Elogio della cultura «alta». Il filosofo britannico contro i critici del «canone occidentale», di Roger Scruton
Riprendiamo da Avvenire del 16/11/2008 un articolo scritto da Roger Scruton. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (16/12/2012)
Qui difendo quella che a volte è chiamata l’«alta cultura» della civiltà occidentale, con cui intendo l’eredità letteraria, artistica e filosofica insegnata nelle facoltà umanistiche d’Europa e d’America, e che di recente (soprattutto in America) si è pensato di liquidare con disprezzo in quanto prodotto di «defunti maschi europei di razza bianca».
Propongo una definizione di cultura, e respingo la tesi che le culture non possano essere giudicate, dall’interno o dall’esterno, in base a criteri oggettivi. Sostengo che una cultura è in un certo senso composta di giudizi, ed esiste affinché un certo criterio di giudizio sia trasmesso da una generazione all’altra. Una siffatta capacità di giudicare è vitale per lo sviluppo morale, ed è il fondamento dei riti di passaggio tramite i quali i giovani abbandonano la condizione di adolescenti e assumono il peso della vita adulta. Una società sana ha quindi bisogno di una cultura sana, ed è così anche qualora la cultura, come io la intendo, fosse il possesso non di una maggioranza, ma di un’élite.
Diversamente dalla scienza, la cultura non è un patrimonio di informazioni obiettive o di verità teoretiche; non coincide neppure con l’acquisizione di abilità particolari, non importa se retoriche o pratiche. Eppure, essa è una fonte di sapere: sapere emotivo su che cosa fare e che cosa pensare. Trasmettiamo questo sapere per mezzo di ideali ed esempi, per mezzo di immagini, racconti e simboli. Lo trasmettiamo per mezzo delle forme e dei ritmi della musica, e per mezzo degli ordini e degli schemi del nostro ambiente costituito. Simili espressioni culturali nascono come risposta alla percezione della fragilità della vita e incarnano la consapevolezza collettiva che noi dipendiamo da realtà al di fuori del nostro controllo.
È per questo che ogni cultura affonda le proprie radici nella religione e da queste radici la linfa del sapere morale affluisce verso i rami del pensiero e dell’arte. La nostra civiltà è stata sradicata – ma l’albero sradicato non è sempre detto che muoia. La linfa può trovare il modo di raggiungere ugualmente i rami, che ogni primavera si coprono di foglie con l’eterna speranza delle cose viventi. Tale è la nostra condizione, ed è per questo motivo che la cultura è diventata per noi non solo preziosa, ma un’autentica causa politica, la via maestra per conservare la nostra eredità morale e per restare saldi di fronte a un futuro burrascoso.
Contemporaneamente, il declino della fede religiosa significa che molti, sia scettici sia indecisi, cominciano a rifiutare il proprio retaggio culturale. Il suo peso, senza il conforto offerto al credente, diventa intollerabile e motivo di dileggio per coloro che ancora si assoggettano a portarlo. Le nostre istituzioni educative riservano posti di prestigio a chi sminuisce gli antichi valori, le antiche gerarchie e le antiche forme di ordine sociale impliciti nei programmi di insegnamento a noi tramandati. Si sostiene che non ci sia niente da insegnare nel nome della cultura se non i pregiudizi di epoche trascorse, e la tesi è puntellata con vari argomenti tratti dall’arsenale dello scetticismo filosofico mediante i quali ci si sforza di dimostrare che non esistono procedimenti oggettivi, né autorità, né saldi canoni classici, che autorizzino a considerare un prodotto culturale superiore a un altro. Nel campo della cultura, sentiamo dire che tutto – ma anche niente – può andare bene. Paradossalmente, questo nuovo relativismo, che ha invaso ogni area delle discipline umanistiche, va a braccetto con una censura altrettanto tenace.
Molti docenti nutrono risentimento per le opere tradizionali della nostra cultura e cercano di eliminarle dai programmi o di circondarle di tabù, considerandole meri avanzi di atteggiamenti patriarcali, aristocratici, borghesi o teocratici, che non vantano più alcun diritto su di noi. Questo atteggiamento scettico verso i classici rivela un profondo errore di giudizio, perché i capolavori della cultura occidentale sono eccezionali proprio per il distacco che mantengono nei confronti delle norme e delle ortodossie che li hanno partoriti.
Solo una lettura molto superficiale di Chaucer o Shakespeare può dare l’impressione che questi scrittori accettassero supinamente la società in cui vivevano, o far trascurare il fatto di gran lunga più importante che tali opere proiettano sul genere umano la luce del giudizio morale ed esaminano, con tutto l’amore e la pietà che ciò richiede, la fragilità della natura umana.
È precisamente l’aspirazione alla verità universale, la ricerca di una prospettiva «dall’occhio di Dio», a contraddistinguere la cultura occidentale. Ed è per questo che dovremmo guardare alla Rivoluzione americana, anziché alla Rivoluzione francese, come al punto di svolta della nostra storia, al momento in cui la civiltà occidentale è giunta a coincidere col mondo moderno – perché è stato in quel momento che l’Illuminismo ha assunto il potere.