C.S. Lewis e la ragione, di Edoardo Rialti. "Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate, ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto"

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /12 /2012 - 14:45 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal web sul nostro sito una relazione del prof. Edoardo Rialti, tenuta nel corso del Seminario di Metafisica 2005 presso l’Università Cattolica (nel web non è stato possibile reperire ulteriori informazioni sull’evento e la sua data). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su C.S. Lewis vedi su questo stesso sito:

Ulteriori testi su C.S. Lewis sono disponibili alla pagina Testi su C.S. Lewis.

Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2012)

Introduzione di Alessandro Ghisalberti

Buongiorno a tutti e benvenuti all’appuntamento del seminario di metafisica. Abbiamo oggi un intervento che è nuovo nella struttura. Come detto il seminario di quest’anno fa un po’ di innovazione rispetto alle scorse edizioni per venire incontro alle esigenze degli studenti. Il caso dell’incontro di oggi è emblematico: il dottor Rialti è un giovane studioso e traduttore di Lewis, nonché ricercatore, ed ha accettato di venire a parlare con noi e dell’autore e della sua opera, nonché dell’entusiasmo suo, che prova nel parlare di un autore come Lewis.

Non ho particolari cose da dire per introdurre l’incontro di oggi se non che Clive Staples Lewis è morto nel 1963 ma la sua presenza permane nella vita letteraria ed artistica nonché a livello della grande letteratura fantastica, che è in tempi recentissimi sfociata anche nel film tratto dal libro Le Cronache di Narnia. Lewis è stato anche un esperto scrittore moralista, abile comunicatore, ha studiato anche dal punto di vista della modalità accademica soprattutto l’età medievale ed il passaggio da questa all’età moderna.

Io ricordo di aver letto molti anni fa, avendo molto apprezzato ed amato un suo libro, L’immagine scartata, tradotto in italiano da Marietti nel 1990 e che tratta del passaggio dell’immagine del mondo così come era rappresentato per molti secoli sino alla fine del medioevo - mondo inteso in senso cosmologico, astrologico -, qualcosa che aveva molto a che fare con la struttura del pensiero, del linguaggio e dell’habitat dell’uomo. Quel mondo per cui il cielo lo sentivamo come il tetto della nostra casa grande, allargata, e le stelle il sole e la luna come le luci, le grandi luminarie all’interno della nostra casa. C’era dunque un senso del mondo, nella concezione arcaico-tolemaica, più familiare, che poi con l’evolversi della scienza astronomica e della cosmologia s’è perso. È questa l’immagine scartata che secondo Lewis abbiamo perso e che provoca anche della nostalgia, ma che possiamo recuperare attraverso i grandi autori del medioevo. Lo stesso mondo immaginato da Dante corrisponde a questo cielo, a questo cosmo che poi come immagine è stata scartata.

Ma oggi sentiremo parlare del rapporto che può avere la letteratura con il tema della razionalità in generale, il tema della trascendenza, il tema della metafisica in senso lato e più precisamente il tema di Dio che è l’oggetto del corso di teoretica di quest’anno, all’interno del quale è nata la proposta di sentire parlare di Lewis. Ma cedo senz’altro la parola al dottor Rialti

Relazione di Edoardo Rialti

Signore e signori buon pomeriggio e grazie davvero da parte mia, perché è per me un grande onore e una grande gioia poter parlare di Lewis per il tema nello specifico: la ragione nell’opera di Lewis.

Metto subito in chiaro una cosa: come il professore giustamente ha appena ricordato Lewis ha una produzione vastissima come saggista, apologeta, romanziere, docente di letteratura rinascimentale e medievale. Ci sono anche dei testi anche teorici in cui lui parla della ragione, ma quello che vorrei fare io con voi oggi, è una cosa un po’ diversa. Non vorrei cioè parlare dei suoi testi “filosofici”, teorici su che cos’è la ragione (peraltro molto belli), ma vorrei con voi percorrere delle storie perché secondo me in Lewis, attraverso le sfumature, i passaggi della libertà dei suoi personaggi ed anche della vita stessa di Lewis, questo problema emerge in maniera ancora più netta e secondo me suggestiva.

