1/ Te Deum. Per i tesori del nostro giardino, di Marina Corradi 2/ Te Deum. Per le rotture di scatole, di Costanza Miriano
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi due articoli di Marina Corradi e Costanza Miriano, pubblicati il 29/12/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2012)
1/ Te Deum. Per i tesori del nostro giardino, di Marina Corradi
Un satellite della Nasa ha fotografato la Terra di notte nel corso di 312 orbite. Ne sono venuti 2,5 terabytes di immagini, poi rielaborati fino a comporre Black Marble, “marmo nero”: oceani neri e continenti blu, rischiarati dalle luci provenienti dalle aree più popolate, pare disegnino, sulla Terra, delle costellazioni. Ora, se guardate l’Europa è evidente come la regione con le macchie più brillanti e intense sia l’Italia: tutto il gran seno della pianura padana, e le aree urbane di Firenze, Roma e Napoli.
Se le luci corrispondono alla densità dell’abitato, all’affollarsi di paesi e città e fabbriche, che vuol dire che da noi si allarghi la costellazione più lucente? Forse che qui si sono andati affollando nei secoli villaggi e città, e di generazione in generazione, in una terra buona, si sono moltiplicati i figli; e sulla penisola dalla forma bizzarra ci si è stretti in tanti, così come d’estate la folla si addensa sulle spiagge più belle, o come le navate di una chiesa si riempiono, quando un prete parla al cuore.
Allora la foto dal cielo, fatta di profondo blu e di stelle – stelle di Terra, se così si può dire – mi ha ricordato il sussulto che avverto quando, tornando da un posto lontano, l’aereo si abbassa e tocca terra pesantemente – e io sono silenziosamente così contenta: di essere tornata, e nata, in questo Paese.
In questo Paese, deposito di antichi tesori accumulati nel corso del tempo in quello che, in confronto alla vastità dei continenti, è un ben piccolo lembo di terra. La Cappella Sistina e piazza del Campo a Siena, Venezia e piazza Navona, il Cenacolo, e piazza dei Miracoli, tutti nel raggio di poche centinaia di chilometri. Non è singolare questa distribuzione, non era statisticamente improbabile?
E cosa, mi domando, ha agito nel tempo come un misterioso catalizzatore, per cui era l’Impero romano il centro del mondo, nell’anno zero della storia; così che Pietro e Paolo necessariamente dovettero convergere a Roma, caput mundi, infiammati dall’ansia di annunciare all’universo la notizia: Verbum caro factum est. E da qui quella Parola, attecchendo come erba, si andò irradiando, e si depositò nei secoli nei borghi, e forse dentro la terra stessa. E romani e etruschi e orde di barbari anche sanguinosamente si andarono mescolando, e mischiando audacemente i geni di unni fulvi e di saraceni, e di biondi normanni. E ne è venuto infine un popolo tendenzialmente generoso e accogliente. Per indole benevolo, non crudele.
Il mio Te Deum di questo 2012 è per questo Paese. E non è un caso se scopro questa gratitudine proprio ora, in un finire d’anno in cui, per l’Italia, ho un po’ paura. Paura di uno smarrimento, di una amarezza che sembra allargarsi. Di strane cecità e di coriacei egoismi. Di quelli che urlano che tutto fa schifo, e che loro solo sono onesti – per la implicita propensione alla violenza che questa affermazione presuppone. Ho paura perfino di molta buona gente che dice: se questa è la scelta, perché votare? (E però è ancora in fondo la questione farisaica di prima: il crederci noi puri, noi a posto, e il mondo indegno).
Un po’ di paura per l’Italia. E come quando una persona vicina si ammala, e di colpo scopriamo quanto ci è cara, così io ho scoperto ora quanto caro mi è questo Paese. E quanto grata sono, di essere venuta al mondo qui. Grata di cosa, dirà qualcuno, di che, stretti come siamo nella crisi, in odor di default, in una democrazia che sembra rischiare lo sfascio?
