per noi che conoscere cosa vuole Dio, conoscere la volontà di Dio, il volto di Dio? Questa curiosità interiore dovrebbe essere anche la nostra curiosità di conoscere meglio, in modo più completo, la volontà di Dio. Dobbiamo rispondere e svegliare questa curiosità negli altri: di conoscere veramente tutta la volontà di Dio e di conoscere così come possiamo e come dobbiamo vivere, qual è la strada della nostra vita. Quindi dovremmo far conoscere e capire - per quanto possiamo - il contenuto del Credo della Chiesa, dalla creazione fino al ritorno del Signore, al mondo nuovo. La dottrina, la liturgia, la morale, la preghiera - le quattro parti del Catechismo della Chiesa Cattolica - indicano questa totalità della volontà di Dio. E anche è importante non perderci nei dettagli, non creare l’idea che il Cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo. Ma entrare in questa semplicità - io credo in Dio che si mostra in Cristo e voglio vedere e realizzare la sua volontà – ha contenuti, e, a seconda delle situazioni, entriamo poi in dettaglio o meno, ma è essenziale che si faccia capire da una parte la semplicità ultima della fede. Credere in Dio come si è mostrato in Cristo, è anche la ricchezza interiore di questa fede, le risposte che dà alle nostre domande, anche le risposte che in un primo momento non ci piacciono e che sono tuttavia la strada della vita, la vera strada; in quanto entriamo in queste cose anche non così piacevoli per noi, possiamo capire, cominciamo a capire che è realmente la verità. E la verità è bella. La volontà di Dio è buona, è la bontà stessa.
2/ La struttura del CCC
da J. Ratzinger, Il Catechismo della Chiesa cattolica e l’ottimismo dei redenti, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma, 1994, p. 20
Infine, ci siamo però trovati d’accordo sul fatto che le analisi del presente contengono sempre qualcosa di arbitrario e dipendono troppo dal punto di vista prescelto; non esiste d’altra parte una situazione mondiale uniforme. Il contesto di un uomo che vive in Mozambico o nel Bangladesh (tanto per prendere due esempi a caso) è completamente diverso da quello di una persona che vive in Svizzera o negli Stati Uniti. Abbiamo inoltre visto quanto cambino in fretta le circostanze e le coscienze sociali. È necessario intrattenere un dialogo con le varie mentalità, ma questo rientra nei compiti delle Chiese locali, che devono rispondere alla sfida delle diverse situazioni del nostro mondo.
Il Catechismo non procede comunque in maniera semplicemente deduttiva, perché la storia della fede è una realtà di questo mondo e ha creato la propria esperienza. Il Catechismo parte da essa e quindi ascolta il Signore e la sua Chiesa, trasmettendo la parola così udita nella sua logica intrinseca e nella sua forza interna. Ciò nonostante, esso non è semplicemente “sovratemporale” e non vuole esserlo. Il Catechismo evita soltanto di legarsi troppo alle circostanze del momento, poiché desidera offrire il servizio dell’unità non solo in modo sincronico, per questa nostra epoca, ma anche in modo diacronico, per le generazioni che verranno, come hanno fatto i grandi Catechismi, soprattutto quelli del XVI secolo.
da J. Ratzinger, Il Catechismo della Chiesa cattolica e l’ottimismo dei redenti, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma, 1994, pp. 26- 27
Alcuni erano dell’opinione che il Catechismo dovesse svilupparsi in una concezione cristocentrica, altri ritenevano che il cristocentrismo dovesse essere superato dal teocentrismo. Finalmente si offrì alla nostra riflessione il concetto del Regno di Dio come principio unificatore. Dopo una discussione serrata, arrivammo alla convinzione che il Catechismo non doveva rappresentare la fede come un sistema o come un qualcosa da derivare da un unico concetto centrale [...] Dovevamo fare qualcosa di più semplice: predisporre gli elementi essenziali che possono essere considerati come le condizioni per l’ammissione al battesimo, alla vita comunionale dei cristiani. [...] Che cosa fa di un uomo un cristiano? Il catecumenato della Chiesa primitiva ha raccolto gli elementi fondamentali a partire dalla Scrittura: sono la fede, i sacramenti, i comandamenti, il Padre Nostro. In modo corrispondente esisteva la redditio symboli – la consegna della professione di fede e la sua “redditio”, la memorizzazione da parte del battezzando-; l’apprendimento del Padre Nostro, l’insegnamento morale e la catechesi mistagogica, vale a dire l’introduzione alla vita sacramentale. Tutto ciò appare forse un po’ superficiale, ma invece conduce alla profondità dell’essenziale: per essere cristiani, si deve credere; si deve apprendere il modo di vivere cristiano, per così dire lo stile di vita cristiano; si deve essere in grado di pregare da cristiani e si deve infine accedere ai misteri e alla liturgia della Chiesa. Tutti e quattro questi elementi appartengono intimamente l’uno all’altro: l’introduzione alla fede non è la trasmissione di una teoria, quasi che la fede fosse una specie di filosofia, “un platonismo per il popolo”, come è stato affermato in modo sprezzante: la professione di fede è nient’altro che il dispiegarsi della formula battesimale. L’introduzione alla fede é essa mistagogia: introduzione al battesimo, al processo di conversione, in cui non agiamo solo da noi stessi, ma lasciamo che Dio agisca in noi.
da Ch. Schönborn, Il Catechismo della Chiesa cattolica. Concetti dominanti e temi principali, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma, 1994, pp.47-48
Il cardinal Ratzinger ha formulato chiaramente questa opzione nelle conferenze tenute a Parigi e a Lione nel 1983: la struttura della catechesi «è prodotta degli atti vitali fondamentali della Chiesa, che corrispondono alle dimensioni essenziali dell’esistenza cristiana. Così è sorta nei tempi remoti una struttura catechetica che nella sostanza risale al sorgere della Chiesa, che è, cioè, altrettanto e persino più antica del Canone degli scritti biblici. Lutero ha adoperato questa struttura per i suoi catechismi altrettanto naturalmente quanto l’autore del Catechismus Romanus. Questo è stato possibile perché non si tratta di una sistematica artificiosa, ma semplicemente del compendio del materiale di cui la fede necessariamente fa memoria, e che riflette, insieme, gli elementi vitali della Chiesa: la professione di fede apostolica, i sacramenti, il Decalogo e la Preghiera del Signore».
3.1/ La confessione della fede
da Armando Cuva, Le consegne dei vangeli, del Simbolo e della preghiera del Signore nel rito romano. Dalla Bibbia alla vita ecclesiale, Queriniana, Brescia, 1999, pp. 37-40
[La consegna del Simbolo di fede] segue subito, nel Sacramentario gelasiano antico (GEL, pp. 48-51, nn. 310-318), la consegna dei vangeli. Il presbitero inizia l'«introduzione al Simbolo» (praefatio Symboli) dicendo:
«Carissimi, vi accingete a ricevere il sacramento del battesimo per essere generati come nuove creature dello Spirito Santo. Accogliete con tutto il cuore la fede, credendo nella quale sarete giustificati. Operando un vero cambiamento delle vostre anime, accostatevi a Dio, che è luce alle vostre menti, ricevendo il sacramento del Simbolo evangelico ispirato dal Signore, dettato dagli apostoli. È in verità riassunto in poche parole, ma contiene grandi misteri. Infatti, il Santo Spirito che li comunicò ai maestri della Chiesa, con un eloquio così breve ha stabilito la fede salvifica, perché ciò che deve essere sempre da voi creduto e professato né possa sfuggire all'intelligenza né affaticare la memoria.
Impegnatevi pertanto a conoscere il Simbolo. Ve lo consegniamo come l'abbiamo ricevuto. Registratelo non su materiale corruttibile, ma sulle pagine del vostro cuore. Ha così inizio dunque la professione di fede che avete ricevuto».
Un accolito, tenendo in braccio un bambino e ponendogli la mano sul capo, canta il Simbolo niceno-costantinopolitano in lingua greca; la cerimonia viene ripetuta per il canto dello stesso Simbolo in lingua latina. Terminato il canto del duplice testo del Simbolo, il presbitero ne continua la presentazione:
«Carissimi, è questo il compendio della nostra fede; sono queste le parole del Simbolo, non frutto di un discorso di umana sapienza, ma di un disegno veramente divino. Nessuno sia inidoneo o incapace a comprenderle e a custodirle.
Qui si afferma l'unico e uguale potere di Dio Padre e del Figlio. Qui viene presentato l'Unigenito di Dio nato secondo la carne dalla Vergine per opera dello Spirito Santo. Qui si proclama che egli è stato crocifisso, sepolto ed è risorto il terzo giorno. Qui si viene a conoscenza che egli è asceso sopra i cieli e siede alla destra della maestà divina e che verrà a giudicare i vivi e i morti. Qui si apprende che lo Spirito Santo è un solo Dio con il Padre e il Figlio. Qui, infine, si parla della Chiesa, della remissione dei peccati e della risurrezione della carne.
Voi dunque, dilettissimi, passate dal vecchio al nuovo uomo e cominciate a diventare da carnali che siete a spirituali, da terreni a celesti. Credetelo con sicura e costante fede: la risurrezione di Cristo dovrà avere compimento in noi tutti; ciò che si è realizzato prima nel capo dovrà verificarsi in tutto il corpo. Poiché lo stesso sacramento del battesimo che state per ricevere è espressione di tale speranza. Vi si celebra, infatti, la morte e la risurrezione. Si depone il vecchio uomo, si riveste il nuovo. Si entra peccatori nell'acqua, se ne esce giustificati. Viene abbandonato colui che condusse alla morte, si accoglie colui che riportò alla vita. È per sua grazia che vi è concesso di essere figli di Dio, generati non per volontà di carne, ma per la potenza dello Spirito Santo.
Questo brevissimo, eppur pieno compendio di dottrina deve imprimersi talmente nei vostri cuori in modo che possiate servirvi in ogni tempo del sostegno di questa confessione. È, infatti, sempre invincibile il potere di tali armi contro ogni insidia del nemico ed è di aiuto per un buon servizio nella milizia di Cristo. Il diavolo, che non lascia di tentare l'uomo, vi trovi sempre muniti da questo Simbolo, affinché, vinto l'avversario a cui avete rinunziato, possiate conservare incorrotta e immacolata sino alla fine la grazia del Signore che, da voi confessato, vi accorda la sua protezione. Possiate così godere la gloria della risurrezione in colui dal quale ricevete la remissione dei peccati. Avete, dunque, conosciuto or ora, dilettissimi, il Simbolo della fede cattolica che è stato proclamato. Andate adesso a studiarlo a fondo senza cambiarne parola alcuna. La misericordia di Dio, infatti, ha il potere di accompagnarvi nel vostro cammino alla professione di fede battesimale. A noi, che vi trasmettiamo i sacri misteri, conceda di pervenire assieme a voi nel regno dei cieli. Per lo stesso Signore nostro Gesù Cristo che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen».
Anche il rito della consegna del Simbolo nel Sacramentario gelasiano antico si caratterizza per sobrietà di impostazione. Si notino i particolari della proclamazione del Simbolo niceno-costantinopolitano, preferito al Simbolo degli apostoli. È cantato nel duplice suo testo, greco e latino. Ciò ci ricorda che la lingua greca fu usata nell'antico rito romano prima che si affermasse pienamente in esso quella latina. È espressiva la cerimonia che accompagna il canto del Simbolo: il cantore tiene in braccio un bambino, tenendogli la mano sul capo.
L’«introduzione al Simbolo» proclamata dal presbitero si distingue per la nobiltà del suo stile - mi riferisco soprattutto all'originale latino del testo qui riportato - che ben corrisponde alla ricchezza del contenuto. Non si conosce l'autore del testo. La presenza però in esso di parecchi termini di stile leoniano fa ritenere come suo autore, se non propriamente il papa san Leone Magno, uno della sua scuola [...].