Prima di parlare di Lewis però, e spero di essere breve e non noioso, devo fare una piccola parentesi autobiografica, nel senso che voglio rendervi ragione del perché io sono così legato a Lewis. Anche perché non mi riesce di parlare di Lewis in terza persona come se dovessi gestire un animale allo zoo ed io dovessi interpormi tra voi e l’autore. Io vi posso solo raccontare quello che a me oggi succede nel leggere Lewis, come la mia vita è cambiata. Non so come dire: non ho definizioni dell’autore da sbandierare, ma solo da raccontarvi quanta verità, quanta bellezza, quanta novità, quanta gioia è entrata nella mia vita da quando ho aperto i libri di questo scrittore.

Dunque devo dirvi che io non vengo da una tradizione familiare particolarmente religiosa, anzi… però c’è sempre stato un fatto che mi ha dato molto fastidio, e cioè il fatto che nel leggere il libro del mio autore preferito J.R.R. Tolkien – autore de Il signore degli anelli - a dodici, tredici, quattordici anni, ogni volta che finivo il romanzo piangevo amaramente, calde lacrime amare, arrabbiato con me stesso, perché io sapevo benissimo e vedevo che l’esperienza suggestiva del racconto era l’esperienza di un uomo che viveva l’appartenenza alla Chiesa. Che Tolkien non poteva dire le cose che diceva se non perché era cattolico!

Dicevo tra me: ma è possibile che l’unico romanzo in grado di spezzarmi il cuore viene da un’esperienza che per quanto mi riguarda, così per come la incontro per la strada, mi è assolutamente indifferente? Poi vidi un film che si chiama Viaggio in Inghilterra, un buon film ma non eccellente: soprattutto nella seconda metà infatti, per chi conosce la vita di Lewis è un film che banalizza molto gli affetti ed i dolori che Lewis ha vissuto. Però rimasi lì per lì molto affascinato dal tipo umano: professore di Oxford, giacca di tweed, si trova con gli amici a bere la birra al pub… Non sapevo nulla di Lewis, sapevo solamente - perché il film lo diceva - che era una storia vera. Allora andai in libreria a cercare i libri di Lewis e da un risvolto di copertina scoprii che era il miglior amico di Tolkien, il mio autore preferito. Mi comprai questi libri, me ne portai a casa uno - Sorpreso dalla gioia, la sua autobiografia - e tanto per iniziare - da questo momento non finirò più - a citare Lewis stesso, dopo dieci pagine di quel libro per me il cielo si era capovolto.

Lì per lì pensai che ci fosse una qualche forma di reincarnazione, perché mi dicevo che non era possibile che qualcun altro prima di me avesse vissuto in maniera così intensa e netta le mie esperienze più profonde, e le sapesse dire con una tale chiarezza, profondità e suggestione che adesso io, se vi devo dire quelle esperienze, devo usare le parole di Lewis; non posso più usare le mie perché lui le ha dette meglio di me, le ha chiarite a me stesso. Io amavo fin da quand’ero bambino i miti e le leggende del nord Europa? Lewis aveva pianto e scoperto la commozione e il desiderio a cinque - sei anni leggendo i miti e le leggende del nord Europa. Certi paesaggi, certe esperienze non posso nemmeno starvele a raccontare perché sono come sfumature infinitesimali.

Fatto sta che io mi trovai a dialogo con un uomo che aveva vissuto e amato come io avevo vissuto e amato: nessun’altro, nessuno ha dialogato con me come Lewis. La cosa strana è che tutta questa serie di esperienze che anch’io facevo, anch’io amavo ed anch’io vivevo, lo avevano portato - perché neanche lui aveva una formazione religiosa - a vivere l’esperienza cristiana. Questo non è che mi abbia immediatamente cambiato, ma mi ha messo nella condizione per la prima volta di dire che allora forse nell’esperienza cristiana ci potesse essere qualcosa di interessante anche per me, se aveva colpito Lewis. Da allora Lewis non mi ha più lasciato: da quel momento, fino al mio effettivo incontro con l’esperienza cristiana che ha cambiato la mia vita Lewis mi ha accompagnato per tutto il liceo, ha sostenuto e spronato le mie scelte di studio e di professione perché io studio letteratura medievale e rinascimentale e Lewis era professore di letteratura medievale e rinascimentale. Ed oggi è anche il mio lavoro, nel senso che oggi io traduco Lewis perché ci sono molte cose di Lewis che purtroppo non sono disponibili in lingua italiana e, parlandone con alcuni carissimi amici, ho detto: mettiamo a disposizione quello che manca.