Intanto, della bellezza. Di questo gran cielo di smalto sopra Milano, stamattina 12 dicembre: cielo lombardo che davvero è, quando è bello, «così splendido, così in pace». Della barriera imponente di cime bianche all’orizzonte, esercito di roccia a difenderci dal grande freddo del Nord. Sono grata delle pareti dolomitiche, perché ogni volta che torno lassù è un urto al cuore, tanto potentemente mi interpellano le loro guglie gotiche limate dal vento, dorate dal sole. Grata delle colline di Siena, che mi paiono onde di terra morbida, mare solidificato in un tempo primordiale. E l’Umbria, e Assisi, che con la sua basilica occupa nella penisola esattamente il posto del cuore. Sono grata della geometria perfetta del colonnato del Bernini, e della grande cupola la cui verticale cade esattamente sulla tomba di Pietro. Del mio amato Caravaggio di San Luigi dei Francesi, del coro di San Rocco a Venezia con i suoi mirabolanti Tintoretto. E piazza dei Miracoli? E i colori di Giotto, come preziosi distillati della terra, nella cappella degli Scrovegni?
È davvero statisticamente improbabile la casualità, in questa distribuzione di tesori. Sembrerebbe quasi una predilezione. E esserci nati dentro, e girare adagio in bici nella nebbia della Bassa, o camminare per la Maiella selvatica, intonsa, o sotto a un sole cocente sbalordirsi della sontuosità barocca di Noto: tutto mi sembra grazia.
E la gente: i vecchi nei caffè di certi paesi emiliani, e i mercati rionali, con frutta splendida e matura ben ordinata sui banchi, e la indolente, irriverente saggezza dei romani, che mi fa sempre sorridere?
Don Giussani scrisse questa sequenza: gratitudine, gratuità, letizia. La gratitudine per ciò che è dato come punto sorgente di una gratuità verso l’altro, che infine diventa uno sguardo da figlio lieto. Se ci accadesse questo, anche poco, ma in tutti, non avrei più, per questo Paese, paura.
Così che queste righe sono un grazie, e una preghiera.
Grazie di questa terra, che mio padre Egisto, tornando il 19 marzo 1943 dalla sacca del Don su una tradotta con pochi sfiniti commilitoni superstiti, passato il Brennero riconobbe: l’Italia, scrisse, «ci apparve come uno straordinario meraviglioso giardino».
2/ Te Deum. Per le rotture di scatole, di Costanza Miriano
Per quanto io tenda a dismettere con una certa facilità il portamento regale – provate voi a tenere una condotta da alto lignaggio quando, per dire, una figlia divelle il tubo dello scarico in bagno facendo la lap dance e allaga la stanza e i vostri piedi muniti di collant nuovi e miracolosamente non bucati, sfoderati in via eccezionale per la riunione a scuola che dovrebbe iniziare dodici minuti fa – per quanto io dunque deponga spesso la compostezza e la pacatezza che la mia condizione comporterebbe, c’è una cosa che non posso dimenticare. Noi siamo di stirpe regale. Nostro padre è Dio. Lui è il re dei re. È re ma è padre. E non ha considerato un tesoro geloso la sua regalità, ma anzi vuole farci come lui.
Noi, dunque, siamo principi, e da principi possiamo, dobbiamo attraversare le cose della vita, sapendo che tutto è nostro, perché chi lo ha creato è uno di famiglia, e in famiglia, si sa, tutto è di tutti (a parte la Coca light, che è solo mia: con la scusa che ai bambini fa male riesco a preservarla, mentre per il resto da noi la proprietà privata, soprattutto dei genitori, non esiste: la palette Black dahlia di Estée Lauder si usa abitualmente per truccare la Barbie, per non parlare di iPad, iPod, iPhone e della riserva ex-segreta di cioccolatini per gli ospiti).