Si può ancora segnalare che nello stesso sacramentario si accenna ad una riconsegna del Simbolo compiuta dagli infanti (?) il mattino del Sabato Santo (GEL, pp. 67-68, nn. 419-424). Di preciso si dice soltanto che, ad un certo momento del rito, è il celebrante a recitare il Simbolo tenendo la mano distesa sugli infanti. Si può supporre che gli si associassero i genitori e i padrini dei battezzandi.
da Agostino d’Ippona, Confessioni, VIII, 2.3-5 (sul retore Mario Vittorino, ca. 290-364; si fece cristiano in tarda età e dovette chiudere la sua scuola al tempo di Giuliano l’Apostata)
Per esortarmi [...] all'umiltà di Cristo, celata ai sapienti e rivelata ai piccoli, evocò i suoi ricordi di Vittorino, appunto, da lui conosciuto intimamente durante il suo soggiorno a Roma. Quanto mi narrò dell'amico non tacerò, poiché offre l'occasione di rendere grande lode alla tua grazia. Quel vecchio possedeva vasta dottrina ed esperienza di tutte le discipline liberali, aveva letto e ponderato un numero straordinario di filosofi, era stato maestro di moltissimi nobili senatori; così meritò e ottenne, per lo splendore del suo altissimo insegnamento, un onore ritenuto insigne dai cittadini di questo mondo: una statua nel Foro romano. Fino a quell'età aveva venerato gli idoli e partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora quasi tutta invasata, delirava per la dea del popolino di Pelusio e per mostri divini di ogni genere e per Anubi l'abbaiatore, i quali un giorno contro Nettuno e Venere e Minerva presero le armi. Roma supplicava ora questi dèi dopo averli vinti, e il vecchio Vittorino li aveva difesi per lunghi anni con eloquenza terrificante. Eppure non arrossì di farsi garzone del tuo Cristo e infante alla tua fonte, di sottoporre il collo al giogo dell'umiltà, di chinare la fronte al disonore della croce.
2. 4. O Signore, Signore, che hai abbassato i cieli e sei disceso, hai toccato i monti e hanno emesso fumo, con quali mezzi ti insinuasti in quel cuore? A detta di Simpliciano, leggeva la Sacra Scrittura, e tutti i testi cristiani ricercava con la massima diligenza e studiava. Diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in gran segreto e confidenzialmente: "Devi sapere che sono ormai cristiano". L'altro replicava: "Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo". Egli chiedeva sorridendo: "Sono dunque i muri a fare i cristiani?". E lo affermava sovente, di essere ormai cristiano, e Simpliciano replicava sempre a quel modo, ed egli sempre ripeteva quel suo motto sui muri della chiesa. In realtà si peritava di spiacere ai suoi amici, superbi adoratori del demonio, temendo che dall'alto della loro babilonica maestà e da quei cedri, direi, del Libano, che il Signore non aveva ancora stritolato, pesanti si sarebbero abbattute su di lui le ostilità. Ma poi dalle avide letture attinse una ferma risoluzione; temette di essere rinnegato da Cristo davanti agli angeli santi, se avesse temuto di riconoscerlo davanti agli uomini, e si sentì reo di un grave delitto ad arrossire dei sacri misteri del tuo umile Verbo, quando non arrossiva dei sacrilegi di demòni superbi, da lui superbamente accettati e imitati. Perso il rispetto verso il suo errore, e preso da rossore verso la verità, all'improvviso e di sorpresa, come narrava Simpliciano, disse all'amico: "Andiamo in chiesa, voglio divenire cristiano". Simpliciano, che non capiva più in sé per la gioia, ve lo accompagnò senz'altro. Là ricevette i primi rudimenti dei sacri misteri; non molto dopo diede anche il suo nome per ottenere la rigenerazione del battesimo, tra lo stupore di Roma e il gaudio della Chiesa. Se i superbi s'irritavano a quella vista, digrignavano i denti e si maceravano, il tuo servo aveva il Signore Dio sua speranza e non volgeva lo sguardo alle vanità e ai fallaci furori.
2. 5. Infine venne il momento della professione di fede. A Roma chi si accosta alla tua grazia recita da un luogo elevato, al cospetto della massa dei fedeli una formula fissa imparata a memoria. Però i preti, narrava l'amico, proposero a Vittorino di emettere la sua professione in forma privata, licenza che si usava accordare a chi faceva pensare che si sarebbe emozionato per la vergogna. Ma Vittorino amò meglio di professare la sua salvezza al cospetto della santa moltitudine. Da retore non insegnava la salvezza, eppure aveva professato la retorica pubblicamente; dunque tanto meno doveva vergognarsi del tuo gregge mansueto pronunciando la tua parola chi proferiva le sue parole senza vergognarsi delle turbe insane. Così, quando salì a recitare la formula, tutti gli astanti scandirono fragorosamente in segno di approvazione il suo nome, facendo eco gli uni agli altri, secondo che lo conoscevano. Ma chi era là, che non lo conosceva? Risuonò dunque di bocca in bocca nella letizia generale un grido contenuto: "Vittorino, Vittorino"; e come subito gridarono festosi al vederlo, così tosto tacquero sospesi per udirlo. Egli recitò la sua professione della vera fede con sicurezza straordinaria. Tutti avrebbero voluto portarselo via dentro al proprio cuore, e ognuno invero se lo portò via con le mani rapaci dell'amore e del gaudio.
da A. Nocent, Il ‘Credo’ nel suo contesto liturgico, in AA VV, Il Credo niceno-costantinopolitano, Quaderni dell’Istituto di scienze religiose della Diocesi di Conversano-Monopoli, Edizioni La Scala, Noci, 1994, pp.181-193.
I candidati al battesimo avevano bisogno di formule lapidarie, che fossero facili da imparare a memoria e che impregnassero con altrettanta facilità la loro intelligenza e il loro cuore. Per dirla con un’espressione di sant’Ireneo, ciò che occorreva a questi catecumeni, ma anche a ciascun cristiano, era una «regola di fede», o, secondo sant’Ambrogio di Milano, un «breviario della fede». Queste formule, brevi e precise, erano particolarmente legate alla catechesi battesimale. Sarà san Cipriano di Cartagine che, per la prima volta, a proposito del battesimo, chiamerà la formula «Simbolo». Cipriano sembra riferirsi a un segno particolare che permetteva di riconoscere coloro che erano iniziati ai misteri pagani. Tutte le Chiese locali avevano una loro formula del Simbolo, diversa nella forma, ma unica nella sostanza. Ma non intendiamo soffermarci su questo punto. Ciò che ci interessa qui è l’uso ‘liturgico’ del Credo.
La formula più concisa e antica che conosciamo è la professione di fede richiesta dal diacono Filippi al funzionario della regina Candace: «Credo che Gesù è il Figlio di Dio» (At 8,37). Anche se questo versetto è senza dubbio una glossa, la professione da esso riportata è stata certamente motivata dalla liturgia battesimale elementare che vi traspare ed è prova di un’usanza ormai ben radicata dell’affermazione del Credo legato al battesimo.
3.2/ La celebrazione cristiana
dall’articolo Per l'inizio dell'anno liturgico. La corona che plasma il tempo, di Inos Biffi (Osservatore Romano 24/11/2010)
L'anno liturgico è tra le più originali e preziose creazioni della Chiesa, "un poema - come diceva il cardinale Ildefonso Schuster di tutta la liturgia - al quale veramente hanno posto mano e cielo e terra".
Esso è la trama dei misteri di Gesù nell'ordito del tempo. Così, lungo il corso di ogni anno, la Chiesa rievoca gli eventi della sua nascita, della sua morte e della sua risurrezione, così che il susseguirsi dei giorni sia tutto improntato e sostenuto dalla memoria di lui. Una memoria d'altronde che, se fa volgere lo sguardo a quando quegli eventi si sono compiuti, subito fa tendere lo sguardo sul Presente, cioè sul Cristo vivente, che sovrasta e include in se stesso tutta la storia.
Facendosi uomo, il Figlio di Dio si ritrova, come ognuno di noi, "datato" e coinvolto nei confini della cronologia e, perciò, di un passato irreversibile. È l'aspetto temporale e irripetibile dei suoi misteri, che divengono l'oggetto del ricordo che li rievoca. Così nell'anno liturgico, con immensa pietà, ripassano i diversi momenti rievocati nei vangeli, e di cui è stata intessuta l'esistenza di Gesù e che non si rinnovano. E tuttavia ognuno di essi era una mediazione di grazia e concorreva a "creare" il Signore e la sua opera di salvezza.
Gesù non rinasce storicamente ogni volta che la Chiesa ne rievoca il Natale, ma quella natività fu una mediazione e un avvenimento di grazia. Come lo furono tutte le altre manifestazioni della vita terrena del Figlio di Dio: ossia, come direbbe Tommaso d'Aquino (Summa Theologiae, III, 27, prologo), "tutto quello che il Figlio di Dio incarnato fece o patì nella natura umana a lui unita" (ea quae Filius Dei incarnatus in natura humana sibi unita fecit vel passus est): tutto quello che concorse a formare il Cristo redentore.
Nello svolgimento dell'anno liturgico rimeditiamo su quei misteri, miriamo ad averne un'intelligenza più profonda, e soprattutto li ritroviamo col loro senso e con il loro valore nel Signore vivente glorioso, sul quale sono fissati gli occhi della fede e l'ardore del cuore. E in questo senso si può affermare che, narrati e tramandati d'anno in anno, non invecchiano e non si consumano mai.
3.3/ La vita in Cristo
(in G. Cavallotto, Catecumenato antico. Diventare cristiani secondo i Padri, EDB, Bologna, 2005, pp. 36-40; i testi citati sono una rielaborazione del saggio di ricostruzione della Tradizione apostolica di S. Ippolito operata da Bernard Botte - ora B. Botte, La Tradition apostolique de Saint Hippolyte. Essai de reconstitution, Münster, 1989; della Tradizione apostolica, in realtà, non si sa quasi nulla e la maggioranza dei critici diffida ormai del lavoro del Botte; ciò non toglie che i diversi testi che egli raccoglie nella sua ipotesi di ricostruzione hanno un loro valore in sé, indipendentemente dal fatto che probabilmente non hanno mai fatto parte della Tradizione apostolica; i testi sulla conversione richiesta ai catecumeni, in particolare, provengono in massima parte dalle Costituzioni apostoliche, datate da P. Nautin alla fine del IV secolo, in particolare da VIII, 32ss.; il Nautin ritiene che ne sia compilatore un certo Giuliano, forse vescovo di Neapolis presso Anazarbo, di tendenze ariane; il testo rivela anche, a nostro avviso, dei tratti che lo riconducono ad una corrente rigorista)
15. «Coloro che si presentano per la prima volta per ascoltare la parola saranno subito condotti davanti ai dottori, prima che arrivi tutto il popolo, e si chiederà loro il motivo per cui si accostano alla fede. Coloro che li hanno condotti testimonieranno a loro riguardo se sono capaci di ascoltare [la Parola].
Saranno interrogati sulla condizione della loro vita: Sono sposati? Sono schiavi? Se uno è schiavo di un fedele e il suo padrone glielo permette, ascolterà la parola. Ma sarà rimandato, se il suo padrone non potrà testimoniare che egli è buono. Se il suo padrone è un pagano, gli si insegnerà a piacere al suo padrone, perché non nasca calunnia. Se un uomo ha moglie o una donna ha marito, verrà loro insegnato ad accontentarsi, il marito della moglie, la moglie del marito. Se uno non ha moglie, gli verrà insegnato a non fornicare ma a contrarre matrimonio secondo la legge, oppure a rimanere com'è. Se uno è posseduto dal demonio, non ascolterà la parola dell'insegnamento fino a che non sia purificato».
16.«Si esamineranno i mestieri e le occupazioni di coloro che sono condotti per ricevere l'istruzione.
Se uno gestisce una casa di prostituzione, smetterà o verrà respinto.
Se uno è scultore o pittore, gli si dirà di non rappresentare idoli smetterà o sarà respinto.
Se uno è attore o dà spettacoli in teatro, smetterà o sarà respinto.
Chi fa il maestro dei fanciulli è bene che smetta. Se non ha altro mestiere, gli si permetterà di continuare.
L'auriga che gareggia o colui che prende parte ai giochi pubblici smetterà o sarà respinto.
Il gladiatore o colui che addestra i gladiatori al combattimento, il bestiario che combatte nel circo contro le fiere, o il funzionario addetto ai giochi dei gladiatori, smetterà o sarà respinto.
Chi è sacerdote o guardiano di idoli, smetterà o sarà respinto. Il soldato subalterno non ucciderà nessuno. Se riceverà un ordine del genere, non lo eseguirà e non presterà giuramento. Se non accetterà tali condizioni, sarà respinto.
Chi ha potere di vita e di morte o il magistrato supremo di una città, smetterà o sarà respinto.
Il catecumeno o il fedele che vogliono dedicarsi alla vita militare saranno respinti, perché hanno disprezzato Dio.
La prostituta, il lussurioso, il dissoluto e chiunque altro faccia cose di cui non sta bene parlare, saranno respinti, perché sono impuri.
Il mago non sia ammesso all'esame. L'incantatore, l'astrologo, l'indovino, l'interprete dei sogni, il ciarlatano, il falsificatore di monete, il fabbricante di amuleti, smetteranno o saranno respinti.
La concubina di un uomo, di cui è schiava, se ha allevato i suoi figli e si è unita a lui solo, sarà ammessa, altrimenti sarà respinta. L'uomo che ha una concubina smetterà e prenderà moglie secondo la legge: se rifiuterà, sarà respinto».