Adesso, proprio per questo, voglio spiegarvi come abbiamo strutturato questo volume della Rizzoli, Prima che faccia notte, perché quando mi sono trovato a dover decidere di fare un’antologia di Lewis, la domanda era: che cosa mettere? O meglio, che cosa non mettere. Mi trovavo veramente in difficoltà, perché volevamo un volume agile, doveva essere sottile e per esempio delle lettere l’editore ne voleva una quindicina. Le lettere di Lewis sono tre volumi di trecento pagine l’una: si tratta di novecento pagine. Come scegliere? Cosa fare? E dei racconti: che cosa mettere e che cosa non mettere? Su che cosa puntare? Mi ero trovato in grosse difficoltà anche perché per quanto mi riguarda mi trovo nei confronti di Lewis nello stesso atteggiamento che avrà avuto qualche devoto monaco medievale nei confronti di Aristotele, cioè sottoscrizione riga per riga. Come faccio a scegliere in Lewis un’eccellenza se sottoscrivo praticamente tutto?

Trovandomi a scegliere ho comunque dovuto operare ed ho deciso di mirare sul punto che teneva più esposto me, che era anche il punto che aveva tenuto più esposto Lewis per tutta la vita. Egli dice, nelle Lettere di Berlicche, che davanti a Dio nessuno dice mai “Chi sei Tu?”, come dovendo imparare un nuovo criterio morale, conoscitivo etc. Ma guardandolo dice: “Ma eri Tu, dunque, per tutto il tempo?” Eri Tu, dunque, per tutto il tempo?

Lewis ha avuto un pregio straordinario, come uomo e come scrittore, che è identificabile nell’aggettivo che dà il titolo alla sua autobiografia: Sorpreso dalla gioia. “Sorpreso”. Lewis è un uomo che per tutta la vita si è lasciato sorprendere. Cresce educato, come egli stesso dice, come un “ateo di ferro”. Lui si vantava – visto che era stato educato da un professore neopositivista, professor Kirkpatrick – di non fare un’affermazione che non fosse ferreamente logica. Diceva: “una frase che io dico può essere tranquillamente misurata con il metro e con il termometro”, non c’è niente che io dico che non sia verificabile, sperimentabile, circoscrivibile, identificabile, analizzabile”. Eppure, quest’uomo che si vantava di questa sua corazza, si trovava costantemente esposto ad una cosa che non poteva né gestire, né controllare, né misurare: quell’emozione, quel desiderio misterioso che lui chiamava “gioia”.

Leggeva un libro che gli piaceva, vedeva un paesaggio, ascoltava una musica e in alcuni casi “desiderai ogni volta - diceva - con quasi dolorosa intensità qualcosa che non potrà mai essere descritto”. Questa cosa lo continua a pungolare per tutta la vita e Lewis ha avuto la nobiltà, l’umiltà di lasciarsi sorprendere da questo desiderio.

Cresce come un ateo di ferro? Eppure si sorprende ad amare tutti autori religiosi perché sono gli unici romanzieri, poeti e scrittori che dialogano con questo suo desiderio. Ed un giorno arriverà a dire che “i cristiani hanno torto, ma tutti gli altri sono noiosi”: perché tutti gli altri non sanno dialogare con questo livello dell’umano. Arriva all’università? Dice: “mi avevano tacitamente messo in guardia di non fidarmi mai dei filologi e esplicitamente dei cattolici” ed ecco che il suo migliore amico era filologo e cattolico, John Ronald Reuel Tolkien. Perché? Perché la pensavano uguale? No. Perché condividevano la stessa esperienza: Tokien, come Lewis, amava i miti e le leggende del nord Europa.

Lewis dice che quando uno incontra un amico, appena scopre che quello può essere tuo amico c’è come una frase sotterranea che il cuore sussurra: “Come, anche tu? E io che pensavo di essere l’unico! Anche tu vedi? Anche tu?” Si trova esposto alla stessa esperienza. Anche Tolkien conosceva il desiderio, la trafittura della gioia.