Quando pensiamo a questo – il mondo è nostro, noi siamo redenti, siamo figli del re, ma soprattutto siamo amati infinitamente – come non gioire, come non esultare, come non ringraziare dalla mattina alla sera? Dio ha chiamato noi, proprio noi, fatti così come siamo, ci ha immaginati e sognati e amati dal grembo della nostra mamma (sì, anche il mio naso gobbuto, pare: un giorno me lo faccio spiegare). Siamo nati e non moriremo più.
E allora non c’è che da ringraziare, dalla mattina alla sera. Ogni giorno cantare il Te Deum, ogni giorno. Io, per quanto mi riguarda, chissà, forse alla fine della vita avrò molte cose da rimproverarmi, ma una no, non me la rimprovererò: non rimpiangerò di non avere apprezzato tutto quello che ho. Me stessa, intanto. Un corpo a cui alla fine mi sono affezionata, e una mente che ancora regge, sebbene per far spazio a informazioni su tachipirina e denti da latte abbia dovuto rimuovere quelle quattro nozioni appiccicate – evidentemente con lo sputo – in anni di studio. Ho un marito silenzioso ma solidissimo, che mi ama più di quanto meriti, e quattro figli che ancora ogni sera, ogni singola sera da più di tredici anni, vado a spiare nel letto di nascosto, mentre dormono, sniffando alito e profumo di carne. E quando mio marito torna tardi dal lavoro ogni volta la stessa scena: lo aspetto e poi gli dico «corri, vieni a vedere una cosa meravigliosa», e cerco di portarlo in camera dei figli ad ammirarli (non sempre mi riesce, a volte risponde che già li conosce e che preferirebbe riposare, visto che siamo nel cuore della notte e li rivedrà dopo cinque ore per portarli a scuola). Abbiamo di che vivere dignitosamente, non troppo perché ci dimentichiamo di Dio, non troppo poco perché lo malediciamo, come dice la Bibbia.
Ho tanti amici e tante persone care, spesso anche compagni di cammino verso Dio, per cui ringrazio Lui, per la fantasia con cui ha immaginato ognuno di loro, mettendo in ognuno qualcosa di bello (e a volte di bellissimo).
E la cosa più immensa: posso mangiare anche ogni giorno il corpo di Cristo, una cosa che a pensarci vengono i brividi. Posso pregare e andare in chiesa senza essere sgozzata per questo, posso leggere libri che mi parlino di Dio e altri che solo mi divertano, posso correre tra le catacombe dell’Appia antica, sul suolo bagnato dal sangue dei martiri, percorso da Pietro e Paolo, e gioire non so se più, in quel momento, perché sono cristiana o perché sto correndo.
Il passo successivo, poi, è imparare a ringraziare anche delle croci, ma per quello ci stiamo attrezzando. Conosco persone che sanno farlo, e lo so, loro sono un pezzo avanti rispetto a me. Perché il punto del battesimo è imparare a far diminuire l’uomo, e crescere Dio. E questo si fa passando dalla croce: chi dopo una croce grossa, tutta insieme, e chi attraverso le piccole croci quotidiane, la banalità, la mediocrità, insomma la parete aspra e scabrosa della vita normale. Viste da vicino le chiamiamo rotture di scatole, questo purgatorio quotidiano, ma se uno allontana lo sguardo si capisce che questa macerazione abbracciata per amore sta lavorando e lavorando bene, ci fa felici e ci salva.
E allora quello che ci fa soffrire, ci scomoda, ci disturba, quando cominciamo a capire che effetto meraviglioso ha sulla nostra anima, ci diventa «più caro dell’Eremo», come diceva san Francesco del suo amato rifugio per la preghiera solitaria, spesso abbandonato per stare in mezzo agli altri. Amare le telefonate importune, i capricci dei figli, il capo che non ci valorizza, una risposta brusca quando volevamo un complimento, un invito quando volevamo la solitudine e la solitudine quando volevamo parlare, il freddo, il pollo che si brucia, il sonno, il nervosismo…
Questo dunque è il mio buon proposito per il prossimo anno: imparare a dire grazie anche per le croci, questa misteriosa, segreta, preziosa via verso Dio, nostra felicità.