20. «Dopo aver scelto coloro che dovranno ricevere il battesimo, si esamini la loro vita: se hanno vissuto in onestà quando erano catecumeni, se hanno onorato le vedove, se hanno visitato gli infermi, se hanno praticato le opere buone. Se coloro che li hanno condotti testimoniano che si sono comportati in questo modo, ascoltino il Vangelo».
3.4/ La preghiera cristiana
da Armando Cuva, Le consegne dei vangeli, del Simbolo e della preghiera del Signore nel rito romano. Dalla Bibbia alla vita ecclesiale, Queriniana, Brescia, 1999, pp. 40-41 e 108-110
[Il rito della consegna della preghiera del Signore] segue, nel Sacramentario gelasiano antico (GEL, pp. 51-53, nn. 319-328), la consegna del Simbolo.
Il diacono ammonisce i presenti: «State in silenzio, ascoltate con attenzione». Il presbitero fa poi l'«introduzione all'orazione del Signore» (praefatio orationis dominicae), proclamando un testo attribuito a san Cromazio di Aquileia [...]. L’introduzione ha inizio con un breve prologo. Segue il commento alle singole invocazioni dell'orazione. Terminato il commento del presbitero, il diacono rivolge ai presenti una seconda ammonizione: «Siate disciplinati, state in silenzio, ascoltate con attenzione».
Il presbitero, quindi, conclude: «Avete ascoltato, dilettissimi, i santi misteri racchiusi nell'orazione del Signore. Andate adesso a fissarli nei vostri cuori, affinché, per implorare e ricevere la misericordia di Dio, possiate essere perfetti in Cristo. Il Signore nostro Dio ha il potere di condurre al lavacro della rigenerazione voi che siete in cammino verso la fede. A noi, che vi abbiamo consegnato il mistero della fede cattolica, conceda di pervenire assieme a voi nel regno dei cieli. Egli vive e regna con Dio Padre nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen».
Il rito della consegna della preghiera del Signore nel Sacramentario gelasiano antico, pur nella sua brevità, presenta la stessa linearità delle precedenti consegne dei vangeli e del Simbolo. Considerato nel suo rapporto con esse acquista un particolare significato. I candidati al battesimo, dopo una prima conoscenza del messaggio evangelico e delle verità della fede cristiana, sono in grado di ricevere in consegna la preghiera che dovranno spesso recitare, fiduciosa risposta alla chiamata di Dio e concreta espressione di sentimenti e atteggiamenti da essa suscitati.
La breve spiegazione della preghiera del Signore fatta loro dal presbitero segna l'inizio di un suo gioioso approfondimento che dovrà facilitare uno stile di vita ispirato ai grandi ideali del cristianesimo.
Si legge con interesse il testo della 'introduzione' attribuito a Cromazio. I brevi commenti delle singole invocazioni della preghiera del Signore, permeati di afflato pastorale, 'introducevano' realmente i catecumeni alla scoperta del grande dono fatto da Gesù Cristo alla sua Chiesa con la consegna del prototipo della preghiera cristiana. Il testo cromaziano, pur nella sua brevità e semplicità, è un ricco esemplare dell'abbondante letteratura sulla preghiera del Signore di cui la Chiesa è grata a molti padri e scrittori ecclesiastici.
«Fra tutti i salutari insegnamenti - dice il santo [Cromazio di Aquileia, Catechesi al popolo. Sermoni, Città nuova, Roma, 1979, pp. 233-235] -, il Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo ha dato ai suoi discepoli, che gli chiedevano come dovessero pregare, questa forma di preghiera, di cui anche voi avete avuto più esatta conoscenza grazie alla presente lettura.
Ascoltate ora, o miei cari, come [egli] insegni ai suoi discepoli a pregare Dio Padre onnipotente: "Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, serratone l'uscio, prega il Padre tuo" [Mt 6,6]. La camera cui accenna non indica una parte nascosta della casa, ma vuol ricordare che i segreti del nostro cuore si rivelano solo a lui.
Il fatto di dover pregare Dio a porta chiusa significa che dobbiamo misticamente chiudere a chiave il nostro cuore per ogni pensiero cattivo e parlare con Dio a bocca chiusa e in spirito di purezza: il nostro Dio ascolta la voce della fede e non il suono delle parole. Chiudiamo dunque con la chiave della fede il nostro cuore alle insidie dell'avversario e spalanchiamolo solo a Dio di cui, come si sa, è il tempio, affinché, mentre abita nei nostri cuori, sia lui ad assisterci nelle nostre preghiere. Cristo nostro Signore, parola di Dio e sapienza di Dio, ci ha dunque insegnato questa orazione, in modo che preghiamo così.
Padre nostro che sei nei cieli. Sono parole, queste, di uomini liberi e piene di confidenza. Voi dovete, dunque, comportarvi in modo da poter essere figli di Dio e fratelli di Cristo. Chi traligna dalla sua volontà con quale temeraria presunzione può chiamare Dio suo Padre? Perciò voi, o carissimi, mostratevi degni dell'adozione divina, poiché è scritto: "A quanti credettero in lui diede il potere di diventare figli di Dio" [Gv 1,12].
Sia santificato il tuo nome. Ciò non significa che le nostre preghiere santificano il Signore, che è sempre santo, ma chiediamo che il suo nome sia santificato in noi, affinché, santificati nel suo battesimo, perseveriamo in ciò che abbiamo cominciato a essere.
Venga il tuo regno. E quando non regna sovranamente il nostro Dio, il cui regno è immortale? Ma quando diciamo: Venga il tuo regno chiediamo che venga il nostro regno, quello che ci è stato promesso da Dio e che la passione e il sangue di Cristo ci ha ottenuto.
Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra, cioè la tua volontà si compia in modo che noi facciamo irreprensibilmente sulla terra ciò che tu comandi in cielo.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Qui dobbiamo capire che si tratta di un cibo spirituale, perché il nostro pane è Cristo che ha detto: "lo sono il pane vivo disceso dal cielo" [Gv 6,51]; e questo pane lo diciamo 'quotidiano', perché dobbiamo sempre chiedere di evitare il peccato in modo da essere degni dell'alimento del cielo.
E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questo precetto significa che noi non possiamo ottenere altrimenti il perdono dei nostri peccati se prima non perdoniamo a quanti hanno peccato contro di noi, secondo la parola del vangelo: "Se non perdonate agli uomini le loro colpe, neanche il Padre vostro perdonerà i vostri peccati" [Mt 6,15].
E non c'indurre in tentazione, cioè: non lasciarci in potere del tentatore, artefice del male. Infatti, dice la Scrittura: "Dio non è tentatore di male" [Gc 1,13]. Il diavolo è tentatore e per vincerlo il Signore suggerisce: "Vegliate e pregate per non cadere in tentazione" [Mt 26,41; Mc 14,38].
Ma liberaci dal male. Egli si esprime così perché l'apostolo ha detto: "Non sapete ciò che vi conviene chiedere" [Rm 8,26]. Dobbiamo dunque chiedere a Dio onnipotente che quanto la fragilità umana non è capace di preavvertire e di evitare, si degni di farcene capaci, nella sua bontà, Gesù Cristo nostro Signore che vive e regna, Dio, nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen».
COMMENTO AL “PATER NOSTER”, di Francesco d’Assisi |
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[266] |
O santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro. |
[267] |
Che sei nei cieli: negli angeli e nei santi, illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce, infiammandoli all'amore, perché tu, Signore, sei amore, ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine, perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene. |
[268] |
Sia santificato il tuo nome: si faccia luminosa in noi la conoscenza di te, affinché possiamo conoscere l'ampiezza dei tuoi benefici, l'estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi. |
[269] |
Venga il tuo regno: perché tu regni in noi per mezzo della grazia e ci faccia giungere nel tuo regno, ove la visione di te è senza veli, l'amore di te è perfetto, la comunione di te è beata, il godimento di te senza fine. |
[270] |
Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno. |
[271] |
Il nostro pane quotidiano: il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì. |
[272] |
E rimetti a noi i nostri debiti: per la tua ineffabile misericordia, per la potenza della passione del tuo Figlio diletto e per i meriti e l'intercessione della beatissima Vergine e di tutti i tuoi eletti. |
[273] |
Come noi li rimettiamo ai nostri debitori: e quello che non sappiamo pienamente perdonare, tu, Signore, fa' che pienamente perdoniamo sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti |
[274] |
E non ci indurre in tentazione: nascosta o manifesta, improvvisa o insistente. |
[275] |
Ma liberaci dal male: passato, presente e futuro. Gloria al Padre, ecc. |
4/ Le sezioni generali delle 4 parti del CCC
4.1/ Sulla I parte del CCC
4.1.1/ Piacque a Dio rivelare se stesso: il Verbum Dei, la Parola di Dio è il Figlio, è Gesù Cristo
cfr. l’inserzione all’inizio del CCC dell’uomo “capax Dei”
da Romano Penna, Dialettica tra ricerca e scoperta di Dio nell’epistolario paolino, in Penna Romano, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 593; p. 612; 628-629, (articolo in cui il prof. Penna si sofferma su 1 Cor 1,20, Dov’è il ricercatore di questo mondo?, e su Rm 10,20=Is 65,1, Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano)
Nell’epistolario, il vocabolario di ricerca (ζητεω, επιζητεω, εκζητεω, συζητεω, ζητησις) non presenta mai «Dio» come oggetto dell’azione di ricerca; anzi, quando i due termini sono accostati è per negare esplicitamente la possibilità o almeno la fruttuosità di una tale ricerca. Certo, il concetto viene espresso pure con un altro e abbondante lessico del ricercare, ma esso riguarda normalmente non più il Dio «naturale», bensì quello «rivelato», «cristiano»; allora, la ricerca qualifica lo stato postbattesimale e pistico del cristiano. La stessa osservazione vale analogamente per il correlativo vocabolario del ritrovamento (ευρισκω, καταλαμβανω, επιτυγχανω ecc.). [...]
La ricerca di Dio, che pur è una dimensione connaturale all’uomo, fallisce il risultato perché, imprevedibilmente, lo specifico Dio cristiano si colloca al di fuori della sua prospettiva (cfr. Rom 9,16). Egli viene scoperto solo per autorivelazione, non per ricerca. La sua attingibilità è essa stessa un fatto gratuito. [...]
Nelle lettere paoline ricorre sette volte questa formula [εις αυτον; ad es. «per lui sono tutte le cose» e «noi siamo per lui»] [...] Lo εις αυτον afferma che l’autorivelazione di Dio presuppone e si innesta proprio su quella nativa capacità, anche se essa da sola resta improduttiva.
Veniamo pertanto a costatare, nel pensiero dell’Apostolo, l’esistenza di un’originale dialettica tra ricerca e scoperta; essa si configura come segue.
Il primo momento che è dato rilevare consiste nello sforzo umano, apparentemente autonomo, di porsi alla ricerca di Dio, della sua natura o della sua volontà; tale movimento, però, si svolge in termini inadeguati rispetto alla «sapienza di Dio misteriosa, nascosta, da lui predeterminata prima dei secoli» (1Cor 2,7); quindi, anche ciò che viene trovato risulta inadeguato sia ai progetti di Dio sia alla vera liberazione dell’uomo.
Il secondo momento (logico, ma anche cronologico) consiste in una autonoma autorivelazione di Dio, il quale, con una insospettata proposta non solo di se stesso quanto anche del proprio piano salvifico (incentrato sulla giustificazione dell’empio mediante la fede nella fecondità del sangue di Cristo), supera e sconfigge l’a priori della ricerca umana facendosi vedere ben più grande dei suoi presupposti e delle sue possibilità sia intellettuali che ascetiche; Dio diventa così, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata (cfr. Rom 10,20).
A un dono siffatto, tuttavia, come terzo momento, consegue non la stasi soddisfatta di chi può cullarsi nella contemplazione passiva di un possesso ormai tranquillamente padroneggiato. La ricerca, infatti, non è interrotta, ma solo prosegue in termini nuovi: davanti al cristiano stanno pur sempre «le profondità di Dio», che il Pneuma battesimale aiuta a indagare (1Cor 2,9-10), con una preoccupazione non di fuga ma di inserzione delle «cose di lassù» nella comune cornice della vita quotidiana (Col 3,1 e contesto). Ogni momento dell’esistenza cristiana, in questo modo, può rappresentare una possibilità di accesso al Dio che, mediante Cristo e nello Spirito, ha sconvolto i nostri modi naturali di tensione verso di lui soltanto per venirci incontro nella sua vera identità di Salvatore storico e gratuito, quale l’uomo da solo avrebbe fallito. Potremmo dire, in un certo senso, che il nativo εις αυτον si tramuta semplicemente nel più preciso e biblico προς τον θεον.