Andando avanti altri amici, tutti i suoi migliori amici, erano tutti uomini religiosi: Owen Barfield, Hugo Dyson, J.R.R.Tolkien. E proprio Owen Barfield un giorno lo sfiderà, all’università - lui chiama questo scambio epistolario bellissimo “la grande guerra”- dicendogli che deve decidere una cosa: se questa gioia è una emozione, una parentesi estetica della sua vita, oppure se questa è l’opzione decisiva. Cioè: o punti tutto sulla gioia, come la cosa decisiva, oppure la tratterai sempre come un’emozione che torna e non ritorna. Oppure puoi decidere di abbandonarti, di esporti; di portare alle estreme conseguenze quello cui questo desiderio ti sta chiamando e seguirne le tracce. Guarda che se verrà qualcosa di buono nella tua vita passerà da quella gioia, passerà da queste circostanze, e Lewis accetta, accetta e si lascia sfidare da questo desiderio e questo passo passo, costantemente, giorno dopo giorno, si rivela sempre più essere come una cosa non gestibile.

Tra l’altro la sua autobiografia è straordinaria da questo punto di vista, perché fa vedere come il desiderio non sia gestibile. Dice per esempio: andando in bicicletta un giorno passo davanti ad un paesaggio straordinario, questo paesaggio mi colpisce il cuore e trafigge l’anima ed ecco che la gioia ritorna! “Desiderai con quasi dolorosa intensità qualcosa che non potrà mai essere descritto”. Allora la sera torna a casa e decide di tornare il giorno dopo nello stesso luogo in modo da provare la stessa emozione. Torna. E non succede niente. Perché non è una cosa a comando, non è una cosa che si può evocare come se si trattasse di un fantasma: è ingestibile. Il desiderio succede, è l’iniziativa di qualcos’altro - forse di qualcun’altro, inizia a dirsi Lewis -.

Ed ecco che progressivamente questo qualcun’altro a cui Lewis lascia progressivamente campo aperto si fa sempre più strada e si rivela essere uno. Il desiderio è la voce di qualcuno che sta chiamando Lewis fuori di se stesso: “ammisi che Dio era Dio” e Lewis si converte al teismo. Non al cristianesimo: cioè che c’è un Dio. C’è qualcuno che chiama l’uomo attraverso il desiderio.

Ed ecco ancora un’altra volta un altro passo: sta passeggiando dopocena con J.R.R. Tolkien e Hugo Dyson. Costoro sono tutti appassionati di leggende, di miti e Lewis dice, come fosse un unico cono d’ombra nella sua vita: certo, che peccato però che le leggende, i miti, in fondo siano finti. Non è vero, infatti: i miti che tanto ci colpiscono, che tanto ci commuovono, in realtà sono falsi. Tolkien si gira e risponde che no, non sono falsi, non è vero che sia così. Il mito è un modo più profondo di conoscere la realtà, perché l’uomo la realtà non la conosce analizzandola, ma coinvolto in una storia.

Lewis farà un esempio, più avanti nella vita: io potrei stare qui ora a raccontarvi dell’amore - che cos’è l’amore, la sua importanza, la sua dinamica etc. - oppure vi posso semplicemente raccontare la storia di Orfeo ed Euridice, di un uomo che ama così tanto la propria donna da scendere all’inferno, cantare davanti al re della morte e il re della morte commosso gli dice: “riportala indietro, ma non ti girare perché se no la perdi per sempre”. Orfeo all’ultimo si gira e la perde per sempre.

Come pensate che vi colpirà di più l’esperienza dell’amore? Attraverso le mie definizioni o attraverso l’esposizione di una storia? Attraverso l’esposizione di una storia, perché noi viviamo in una storia. Io stamattina per venire qui mi sono lavato i denti, ho preso il treno, sono arrivato alle dodici, ho mangiato e così via: è una storia, è una vicenda raccontabile. Per questo un’altra storia mi colpisce. Il mito è un’altra storia che in qualche maniera ci riespone alla verità. Tutto il mondo antico è vissuto così: raccontando delle storie che in qualche maniera comunicavano una realtà profonda.

Qual è la caratteristica del cristianesimo? Che anche Cristo è un mito. Ma con la tremenda differenza - dice Lewis - che è veramente accaduto. È un passo in più; non è meno degli altri miti. Lewis era sempre rimasto colpito dai miti di Balder, Osiride, Bacco etc., dei che si sacrificavano per il loro popolo, morivano e tornavano: una potenza infinita che si espone alla violenza e all’obbrobrio per salvare coloro che amava.