Ma rimane ancora sempre una scoperta da fare, poiché Dio (non solo il Dio naturale ma anche e ancor più il Dio cristiano) è «insondabile e ininvestigabile» (Rom 11,33). Si giustifica quindi ogni cammino anche a tentoni della fede stessa: credere, infatti, tutt’altro che disporre boriosamente di Dio, significa solo collocarsi con umiltà nell’onda del suo mistero. Non per nulla, l’autore paolino di Ef prega «affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi conceda uno Spirito di sapienza e di illuminazione per conoscere… quale sia la traboccante grandezza della sua potenza verso di noi credenti» (1,17.19; cfr. 3,18).
CCC 27-29
L'uomo è “capace” di Dio
27 Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l'uomo e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa.
La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 19].
28 Nel corso della loro storia, e fino ai giorni nostri, gli uomini in molteplici modi hanno espresso la loro ricerca di Dio attraverso le loro credenze ed i loro comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc). Malgrado le ambiguità che possono presentare, tali forme d'espressione sono così universali che l'uomo può essere definito un essere religioso:
Dio creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17,26-28).
29 Ma questo “intimo e vitale legame con Dio” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 19] può essere dimenticato, misconosciuto e perfino esplicitamente rifiutato dall'uomo. Tali atteggiamenti possono avere origini assai diverse: [Cf. ibid., 19-21] la ribellione contro la presenza del male nel mondo, l'ignoranza o l'indifferenza religiosa, le preoccupazioni del mondo e delle ricchezze, [Cf Mt 13,22 ] il cattivo esempio dei credenti, le correnti di pensiero ostili alla religione, e infine la tendenza dell'uomo peccatore a nascondersi, per paura, davanti a Dio [Cf. Gen 3,8-10 ] e a fuggire davanti alla sua chiamata [Cf. Gn 1,3 ].
Dei Verbum 2. Natura e oggetto della Rivelazione
2. Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona (Seipsum revelare) e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione.
cfr. il “mysterion” in Paolo: 1Cor 2,1.7; Rom 16,25; Col 1,26.27; 2,2; 4,3; Ef 1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19
da J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pp. 32-47
Il panorama della storia delle religioni ci pone di fronte soprattutto a una scelta di fonda tra due vie che io [...] – abbastanza inadeguatamente – avevo designato coi termini “mistica” e “monoteismo”. Oggi invece parlerei piuttosto di “mistica dell’in-distinzione” e di “comprensione di Dio come persona”. In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia “Dio”, qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’ “io” e del “tu” – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a e il dissolversi nell’Uno-tutto... [...]
Nell’ultimo stadio di [alcune esperienze orientali invece], il “mistico” [N.d.C. nel senso critico precedentemente esposto] non dirà più al suo Dio: “io sono tuo”, ma la sua formula sarà: “io sono Te”. La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità. “Il monismo assoluto è il compimento del dualismo, con il quale inizia la coscienza devota”, dice Radhakrishnan. Quest’esperienza interiore di in-distinzione, in cui ogni separazione affonda e diventa velo irreale che cela l’unità col fondamento di tutte le cose, è poi il motivo della conseguente teologia dell’in-distinzione... nella quale tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità. Al tempo stesso risulta chiaro perché, per la religiosità asiatica, la persona non sia un che di ultimo e perciò Dio stesso non sia concepito come persona: la persona, l’ “io” e il “tu” contrapposti, appartiene al mondo della separazione; anche il confine che distingue l’ “io e il “tu” sprofonda, si rivela provvisorio nell’esperienza che fa il mistico dell’Uno-tutto.
da A. Lonardo, Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, in M. Cozzoli (ed.) Pensare, professare, vivere la fede, LUP, Roma, 2012, pp. 476-477.
La presentazione abituale della rivelazione, prima della redazione della Dei Verbum, insisteva sulla comunicazione da parte di Dio di una serie di verità «soprannaturali»[1]. L’accento era poi posto sulla pluralità di queste affermazioni dogmatiche e sul loro valore oggettivo. La Dei Verbum, invece, scelse di privilegiare un approccio molto diverso, sottolineando che nella rivelazione Dio svelava il suo proprio “mistero”: «piacque a Dio rivelare se stesso». Il testo latino della Dei Verbum afferma testualmente placuit Deo Seispsum revelare[2]. Dio, cioè, non dava a conoscere delle verità astratte, bensì se stesso.
Con questa affermazione è detta immediatamente la libertà di Dio. Il verbo piacque lo sottolinea in maniera straordinaria: la rivelazione avviene per il “piacere” di Dio, per il suo godimento. Dio si rivela perché Egli, nel suo amore e nella sua saggezza, gode nel farsi conoscere. Egli non è una divinità impersonale, che agisce per necessità, guidato da ferree leggi che lo costringono. Egli non è semplicemente il Tutto – secondo una visione che potrebbe essere accolta da molte visioni religiose dell’estremo oriente abituate ad un Dio che non ha né passione, né libertà – perché sostanzialmente identico con la natura o con lo spirito. No, Dio desidera farsi conoscere, Dio desidera essere amato.
da H. de Lubac – E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 394
Il Concilio, a proposito della rivelazione, non sostituisce semplicemente un’idea fatta di verità astratte e atemporali con l’idea dello sviluppo di una storia della salvezza. Ciò che afferma è l’idea di una verità concreta al massimo: l’idea della Verità personale, apparsa nella storia, operante nella storia, nella persona di Gesù di Nazaret, “pienezza della rivelazione”.
Tintoretto, Gesù tra i dottori, 1542 circa, Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano.
da H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma 1972, pp. 344; 353-354
[Cristo,] sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è la “religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo”.
da H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, in Paradoxe et mystère de l’Église, Cerf, Paris, 2010, p. 265. La traduzione è nostra.
È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano.
da F. Varillon, Beauté du monde et souffrance des hommes: entretiens avec Charles Ehlinger, Le Centurion, Paris 1980, p. 115.
La divinizzazione della persona non è possibile che tramite l’Incarnazione, e l’Incarnazione non è possibile se Dio non è Trinità. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, deve ricondursi a questo. Dunque che si parli di peccato o di virtù cristiane, che si commenti questa o quella scena dell’Evangelo, questo essenziale è sempre sullo sfondo.
4.1.2/ La definitività della rivelazione in Cristo
Dei verbum 3. Preparazione della Rivelazione evangelica
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.
Dei Verbum 4. Cristo completa la Rivelazione
Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini », « parla le parole di Dio » (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).
dalla relazione Gesù di Nazaret: realtà storica e potenza salvifica. Un approccio teologico al libro di Benedetto XVI , di S.Em. il cardinal Camillo Ruini al Clero della Diocesi di Roma, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense, il 6 dicembre 2007
Termino con una considerazione più personale, che riguarda i rapporti tra la nostra conoscenza di Gesù e la nostra conoscenza di Dio. Nella relazione dello scorso anno (N.d.R. Relazione al clero di Roma), dedicata alle strutture del pensiero di Benedetto XVI, osservavo che, in concreto, la via che conduce a Dio è Gesù Cristo: soltanto in lui infatti possiamo conoscere il volto di Dio, il suo atteggiamento verso di noi e il mistero della sua vita intima, e soltanto nella croce del Figlio – manifestazione radicale ed estrema dell’amore di Dio per noi – può trovare una risposta, misteriosa ma convincente, il problema del male e della sofferenza, che è la fonte del dubbio più grave circa l’esistenza di Dio. Vorrei ora percorrere, per così dire, la strada inversa, mostrando che per conoscere davvero Gesù Cristo è necessario fare spazio a Dio. Se infatti Dio non c’è, o comunque non può agire nella storia e manifestarsi personalmente a noi, il Gesù dei Vangeli, in concreto il Gesù reale e storico, perde consistenza e svanisce inevitabilmente: non solo non potrebbe aver operato dei miracoli e tanto meno essere risorto dai morti, ma il suo stesso rapporto intimo, anzi unico con Dio e il suo porsi come colui nel quale si incontra Dio potrebbero essere al massimo una nobile illusione.
4.1.3/ La fede è risposta e grazia (oggettiva e soggettiva)
Dei Verbum 5. Accogliere la Rivelazione con fede
A Dio che rivela è dovuta «l'obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero e liberamente prestandogli «il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità». Affinché poi l' intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni.
da «Si dimenticò la brocca»: la donna samaritana incontra Gesù al pozzo, di Bruno Maggioni (su www.gliscritti.it)
Se parti dall'inquietudine dell'uomo non vai lontano; alcuni sono inquieti, alcuni non lo sono, (magari ti dicono che lo saranno nella terza età...). Non è questo il punto, secondo me. Il punto è presentare Gesù Cristo, attirare l'attenzione su di Lui. Non è detto che affascini tutti, lo so benissimo, ma è come quando uno è abituato alla cattiva musica e gli fate sentire della bella musica: c'è caso che vi dica "Non mi piace più quella di prima", proprio perché ha scoperto qualcosa di nuovo, qualcosa di più bello.
Un esempio che racconto sempre, (perché mi sembra così vivo e così comune), è quello dei due ragazzi che si sposano e che, come spesso accade, vogliono aspettare ad avere un figlio per prima pagare il mutuo (i bambini oggi son tutti figli del dopo mutuo!); se però per caso "scappa" un bambino (e i due ragazzi brontolano, perché è un problema, perché cambia tutti i loro progetti, ecc ecc), quando poi il bambino è nato son lì tutti e due che gli muoiono addosso, incantati, "...ma come facevamo a vivere prima, senza questo bambino!". Ma lo dicono adesso, perché hanno avuto l'incontro, prima vivevano benissimo! Questo mi pare davvero il succo, il succo di tutto.
Ecco perché io non parto più dalle domande dell'uomo. Certo, cerco di utilizzarle, là dove c'è un uomo che ha domande o comunque dove sospetto che ci siano domande; però parto dall'annuncio di Gesù Cristo, sperando di riuscire a comunicarne il fascino, la bellezza, sperando che sia Lui poi a far sorgere le domande importanti.
È Gesù Cristo che crea le domande, che fa nascere il desiderio. Non sempre, guardando dentro di te, cogli questo desiderio, può essere tacitato per tanti motivi... Non possiamo partire solo da quello.
cfr. in Hans Urs von Balthasar l’amore come miracolo e l’estetica musicale
4.1.4/ La Parola di Dio nella Tradizione e nella Scrittura
Dei Verbum 7-9
da Umberto Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann, 1967, pp. 219-262, le pp. 250-255 scritte a commento dei paragrafi della Dei Verbum che trattano del rapporto fra Scrittura e tradizione.
(p. 234)
A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva. La trasmissione della predicazione apostolica al di fuori della Scrittura, come pure tutto ciò che ne è oggetto, si chiama Tradizione.
(pp. 250-255)
L’elemento fondamentale che la tradizione e la Scrittura hanno in comune è la stessa origine da Dio e lo stesso fine da ui assegnato a tutt’e due: quello di trasmettere la Rivelazione, cioè tutta l’economia della salvezza. Questa trasmissione però avviene in modo diverso, e quindi ha anche espressione diversa. La Scrittura, perché divinamente ispirata, è parola di Dio non solo quanto al contenuto, ma anche quanto alla sua espressione verbale. La Tradizione invece, pur contenendo ugualmente la parola di Dio, intesa nel senso più vasto di tutto ciò che proviene da lui in ordine alla salvezza, non è parola di Dio nelle sue manifestazioni: queste non sono divinamente ispirate, e quindi rimangono sempre semplicemente umane. [...] Rigettato ancora una volta il principio protestante della Scrittura sola, non contrappone ad esso il principio, divenuto comune nella teologia controriformista, della Tradizione sola, quasi che questa abbia in esclusiva la proprietà di trasmettere qualche verità rivelata. Nella linea dei precedenti documenti del magistero, esso afferma semplicemente che la Chiesa per entrare nella certezza di tutto il deposito rivelato ricorre né alla Scrittura soltanto né alla Tradizione soltanto, ma a tutt’e due insieme (4). Secondo i casi, ora l’una ora l’altra potrà offrire il criterio determinante di rivelazione di una data verità. [...] La Scrittura, appunto perché parola di Dio scritta, contiene la divina Rivelazione non altro che in forma di notizia; ciò comporta, per forza di cose, una certa parzialità. La Tradizione invece, per il fatto stesso che ne è trasmissione viva e concreta, la riproduce integralmente, nel senso che insieme alla notificazione verbale trasmette anche le realtà oggetto di quella notificazione. Perciò questa integralità del deposito rivelato, che nel senso ora spiegato è ad essa esclusiva, non indica necessariamente un apporto del tutto nuovo, cioè un’eccedenza numerica nei confronti di quello offerto dalla Scrittura. Si tratta piuttosto di gradazione diversa, in forza della quale le indicazioni soltanto verbali della Scrittura ricevono dimensione completa dalle realtà divine alle quali si riferiscono e che solo la Tradizione trasmette.
La Tradizione quindi si distingue dalla Scrittura non tanto per la maggiore quantità dell’oggetto trasmesso quanto per la più intensa espressione e rappresentazione del medesimo. Questo è il titolo sufficiente e necessario perché tutt’e due siano ugualmente impegnative per la fede, e debbano quindi essere accettate con pari sentimento di pietà ed uguale rispetto.
da J. Ratzinger, La mia vita San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp. 72-74; 89-93
Avevo constatato che in Bonaventura (e, anzi, nei teologi del secolo XIII in generale) non c'era alcuna corrispondenza con il nostro concetto di «rivelazione», che eravamo soliti usare per definire l'insieme dei contenuti rivelati, tanto che anche nel lessico si era introdotta l'abitudine di definire la Sacra Scrittura semplicemente come la «rivelazione». Nel linguaggio medievale una tale identificazione sarebbe stata impensabile. In esso, infatti, la «rivelazione» è sempre un concetto di azione: il termine definisce l'atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto. E dato che le cose stanno così, del concetto di «rivelazione» fa sempre parte anche il soggetto ricevente: dove nessuno percepisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione, dato che lì nulla è stato svelato. L'idea stessa di rivelazione implica un qualcuno che ne entri in possesso. Questi concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bonaventura, sono poi divenuti molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affrontati i temi della rivelazione, della Scrittura e della tradizione. Perché se le cose stanno come le ho descritte, allora la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica a essa. Questo significa inoltre che la rivelazione è sempre più grande del solo scritto. Se ne deduce, di conseguenza, che non può esistere un mero «sola Scriptura» («solamente attraverso la Scrittura»), che alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione. [...]
Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito [sulla rivelazione] si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J. R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni Cinquanta. Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell'elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe «in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione». Nel testo finale, però, l'«in parte - in parte» fu evitato e sostituito da «e»: Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazione. Geiselmann ne deduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione, ma che, piuttosto, ambedue - Scrittura e tradizione - contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete. Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l'affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l'intero deposito della fede. Si parlava della «completezza materiale» della Bibbia nelle questioni di fede.
Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l'interpretazione del decreto tridentino. L'inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest'ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede. E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico. Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della «sola Scriptura», che era poi ciò di cui si era trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significava che nella Chiesa l'esegesi doveva diventare l'ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse conscie o inconscie), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell'indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali: alla fine «credere» significava qualcosa come «ritenere», avere un'opinione soggetta a continue revisioni. Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell'opinione pubblica ecclesiale la parola d'ordine della «completezza materiale», con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio.
Il dramma dell'epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d'ordine e dalle sue conseguenze logiche. Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell'aprile del 1956, durante il già citato convegno dogmatico di Königstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella «propaganda conciliare»).
All'inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta. In questo fui aiutato dalle conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura. Trovai che l'orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto lo stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt'altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell'eccitato clima conciliare. Tuttavia vorrei almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l'uomo, il Suo venirgli incontro, è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.
Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come «la rivelazione», come invece oggi avviene nel linguaggio corrente. La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande - perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta «rivelazione». La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge. Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini, di unirli tra loro - per questo essa implica la Chiesa. Ma se si dà questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l'ultima parola su di essa non può venire dall'analisi dei campioni minerali - il metodo storico-critico -, ma di essa fa parte l'organismo vitale della fede di tutti i secoli. Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo «tradizione». [...]
Dopo complesse discussioni, solo nell'ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all'approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno. All'inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.
da una lettera di J. R. R. Tolkien a Michael Tolkien in J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.442.
I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto... la “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male.
da J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, p. 26
I Simboli [della fede], intesi come la forma tipica ed il saldo punto di cristallizzazione di ciò che si chiamerà più tardi dogma, non sono un’aggiunta alla Scrittura, ma il filo conduttore attraverso di essa; sono il canone nel canone, appositamente elaborato; sono per così dire il filo di Arianna, che permette di percorrere il Labirinto e ne fa conoscere la pianta. Conseguentemente, non sono neppure la spiegazione che viene dall’esterno ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura. [Contro questa visione del dogma] una tendenza molto più forte considera la fede della comunità in maniera completamente diversa: poiché, si dice, ciò che è comune ed oggettivo non può più essere fondato e colto, la fede allora è, di volta in volta, ciò che la comunità presente pensa e, nello scambio delle idee («dialogo»), raggiunge come convinzione comune. La «comunità» prende il posto della chiesa, la sua esperienza religiosa quello della tradizione ecclesiastica. Con una siffatta concezione si è abbandonato non solo la fede, nel senso vero e proprio del termine, ma si è rinunciato logicamente anche ad una reale predicazione ed alla chiesa stessa; il «dialogo», di cui ora si parla, non è una predicazione, ma un dialogo con se stessi, seguendo l’eco di antiche tradizioni.
dal Direttorio generale per la catechesi, 128
La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede. La Sacra Scrittura e il Catechismo della Chiesa Cattolica debbono ispirare tanto la catechesi biblica quanto la catechesi dottrinale, che veicolano questo contenuto della Parola di Dio.
4.1.5/ L’ispirazione della Sacra Scrittura
CAPITOLO III. L'ISPIRAZIONE DIVINA E L'INTERPRETAZIONE DELLA SACRA SCRITTURA
Ispirazione e verità della Scrittura
Dei Verbum 11. Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte.
Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto «ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona» (2Tim 3,16-17).
Come deve essere interpretata la sacra Scrittura
12. Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani.
Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio.
Unità dei due Testamenti
16. Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse svelato nel Nuovo. Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova Alleanza nel sangue suo (cfr. Lc 22,20; 1 Cor 11,25), tuttavia i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano.
4.1.6/ L’apostolicità e la storicità dei Vangeli
CAPITOLO V. IL NUOVO TESTAMENTO
Origine apostolica dei Vangeli
Dei Verbum 18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Carattere storico dei Vangeli
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali «fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola», scrissero con l'intenzione di farci conoscere la «verità» (cfr. Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto
dalla Lettera, firmata il 18 ottobre 1965, indirizzata a nome del Santo Padre Paolo VI, dal cardinal A. G. Cicognani, segretario di Stato, al cardinal A. Ottaviani, presidente della Commissione de doctrina fidei et morum del Concilio Ecumenico Vaticano II
Postremo, Beatissimus Pater aequum esse iudicat, a Commissione postulare ut verba (ad p. 33, lineam 19) ita ut semper vera et sincera… hisce, quae sequuntur verbis, mutentur: ita ut semper vera seu historica fide digna… Etenim in priore formula Evangeliorum historica fides non satis constare videtur; ideoque, ut patet, Sanctitas Sua in hoc doctrinae capite talem formulam probare nequit, quae historicam sanctissimorum illorum Librorum auctoritatem in dubio ponat.
L’origine apostolica dei vangeli e la loro storicità al Concilio Vaticano II, di don Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
«Immaginate in questa navata centrale della basilica di San Pietro le sessioni del Concilio Vaticano II e gli oltre 2500 vescovi seduti a destra ed a sinistra che nel 1965 approvano la Dei Verbum». Raramente le guide dei tanti pellegrini e turisti che giungono in Vaticano si soffermano a raccontare e far rivivere questi momenti decisivi. Il Vaticano I fu celebrato nel transetto destro della basilica, mentre il Vaticano II richiese l’intera navata centrale per permettere a tutti i partecipanti di prendere parte alle diverse sessioni.
Fra i passaggi decisivi della Dei Verbum troviamo l’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli (DV 18): «La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica».
Con questa felice espressione i padri conciliari hanno voluto, da un lato, lasciare libero campo alla ricerca su chi siano gli ultimi redattori degli scritti neotestamentari. Dall’altro hanno insegnato che, chiunque sia stato l’effettivo estensore finale dei singoli scritti e quali siano stati i passaggi che hanno preceduto la loro redazione ultima, tutto è avvenuto in conformità alla predicazione apostolica.
L’ipotesi più accreditata sulla formazione dei sinottici afferma l’esistenza di una raccolta scritta di detti di Gesù (in greco loghia) precedente la redazione di Matteo e Luca e da loro utilizzata. I passi paralleli di questi due vangeli mostrano che entrambi debbono aver usufruito di questa fonte a loro anteriore, tesa anch’essa a far sì che potessero essere conservate le parole pronunciate da Gesù. Questa raccolta (indicata convenzionalmente con la maiuscola Q, dal tedesco Quelle che significa appunto fonte) non la possediamo più come testo a sé stante, ma inserita in Matteo e Luca che l’hanno intrecciata nel tessuto del vangelo di Marco ed arricchita con fonti a loro proprie.
L’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli indica che questa ipotesi, come altre consimili, è assolutamente legittima per la fede cattolica. Essa, infatti, non inficia minimamente l’affermazione che ciò che è contenuto nei vangeli risale alla predicazione apostolica.
I vangeli e gli altri testi neotestamentari vengono scritti mentre sono certamente ancora in vita alcuni degli apostoli. La loro redazione avviene, comunque, in comunità di fondazione apostolica nelle quali la memoria della loro testimonianza è certamente forte. Affermare che la chiesa ha sempre ritenuto e ritiene l’origine apostolica dei vangeli vuol dire, da parte del Vaticano II, confermare che la sostanza di ciò che i vangeli ci trasmettono rispecchia fedelmente la parola degli apostoli anche se i testi non avessero direttamente la loro paternità, ma fossero opera di loro discepoli o in maniera più estesa di “cerchie” di persone tramite loro generate alla fede.
Paolo VI in persona intervenne nella discussione conciliare facendo preparare una lettera il 17 ottobre 1965: chiedeva che il testo della Dei Verbum affermasse da un lato il triplice stadio – Gesù, gli apostoli, i redattori - che ha portato alla scrittura dei vangeli e dall’altro la fedeltà storica del Nuovo Testamento al “Gesù reale”. Il suggerimento del Papa fu accolto ed i padri conciliari si trovarono d’accordo nel dire, in Dei Verbum 19, che la chiesa “afferma senza esitazione la storicità” dei vangeli.
Su questa linea si muove il volume Gesù di Nazaret di J.Ratzinger-Benedetto XVI in tutta la sua impostazione ed anche quando, riflettendo sull’importanza della testimonianza giovannea che concorda pur nelle sue peculiarità con tutto il resto del Nuovo Testamento, afferma che dietro il quarto vangelo “vi è ultimamente un testimone oculare e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l’apporto determinante di un discepolo a lui familiare”. Più che l’individuazione precisa di questa figura ciò che sta a cuore all’Autore è evidentemente l’origine apostolica dell’evangelo giovanneo.
Il Nuovo Testamento è così testimone non di molti cristianesimi, ma di un unico cristianesimo nel quale i differenti autori arricchiscono l’unità con la percezione di sfumature differenti ricchissime ma mai divergenti sul nucleo centrale, tutti confessanti insieme che solo in Cristo avviene la piena rivelazione di Dio e che non vi è altro Salvatore al’infuori di Lui.
4.1.7/ La Sacra Scrittura, “Libro” della catechesi
CAPITOLO VI. LA SACRA SCRITTURA NELLA VITA DELLA CHIESA
Importanza della sacra Scrittura per la Chiesa
Dei Verbum 21. La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo. È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed efficace è la parola di Dio» (Eb 4,12), «che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).
Si raccomanda la lettura della sacra Scrittura
25. Perciò è necessario che tutti i chierici, principalmente i sacerdoti e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della parola, conservino un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi «un vano predicatore della parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta dentro di sé», mentre deve partecipare ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della parola divina, specialmente nella sacra liturgia. Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. «L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo» (S.Girolamo, Commento ad Isaia, Prologo). Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l'approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l'uomo; poiché «quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Compete ai vescovi, «depositari della dottrina apostolica», ammaestrare opportunamente i fedeli loro affidati sul retto uso dei libri divini, in modo particolare del Nuovo Testamento e in primo luogo dei Vangeli, grazie a traduzioni dei sacri testi; queste devono essere corredate delle note necessarie e veramente sufficienti, affinché i figli della Chiesa si familiarizzino con sicurezza e profitto con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito. Inoltre, siano preparate edizioni della sacra Scrittura fornite di idonee annotazioni, ad uso anche dei non cristiani e adattate alla loro situazione; sia i pastori d'anime, sia i cristiani di qualsiasi stato avranno cura di diffonderle con zelo e prudenza.
da Roberto Benigni
La Bibbia è il libro più venduto e più letto da tutti, anche perché, quando si sanno i gusti dei lettori...
La Bibbia è l'unico libro e l'unico esempio in cui l'autore del libro è anche l'autore dei lettori
da Un instancabile maestro della “lectio divina”, dell’allora cardinal Joseph Ratzinger nel volume “Carlo Maria Martini da 15 anni sulla cattedra di Ambrogio”, Casa Editrice San Paolo, 1996, pp. 101-103
In occasione della Pasqua del 1981, quando mi capitò tra le mani la traduzione tedesca del libro di Martini Vita di Mosè - Vita di Gesù. Esistenza pasquale, ebbi modo di capire come [...] nel caso di Martini l’esegesi e la pastorale fossero tra loro congiunte. In quel piccolo libro trovai quella capacità di rendere attuale la parola biblica, che sempre avevo auspicato. Gli aspetti più propriamente specialistici dell’esegesi erano stati messi da parte, tuttavia non si poteva non riconoscere che essi erano ben familiari all’autore.
La competenza dello specialista veniva però sottratta a quel suo isolamento che, non di rado, fa sì che la Scrittura non riesca a risalire la china dei secoli. In tempi recenti, quando ci si è resi conto di questa carenza, si sono spesso tentate attualizzazioni arbitrarie e prive di adeguato fondamento. Si percepisce così solamente la voce dello studioso; la Bibbia finisce con l’illustrare solo le sue opinioni, invece di offrire qualcosa di proprio e di nuovo, che non proviene da noi stessi. Nelle sue letture della storia di Mosè, Martini recepisce le interpretazioni dei padri e dei rabbini. In questa storia della recezione si rispecchiano interpretazioni applicative del testo che, indubbiamente, non sempre reggono dal punto di vista storico-critico; esse, tuttavia, sono in grado di rivelare qualcosa di quel dinamismo spirituale che si cela nella storia.
Così si apre il messaggio interiore della figura di Mosè: la guida di Israele durante l’esodo parla con noi; nel suo itinerario e nei suoi destini si rispecchiano le grandi domande dell’esistenza credente. La tipologia Mosè-Cristo perde ogni carattere artefatto; corrispondenze e analogie interiori si rendono manifeste. Il contesto vitale cristiano e giudaico, a partire dal quale Martini coglie quella figura, viene contemporaneamente a porsi come un contesto mediato in modo fortemente personale: le tentazioni e le sofferenze, il cammino e gli smarrimenti di questo grande testimone di Dio si rivelano come esperienze originarie dell’uomo, che hanno a che fare con la nostra personale lotta per la fede e che ci mostrano la via che dalla “vita inautentica” conduce alla gioia: Mosè diviene così, in modo molto personale, la guida per questo esodo dall’inautentico all’autentico.
Ecco perché mi sono rallegrato di poter finalmente conoscere di persona l’autore di queste meditazioni sulla Sacra Scrittura, che erano divenute per me una compagnia nel mio personale cammino spirituale.
da L. Bouyer, La Bible et l’Evangile..., Lectio divina, 8, Parigi, 1951, pp. 11-12
La tradizione e la Scrittura non sono due fonti indipendenti, che si completano dal di fuori. Se talvolta siamo tentati di crederlo, è perché non siamo sfuggiti alle dannose disgiunzioni del protestantesimo. Per i primi cristiani, al contrario, la Bibbia è così poco separabile dalla tradizione, che ne fa parte addirittura: ne costituisce l’elemento essenziale, il nucleo, se si vuole. Ma, d’altra parte, strappata dall’insieme vivente dei molteplici fattori tradizionali, conservati e trasmessi dalla coscienza della Chiesa, sempre attenta e sempre attiva, la Bibbia diventerebbe incomprensibile. Verrebbe, effettivamente, staccata dalla vita degli oggetti di cui parla. Bibbia e tradizione non rappresentano, dunque, per un cattolico, Bibbia più un elemento estraneo, in mancanza del quale essa resterebbe incompleta. È piuttosto la Bibbia ricollocata, o meglio, mantenuta, nella sua atmosfera propria, nel suo ambiente vitale, nella sua luce nativa. È la Bibbia e nient’altro che la Bibbia, ma la Bibbia tutt’intera, e non solo nella lettera, ma con lo Spirito che l’ha dettata e non cessa di vivificarne la lettura. Dove infatti - si domanda S. Agostino - si troverebbe lo Spirito del Cristo, se non nel Corpo di Cristo? È dunque nella Chiesa, corpo della Parola vivente di Dio fatto carne, che la Parola, già ispirata a uomini di carne, resta spirito e vita. La tradizione cattolica, lungi dal dare scacco, come troppo spesso si crede, all’importanza unica della Scrittura sacra, le conserva tutto il suo valore, svelando tutto il suo senso»
dalla Lettera di Gregorio Magno a Teodoro, medico dell’imperatore (Gregorio Magno, Lettere, V, 46)
Poiché ama di più chi più osa, ho qualche lamentela circa il dolcissimo animo del gloriosissimo figlio mio, il signor Teodoro, perché ha ricevuto dalla Santa Trinità il dono dell’ingegno, il dono dei beni, il dono della compassione e della carità, ma si lascia tuttavia prendere incessantemente dagli affari del mondo, è intento alle continue pubbliche manifestazioni e trascura di leggere ogni giorno le parole del suo Redentore.
Che cos’è, infatti, la sacra Scrittura se non una specie di lettera di Dio Onnipotente alla sua creatura? E certamente, se in qualche luogo la vostra gloria dimorasse altrove e ricevesse una lettera di un imperatore terreno, non indugerebbe, non riposerebbe, non concederebbe sonno ai propri occhi, se prima non avesse conosciuto ciò che l’imperatore terreno gli avesse scritto.
L’imperatore del Cielo, il Signore degli uomini e degli angeli ti ha trasmesso una lettera a vantaggio della tua anima, e tuttavia, glorioso figlio, tu non ti curi di leggere con passione questa lettera. Sii ben disposto, ti prego, e medita ogni giorno le parole del tuo Creatore; impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio per desiderare più ardentemente i beni eterni, perché il vostro cuore arda di più grandi desideri per i gaudi del cielo. Tanto maggiore allora sarà per esso il riposo, quanto più ora non cesserà di amare il suo Creatore. Ma per far questo, Dio onnipotente ti infonda lo Spirito consolatore. Egli stesso riempia della sua presenza il tuo cuore, e riempiendolo lo ricrei.
Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo e/o ignorare Cristo significa ignorare le Scritture? Esegesi storico-critica ed esegesi tipologica nella famosa espressione di San Girolamo. Breve nota di Andrea Lonardo (da www.gliscritti.it )
«Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo». Il Concilio Vaticano II rilegge in chiave allegorica e morale questo testo di Girolamo, quasi che esso volesse stimolare i cristiani alla lettura personale della Bibbia (il riferimento è ovviamente a Dei Verbum 25).
Se, però, si legge con attenzione storico-critica il Prologo al Commento di Isaia del quale la famosa espressione fa parte, ci si accorge immediatamente che il senso del testo nel suo contesto originario è tutt’altro: Girolamo vuole dire che solo cogliendo la presenza di Cristo nell’Antico Testamento lo si è compreso veramente.
Per Girolamo, colui che “ignora le Scritture”, non è colui che non le conosce materialmente, bensì colui che, pur leggendole, le interpreta da pagano o da ebreo e, quindi, non si accorge che Cristo si rivela già nell’Antico Testamento.
Girolamo afferma in proposito, indicando la finalità del suo commento:
«Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo».
Ed ancora:
«Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l'Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti».
Se, invece, non si coglie Cristo presente nelle profezie veterotestamentarie, secondo la prospettiva di Girolamo,
«sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: “Non posso, perché è sigillato”. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggilo, ma quegli risponde: “Non so leggere” (Is 29, 11-12). (Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: “Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture”».
Ecco il paradosso di una corretta ermeneutica dei padri della Chiesa. Ogni approccio storico al loro pensiero implica che si entri nel mondo dell’allegoria tipologica.
Lo stesso vale, ovviamente, per le Sacre Scritture. Una seria esegesi storico-critica neotestamentaria deve accettare l’interpretazione spirituale dell’Antico Testamento, perché il Nuovo Testamento legge l’Antico esattamente in questa prospettiva. Ad esempio, Paolo nella Lettera ai Romani non legge i brani di Genesi su Adamo con il metodo storico-critico, bensì secondo il “sensus plenior” che vi coglie a partire da Cristo e, quindi, l’esegeta, deve continuamente passare da un senso all’altro proprio per essere storicamente fedele a Paolo.
Per leggere in maniera storico-critica il Nuovo Testamento bisogna accogliere la sua lettura “spirituale” dell’Antico – ma anche già per comprendere le ri-letture veterotestamentarie degli eventi biblici.
Essere coerenti con il metodo storico-critico implica assumere il “senso spirituale”.
Questo il brano di Girolamo:
(dal "Prologo al commento del Profeta Isaia" di san Girolamo, sacerdote, nn. 1. 2; CCL 73, 1-3)
Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: "Scrutate le Scritture" (Gv 5, 39), e: "Cercate e troverete" (Mt 7, 7), per non sentirmi dire come ai Giudei: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio" (Mt 22, 29). Se, infatti, al dire dell'apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo. Perciò voglio imitare il padre di famiglia, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e vecchie, e così anche la Sposa, che nel Cantico dei Cantici dice: O mio diletto, ho serbato per te il nuovo e il vecchio (cfr. Ct 7, 14 volg.). Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. Egli infatti ha detto anche di sé quello che dice degli altri evangelisti: "Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace" (Is 52, 7). E Dio rivolge a lui, come a un apostolo, la domanda: Chi manderò, e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde: Eccomi, manda me (cfr. Is 6, 8). Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l'argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore. Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l'Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti. Che dirò della sua dottrina sulla fisica, sull'etica e sulla logica? Tutto ciò che riguarda le Sacre Scritture, tutto ciò che la lingua può esprimere e l'intelligenza dei mortali può comprendere, si trova racchiuso in questo volume. Della profondità di tali ministeri dà testimonianza lo stesso autore quando scrive: "Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: Non posso, perché è sigillato. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggilo, ma quegli risponde: Non so leggere" (Is 29, 11-12). (Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture. I profeti però sapevano quello che dicevano e lo comprendevano). Leggiamo infatti in san Paolo: "Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti" (1 Cor 14, 32), perché sia in loro facoltà di tacere o di parlare secondo l'occorrenza. I profeti, dunque, comprendevano quello che dicevano, per questo tutte le loro parole sono piene di sapienza e di ragionevolezza. Alle loro orecchie non arrivavano soltanto le vibrazioni della voce, ma la stessa parola di Dio che parlava nel loro animo. Lo afferma qualcuno di loro con espressioni come queste: L'angelo parlava in me (cfr. Zc 1, 9), e: (lo Spirito) "grida nei nostri cuori: Abbà, Padre" (Gal 4, 6), e ancora: "Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore" (Salmo 84, 9).
4.2/ Sulla II parte del CCC
n. 1066 perché la liturgia: l’economia sacramentale
da Salvatore Marsili, Presentazione, in B. Neunheuser, S. Marsili, M. Augé, R. Civil, Anàmnesis 1. La liturgia, momento della storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, 1974, pp. 5-6
Il Vaticano II ha riportato in modo veramente nuovo la Liturgia alla coscienza della Chiesa, riscoprendola come “il termine più alto (culmen) cui tende tutta l’azione della Chiesa e insieme come la sorgente (fons) donde a questa derivano tutte le sue energie” (SC 10).
Con questa affermazione, che supera d’un colpo ogni visione tanto di ordine puramente esterno-rubricale, quanto di valore prevalentemente giuridico-giurisdizionale, la Liturgia viene situata, insieme con Cristo e – com’è chiaro – dipendentemente da lui (Ap 1,8; 22,13), come “l’alfa e l’omega, il principio e la fine” di tutta la vita della Chiesa. Siamo infatti di fronte a un’elevazione della Liturgia al rango di componente essenziale dell’opera di salvezza, e precisamente sulla linea “cristologica”.
Questo significa che una conoscenza vera della Liturgia non si può avere arrestandosi alla pura ricerca scientifica sul piano storico delle origini, delle fonti, dell’evoluzione o dell’involuzione delle formule e dei riti, ma che al contrario è necessario, al fine di una comprensione autentica della Liturgia in se stessa e in riferimento alla sua funzione nella Chiesa, inquadrarla e approfondirla nella sua dimensione “teologica-economica” e cioè nella “teologia del mistero di Cristo”.
La Liturgia infatti dovrà rivelarsi come il momento attuatore della storia della salvezza, creando così il “tempo della Chiesa” ossia l’estensione della salvezza nell’ambito della comunità umana, come l’Incarnazione era stata il momento attuatore della stessa storia di salvezza in Cristo.
Questa unità teologica è stata espressa nel titolo stesso dell’opera: “Anàmnesis”, che in greco sta per il nostro “memoria” e “memoriale”. Anche se questo termine è conosciuto come particolarmente espressivo dell’Eucaristia (Lc 22,19; 1 Cor 11,24-25), non è esclusivo appannaggio di essa, perché in realtà tutta la Liturgia, tanto nel suo aspetto globale, quanto nei suoi momenti particolari di “sacramenti” di “lode”, altro non é che presenza del mistero di Cristo realizzato attraverso la “memoria” di esso oggettiva e concreta.
In verità, considerando che la Liturgia non è opera che parte dall’uomo, ma è il mistero stesso di Cristo posto in azione tra gli uomini per mezzo di segni cultuali, per inverare in essi la realtà salvifica, non sarebbe stato né fuori luogo né difficile far comparire nel titolo la parola “Mistero”, che avrebbe dichiarato in maniera più immediata la linea teologica dell’opera. Ma gli autori hanno preferito perdere questo vantaggio, non per rinnegare - è chiaro – il collegamento intimo esistente tra “Mistero” e “Liturgia”, ma perché intendevano, ponendo in primo piano l’Anàmnesis, accentuare subito il fatto importantissimo che la Liturgia è presenza reale del mistero di Cristo, prima di tutto perché ne è il “memoriale”. Si otteneva così un duplice scopo: Non s’intaccava la linea teologica che scopre nella Liturgia la continuazione della storia della salvezza realizzata in Cristo, e, nello stesso tempo, la si completava, sia perché si annunciava il “modo” in cui il mistero continua, sia perché si insinuava il “soggetto” agente della celebrazione liturgica, e cioè la Chiesa. A essa infatti è stata fatta la “tradizione del mistero del NT”, affinché lo “annunzi in se stessa facendone la memoria” (1 Cor 11,24-26).
da Salvatore Marsili, La liturgia, momento storico della salvezza, in B. Neunheuser, S. Marsili, M. Augé, R. Civil, Anàmnesis 1. La liturgia, momento della storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, 1974, pp. 91-92
Il tempo della Chiesa è continuazione del tempo di Cristo, non per ragione di semplice successione temporale, ossia perché viene “dopo” Cristo. La linea di continuazione che legherà il tempo della Chiesa al tempo di Cristo è costituita dalla Liturgia.
Il discorso liturgico vero e proprio del concilio Vaticano II comincia, infatti, solo con l’art. 6 di SC (N.d.R. SC = Sacrosanctum Concilium). Dopo aver tracciato in sintesi i momenti di attuazione completa in Cristo, la SC richiama la “missione di Cristo”. Questa non arresta la “missione eterna” dell’amore del Padre, concretizzatasi in Cristo, anzi la riprende e la continua, con la differenza che, dopo l’avvenimento di salvezza realizzatosi in Cristo, la “missione” dell’amore del Padre non consisterà più in un annunzio, come era quello che aveva preceduto l’attuazione della parola in Cristo: era, infatti, un annunzio di cose ancora non reali nel mondo, ma solo future.
L’annunzio non può certamente mancare dopo Cristo; ma esso sarà d’ora in poi un vangelo (= lieto annunzio di avvenimento presente); dovrà infatti proclamare che la “Parola” si era compiuta “facendosi carne” ed era entrata nel mondo “prendendo dimora in mezzo a noi” (Gv 1,14). Questa “dimora della Parola in mezzo agli uomini” si realizzava su due piani contemporaneamente: come avvenimento della “realtà” della salvezza nell’uomo Gesù, e come presentazione “sacramentale” di essa.
Cristo, che giustamente sant’Agostino chiama “nome sacramentale”, non è infatti solo “presenza salvifica” di Dio, ma è anche il suo “sacramento” (Col 1,27; 4,3; Ef 3,4) in quanto “segno” visibile e “immagine” (Col 1,15) di una salvezza fino allora restata nascosta e invisibile (Ef 3,9; Col 1,26). È appunto su questo piano “sacramentale” che la “Parola fatta carne” potrà diventare realtà salvifica per tutti gli uomini, sempre e ogni volta che questi, avvicinati a Cristo dall’annuncio dell’avvenimento di salvezza (fede), cercheranno di inserirsi in essa, attuandone in se stessi l’avvenimento (Liturgia).
In questa linea si muove la SC 6, quando scrive:
“Come Cristo fu mandato dal Padre, così egli mandò gli Apostoli, perché annunziassero… che il Figlio di Dio ci aveva liberati… e perché attuassero, per mezzo del sacrificio e dei sacramenti – su cui gira tutta la Liturgia - quella stessa opera di salvezza che annunziavano”.
Qui abbiamo espressa non solo la intima relazione che passa tra Scrittura e Liturgia, ma la Liturgia chiaramente appare come momento della Rivelazione – storia della salvezza, in quanto attuazione del mistero di Cristo, oggetto di tutta la rivelazione. Questa attuazione riguarda tanto il mistero di Cristo in se stesso – realizzazione nel tempo – quanto il suo annunzio. Oggi cioè la Liturgia è anch’essa – come Cristo stesso – un avvenimento di salvezza, nel quale continua a trovare compimento quell’annunzio che nel tempo antico prometteva la realtà di Cristo.
In questo senso e per questa sua posizione di “sintesi” e di “compimento ultimo”, la Liturgia è quella che ultimamente costituisce il tempo della Chiesa. Questa infatti si viene edificando nel mondo a mano a mano che negli uomini s’inserisce vitalmente il mistero di Cristo, cosa che si raggiunge con l’annunzio, come elemento predispondente, e con l’attuazione del mistero, attraverso l’azione sacramentale della Liturgia.
La SC 7 – concludendo – può quindi affermare che la Liturgia è l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Cristo, esercizio che
a) implica la santificazione degli uomini e insieme il perfetto culto di Dio, e
b) si esplica in un regime di segni.
Come si vede, nella Liturgia viene messa al primo posto “la santificazione degli uomini”, perché solo con la santità l’uomo può rendere culto a Dio. Non bisogna infatti confondere il “culto” con le sue esteriori “espressioni”. Queste sono tali (“espressioni”) e sono valide solo quando appunto “esprimono” uno stato di reale e totale adesione a Dio. Questo non può ottenersi dall’uomo sul piano umano, ma solo quando l’ontologica unità esistente in Cristo tra l’uomo e Dio, viene comunicata all’uomo: a questo provvede appunto la Liturgia con i suoi “sacramenti”. Per essi infatti il mistero di Cristo diventa una realtà che investe tutti gli uomini.
- vedi l’iconografia della virtù della fede: la fede crede Cristo, la fede crede l’eucarestia
Il concetto di “economia”, di disegno divino, in Paolo e nei padri della Chiesa: la creazione e la storia come “casa” di Dio. Appunti in forma di recensione ad un articolo di Giulio Maspero, di Andrea Lonardo (da www.gliscritti.it)
Questa economia (oeconomia) della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi... (DV2). L’espressione economia, οικονομια, è centrale nel linguaggio teologico, come ci manifesta il Concilio Vaticano II[1]. Benedetto XVI ne ha sinteticamente espresso il senso e la ricchezza in un passaggio della sua catechesi sull’inno con il quale si apre la lettera agli Efesini[2]:
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.
Siamo, dunque, di fronte a un grandioso affresco della storia della creazione e della salvezza.
E’ subito evidente come con questa espressione si vuole indicare l’unità del disegno divino. Ne fa parte la creazione, il peccato non è in grado di interromperlo, l’incarnazione lo porta a compimento, aprendolo alla parousia. E’ il vero disegno, il vero senso che sostiene il mondo. Senza questa unità, niente avrebbe significato – perché si dà un senso solo nel rapporto fra una realtà particolare ed il tutto della realtà! Ogni singolarità e, soprattutto, ogni vita umana trova in questo disegno il proprio senso, la propria vocazione e missione, il proprio futuro. La stessa unità della Bibbia discende da questa unità di oikonomia e non avrebbe modo di essere al di fuori di essa.
Se veniamo alle ricorrenze bibliche del termine nella Scrittura possiamo seguire una evoluzione dell’utilizzo del vocabolo dall’ambito dell’amministrazione affidata da un superiore ad un suo sottoposto all’ambito dell’ “amministrazione” divina dell’intero creato e dell’uomo, perché tutto raggiunga la comunione con Dio in Cristo.
Il termine oikonomia indica nel greco ellenistico, così come ci testimonia anche il greco della LXX, innanzitutto l’ “amministrazione”. Il termine ricorre due volte nella versione greca di Is22,19.21, nei versetti contro Sebnà: “Ti toglierò l’economia (l’amministrazione)”. Nello stesso senso primario compare nelle parabole, in Lc 16,2.3.4: “Rendi conto della tua amministrazione”.
Nel linguaggio paolino, il termine esprime ancora questa amministrazione affidata ad un uomo, ma questa volta ancora più esplicitamente che nel vangelo di Luca, all’interno di un esplicito progetto divino:
Se non lo faccio di mia iniziativa è un incarico (oikonomian) che mi è stato affidato (1Cor9,17).
Penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia (oikonomian tes charitos) di Dio a me affidato a vostro beneficio (Ef3,2).
Di essa (della chiesa corpo di Cristo) sono diventato ministro secondo la missione (oikonomian) affidatami da Dio presso di voi (Col1,25).
Ma – e qui si rivela la profondità dell’espressione - il ministro di Paolo è parte (appartiene!) di un disegno ben più grande della sua stessa vita di apostolo. C’è un disegno, una oikonomia, che abbraccia ogni cosa creata e nulla lascia fuori di sé! Dio ha pensato questo orizzonte, se ne è compiaciuto, lo ha iniziato e lo ha portato a compimento, nella pienezza dei tempi. Lo ha realizzato e lo realizzerà, finché sarà “tutto in tutti”[3]. Qui appare tutta la ricchezza dell’espressione e della sua realtà teologica. Così, ancora nell’epistolario paolino:
Per realizzarlo nella pienezza dei tempi, il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra
(Lett. per il disegno, oikonomian, della pienezza dei tempi, ricapitolare in Cristo...) (Ef1,10).
Far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento (oikonomia) del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio (Ef3,9).
Non badare più a favole e genealogie interminabili che servono più a vane discussioni che al disegno (oikonomian) divino manifestato nella fede (1Tm1,4).
Un recente articolo di Giulio Maspero[4], tracciando l’evoluzione del termine oikonomia, ci aiuta a penetrare ancora di più nella ricchezza teologica di questa visione.
Maspero si sofferma, innanzitutto, sull’etimologia del termine[5]:
Il pensiero cristiano, di fronte alla radicale novità degli eventi salvifici, fu costretto a creare una nuova terminologia, rielaborando concetti e vocaboli già esistenti: in particolare, la dimensione storica della salvezza cristiana fu espressa attraverso la famiglia semantica legata ad οικονομια[6].
La sua radice è composta a partire da: οικος o οικια e da νεμειν: i sostantivi si riferiscono principalmente alla dimora, alla casa, sia come edificio che come focolare. Per estensione significa anche la famiglia in senso allargato, schiavi inclusi, ed il casato da cui si discende. Il verbo assume il significato fondamentale di dispensare, distribuire, e quindi anche quello di pagare, amministrare o abitare. Le cariche politiche potevano essere designate in tale modo. Nel corso del tempo, si aggiunsero i significati tecnici di disposizione di un testo letterario o di un discorso, insieme a quello di adattamento alle circostanze e calcolo in ambito morale. Questo processo spinse J.Reumann a scrivere: “Così, da Senofonte fino all’epoca romana, questa parola, nel suo senso fondamentale di amministrazione della casa, ha continuamente suggerito alla mente del popolo un modo di fare scaltro e sottile, e perfino tra i filosofi, compreso Filone, che l’identificava con una delle virtù del saggio, essa ebbe spesso il senso di espediente”.
L’analisi degli autori greci pre-cristiani porta Maspero ad individuare un senso fondamentale del termine, un senso cosmologico ed, infine, un senso narrativo ed a concludere così per quel che riguarda la riflessione precedente al cristianesimo[7]:
In sintesi, l'analisi degli usi della terminologia in esame negli autori non cristiani dimostra l'interazione dei tre sensi principali: il significato di governo della casa, dei beni e dello stato è il principale ed il più originario, ma quasi immediatamente passa all’ambito cosmologico. Se già nel senso primigenio i termini in studio avevano un significato positivo, questo risalta nel dominio cosmologico. Ultimo cronologicamente, il senso retorico-narrativo riafferma, insieme alle accezioni cosmologiche, la connessione dell’ οικονομια e delle espressioni ad esso collegate, con lo scopo, con la visione d’insieme e con la struttura organica. In questo senso essi acquistano un valore particolarmente interessante nel contesto narrativo ed esegetico. L’arte dell’οικονομια e dell’οικονομειν è dunque quella di governare e organizzare le parti in funzione del tutto, rispettando il contesto e secondo lo scopo ultimo dell’azione. E ciò si applica allo stato-famiglia, all’universo e alla composizione oratoria o narrativa.
Maspero passa poi a riflettere sulla novità dell’utilizzo biblico del termine, con particolare riferimento agli scritti paolini ed afferma[8]:
L'economia cristiana è allora economia del dono, della grazia (οικονομια της χαριτος): amministrazione del mistero dell'amore divino per l’uomo e per il creato, cooperazione con Lui per realizzare il Suo disegno eterno. La fedeltà trova il suo fondamento nella filiazione.
E’, infatti, la lettera agli Efesini che rivela all’uomo che il soggetto e l’autore dell’ οικονομια è Dio stesso e che l’ οικονομια manifesta l’unione del mistero dell’Eterno e del tempo. Il concetto di οικονομια unisce dunque per Paolo la presenza del Figlio di Dio nel mondo e gli eventi salvifici della sua vita terrena, che egli testimonia come apostolo, con il disegno del Padre e Creatore su tutta la storia. L’οικονομια unisce creazione e redenzione nel Figlio di Dio fatto uomo.
In perfetta continuità con le lettere paoline, Ignazio d’Antiochia, nelle sue lettere (ed, in particolare, proprio in quella agli Efesini I,6,1,2-4; I,18,1,2-2; I,20,1,3-5) approfondisce i diversi aspetti del temine[9]:
Invece... proprio la necessità di combattere la gnosi porta Ignazio all’uso di οικονομια, come succederà poi anche con Giustino ed Ireneo: la sua grandezza è proprio l’essere rimasto fedele a Paolo ed ai Vangeli, rifiutando di scindere il disegno divino e la realtà storica dei singoli eventi della vita terrena del Cristo.
Questa linea, che unisce l’affermazione dell’origine divina del disegno di salvezza e la presentazione della materialità e storicità degli eventi della vita di Cristo, caratterizza tutto il primo periodo della patristica. In Atenagora si ripete ancora l’accostamento ignaziano della carne di Cristo con il disegno divino (καν σαρκα θεος κατα θειαν οικονομιαν λαβη). NelMartyrium Sancti Polycarpi il riferimento è ancora alla carne (την της σαρκος οικονομιαν)[10].
Giustino, similmente, parla dell’oikonomia realizzatasi mediante la Vergine Maria[11], con la nascita di Cristo[12]:
Così per Giustino l’ οικονομια è fondamentalmente la vita terrena di Cristo, dalla sua nascita fino alla sua passione ed alla redenzione dell’uomo, vita terrena che, preparata dall'inizio dei secoli e tipologicamente annunciata nell’Antico Testamento, fonda l’unità dei due Testamenti. Si tratta del disegno del Padre che si realizza in Cristo.
In questo modo alla visione gnostica, che separava i due Testamenti ed interpretava i misteri solo allegoricamente, Giustino contrappone proprio l’οικονομια, che è l’unico progetto del Padre, realizzato nella storia in Cristo e culminato nella Sua passione e morte, con la vittoria sul demonio e la salvezza di ogni uomo, che cerchi la Verità e compia il Bene.
Infine, Maspero, analizza il pensiero di Ireneo di Lione, del quale afferma[13]:
È essenziale notare l’importanza della dimensione trinitaria, in quanto Ireneo è anche il primo ad applicare il termine οικονομος allo Spirito Santo, affermando che unico è il ‘dispensatore’, che governa tutte le cose. Probabilmente i primi Padri erano restii nell'applicare questo termine a Dio, poiché spesso, come si è visto, l'amministrazione era affidata ad un servo ed il senso classico era ancora preponderante, come, d’altronde, nei LXX e nei Vangeli. Ma la concezione dell’ οικονομια paolina permette la maturazione della categoria profondamente positiva che si manifesta nell’opera di Ireneo, sostenuta dalla mediazione linguistica del senso cosmologico e retorico-narrativo della terminologia stessa.
Questa mediazione consente ad Ireneo di raggiungere, alle soglie del III secolo, un mirabile equilibro tra realtà dell’evento concreto e unità del disegno divino, suggellando nel suo concetto di οικονομια l’affermazione della dimensione autenticamente storica della salvezza cristiana.
L’importanza del ricorso al senso retorico-narrativo della terminologia in esame è particolarmente rilevante, in quanto permette ad Ireneo di distinguere perfettamente la storia da Dio, a differenza di Tertulliano, Ippolito e Taziano, che cercano di esprimere il mistero stesso trinitario in termini di οικονομια, appoggiandosi principalmente all’accezione fisiologica del vocabolo[14] stesso. Il confronto con la gnosi, invece, obbliga Ireneo a storicizzare l’ οικονομια, fondandone l'unità e la dimensione salvifica nella sua inclusione tra l’αρχη ed il τελος trinitari[15].
Al termine del suo studio Maspero conclude[16]:
Il termine οικονομια giunge, quindi, ad esprimere, in modo sintetico, sia la dimensione storica della salvezza che la dimensione salvifica della storia. Le tre principali accezioni precristiane interagiscono, infatti, fra loro, rendendo possibile il passaggio dall’ambito della gestione della casa, alla concezione del cosmo stesso come una casa retta da un ordine provvidente, per giungere al culmine cristiano del riconoscimento della storia stessa come casa di Dio. Ciò si fonda sullo stesso linguaggio del Nuovo Testamento, nel quale il Figlio si fa servo, per compiere fedelmente il disegno del Padre, dispensando la salvezza ad ogni uomo ed in ogni epoca, mediante i misteri della sua vita terrena, verso i quali tutta la storia converge.
Affrontare il concetto di οικονομια dal punto di vista dello sviluppo semantico a partire dai tre usi originari tutt’altro che negativi, permette di osservare come, in ambito cristiano, essi si fondono mirabilmente per esprimere il mistero dell’Incarnazione del Figlio. Se la concezione provvidenziale si riconduce immediatamente all’accezione cosmologica, la dimensione propriamente soteriologica, particolarmente sottolineata da Ignazio, Giustino ed Ireneo, si ricollega all’accezione retorico-narrativa, poiché in Cristo si rivela il senso del mondo e di tutta la storia: l’amore del Padre.
Note
[1] Per una introduzione divulgativa alla Dei Verbum vedi, su questo stesso sito:
- Teologia fondamentale. Una introduzione alla Dei Verbum
[2] Dalla catechesi di papa Benedetto XVI, del mercoledì 23 novembre 2005, sul Cantico tratto dal primo capitolo della Lettera di San Paolo agli Efesini (Ef1,3-10).
[3] Per un approfondimento dei testi paolini sul disegno divino, vedi su questo stesso sito gli articoli:
- I temi maggiori dell’epistolario paolino nelle lezioni di padre Ugo Vanni
- Il ‘mistero’ nell’epistolario paolino, di Romano Penna
- Il ‘mistero’ in san Paolo, di Pino Pulcinelli
[4] Giulio Maspero, Storia e salvezza: il concetto di oikonomia fino agli
esordi del III secolo, in XXXIV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Pagani e cristiani alla ricerca della salvezza (secoli I-III), Roma 5-7 maggio 2005, Editrice Institutum Patristicum Augustinianum, Roma, 2006, SEA 96, pagg.239-260.
[5] G.Maspero, cit., pp.239-240.
[6] (La nota è tratta dall’articolo stesso di G.Maspero) Per un'introduzione al tema, si vedano: W. Gass, Das patristische Wort οικονομια, in ZWTh 17 (1874), pp. 465-504; J. Reumann, οικονομια: "Covenant”; Terms for "Heilsgeschichte", in Early Christian Usage, in NT 3 (1959), pp. 282-292; Id., οικονομια as “Ethical Accomodation" in the Fathers and its Pagan Backgrounds, in Studia Patristica 3 (1961), pp. 370-379; O. Lillge, Das patristische Wort οικονομια; seine Geschichte und Seine Bedeutung bis auf Origenes, Diss. Erlangen 1955; W. Marcus, Der Subordinatianismus als historiologisches Phänomen, München 1963, pp. 50-60; K. Duchatelez, La notion d'économie et ses richesses théologiques, in NRTh 91 (1970), pp. 267-292; R.A. Markus, Trinitarian Theology and the Economy, in JThS 9 (1958), pp. 89-102; G.L. Prestige, God in Patristic Thought, London 1969, pp. 55-75 e 97-111; B. Botte, Oikonomia. Quelques emplois spécifiquement chrétiens, in Corona Gratiarum I, Brugge 1975, pp. 3-9; H.S. Benjamins, Eingeordnete Freiheit: Freiheit und Vorsehung bei Origenes, Leiden 1994, pp. 169-211; Id., Oikonomia bei Origenes: Schrift und Heilsplan, in G. Dorival - A. Le Boulluec (eds.), Origeniana Sexta. Origène et la bible/Origen and the Bible. Actes du Colloquium Origenianum Sextum, Chantilly, 30 août - 3 septembre, Leuven 1995, pp. 327-331; J. W. Trigg, God’s Marvellous Oikonomia: Reflections on Origen’s Understanding of Divine and Human Pedagogy in the Address Ascribed to Gregory Thaumaturgus, in JEChS 9 (2001), pp. 27-52; A. Benoit, Saint Irénée. Introduction à l'étude de sa théologie, Paris 1960, pp. 219-227; A. D'Alès, Le mot oikonomia dans la langue théologique de Saint Irénée, in REG 32 (1919) 1-9; s.v. Economia, in DPAC, 1062-1.063, firmata da B. Studer; s.v. οικονομια e οικονομος in TWNTV, coll. 151-155, di O. Michel.
[7] G.Maspero, cit., p.248.
[8] G.Maspero, cit., p.250.
[9] G.Maspero, cit., p.252.
[10] (Nota dall’articolo stesso di G.Maspero) Cf. Epistula ecclesiae Smyrnensis de martyrio sancti Polycarpi 2,2,4; H.Musurillo, The acts of the Christian martyrs, Oxford 1972, p.2.
[11] Giustino, Dialogus cum Tryphone,120,1,6-7.
[12] G.Maspero, cit., p.254.
[13] G.Maspero, cit., pp.259-260.
[14] (Nota dall’articolo stesso di G.Maspero) Si vedano, ad esempio, gli usi in senso organico della terminologia in Tertulliano, Adversus Praxean II, 29-37 e VIII, 45-47 (CCL 2, 1161 e 1168); Ippolito, Contra haeresin Noeti 3, 4, 1-2 e 14, 1, 2-4, 4; R. Butterworth, Hippolytus of Rome. Contra Noetum, London 1977, p.49 e p.75; Taziano, Oratio ad Graecos 5.
[15] (Nota dall’articolo stesso di G.Maspero) Alcuni autori hanno per questo affermato che Ireneo potrebbe essere considerato come il primo teologo della storia. Cf. Benoit, Saint Irénée. Introduction, p.221 e J. Daniélou, Saint Irénée et les origines de la théologie de l'histoire, in Revue des Sciences Religieuses 34 (1947), p. 229.
[16] G.Maspero, cit., p.260.
n. 1070 Cristo liturgo
n. 1071
azione della Chiesa
consapevolmente, attivamente, fruttuosamente
cfr. 1145-1152
sui segni
la liturgia ha la caratteristica di esistere tramite i segni
1074-1075
catechesi e liturgia (si potrebbe dire anche catechesi e annunzio!)
è culmine e fonte insieme!
1076
è economia sacramentale
a integrazione di K. Barth
da J. Ratzinger, Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.72-73
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
4.3/ Sulla III parte del CCC
n. 1692
Rapporto con le altre parti
n. 1700
i presupposti della vita in Cristo!
1/immagine di Dio (cfr. W. Kasper)
2/ beatitudine (fine)
3/ libertà
4/ atti liberi, 2 vie
5/ coscienza
6/ crescita
7/ le virtù per opera della grazia
8/ evitano il peccato
raggiungono la perfetta carità
capitolo II
persona e relazione (e società)
4.4/ Sulla IV parte del CCC
nella I sezione non c’è riferimento conciliare
2558
tale relazione è la preghiera
[1] H. de Lubac - E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 388.
[2] Come è noto il lungo iter conciliare del documento sulla rivelazione portò all’emergere del primo capitolo della Dei Verbum che non era originariamente previsto. La tematica della rivelazione personale di Dio pose così in secondo piano la questione del rapporto fra Tradizione e Scrittura che era la più sentita prima della bocciatura del primo schema, permettendo di illuminarla in modo nuovo; cfr. su questo R. Fisichella, Dei Verbum. Storia, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, pp. 279-284.