Un giorno è successo davvero; è quello che ha detto San Paolo: “quello che voi adorate senza conoscere io ve lo annuncio”, è successo. L’incontro con Cristo non ha portato Lewis a dover scartare quello che amava prima - L’immagine scartata, appunto - ma a riconoscere che quello che amava era più vero di quanto egli stesso potesse immaginarsi. Non “chi sei tu?” ma “ma eri Tu, dunque, per tutto il tempo” quando mi colpivi al cuore con i miti del nord Europa? Eri tu che già mi chiamavi, e che sei successo un giorno!

Da questo momento la vita di Lewis, anche come artista, sarà messa al servizio di questo. Sarà messa al servizio, con tutto l’acume e la grandezza della sua intelligenza ed anche della sua ferrea educazione logica, di questa scoperta.

Tante volte si dice che le opere di Lewis sono l’ennesima lotta tra il bene ed il male. Queste secondo me sono definizioni che stanno strette ad autori come Tolkien e come Lewis, perché non si parla di principi astratti che si danno battaglia, il problema non è il bene o il male. Il problema è che cosa l’uomo desidera: se l’uomo segue il desiderio che lo chiama fuori di sé o se si imprigiona, cioè se resta nella misura di quello che già conosce, di male ma anche di bene.

Una grandissima romanziera e scrittrice, Flannery O’Connor ne Il cielo è dei violenti, ad un certo punto immagina un dialogo tra un personaggio e il diavolo - naturalmente il personaggio non sa che l’altro è il diavolo - e il personaggio dice: ma insomma, allora la vera alternativa nella vita in fondo è tra Dio e il diavolo. E il diavolo gli risponde: ma no, il diavolo non esiste, te lo dico per esperienza personale; l’unica vera alternativa è tra Dio e se stessi. E su questo punto il diavolo ha perfettamente ragione, perché anche il male più abbietto, se è fuori di noi, alla fine ci accorgeremo che non ci basta!

All’Innominato accade così: proprio perché è un tiranno rapace, quando man mano durante la vita invecchia, si accorge che il potere gli sta scorrendo come acqua fra le dita, che non gli basta più. Proprio perché è violento - Il cielo è dei violenti è il titolo di Flannery O’Connor -. Tutta l’arte di Lewis sarà impostata su questo: non sull’insegnarci dei precetti morali, che ci lasciano come prima, ma sul riesporci al desiderio. Lewis lo dice molto meglio di me, basta guardare per esempio Le lettere di Berlicche.

Le lettere di Berlicche sono questa immaginaria corrispondenza epistolare tra un diavolo di più alto grado che spiega ad un suo parente, un diavolo più giovane, come si tentano gli uomini; c’è quindi un epistolario che mese per mese spiega come si deve tentare. Cosa succede? Ad un certo punto il “paziente” - il ragazzo tentato - ha una conversione nuova, divampante: il diavolo è quasi sconfitto ed allora il più anziano gli spiega:

Mio caro Malacoda, mi pare ti ci vogliano troppe pagine per narrare una storiella molto semplice. La cui conclusione è che ti sei lasciato sfuggire il tuo giovanotto dalle dita. […] Veniamo ora alle tue balordaggini. Secondo la tua stessa confessione, dapprima hai permesso al tuo paziente di leggere un libro che veramente gli piaceva, del quale veramente godeva, e non per poter fare poi osservazioni intelligenti con i suoi nuovi amici. In secondo luogo, gli hai permesso di fare una passeggiata fino al vecchio mulino, e di prendervi il tè – una passeggiata attraverso un paesaggio che veramente gli piaceva, e fatta da solo. In altre parole, gli hai permesso due veri, positivi piaceri. Sei stato così ignorane da non vederne il pericolo? La caratteristica dei Dolori e dei Piaceri è che non ci si può sbagliare sulla loro realtà e che perciò, in quanto esistono, offrono all’uomo che li prova una pietra di paragone della realtà. […] Naturalmente so benissimo che anche il Nemico [Dio] vuole distaccare gi uomini da se stessi, ma in modo diverso. Ricorda sempre che a Lui quei piccoli vermi piacciono veramente, e che pone un assurdo valore assoluto sulla distinzione di ciascuno di loro. Quando dice che devono perdere il loro io, intende solamente dire che debbono abbandonare la volontà propria; una volta fatto ciò, in realtà dà loro indietro tutta la loro personalità, e si vanta (sinceramente, ho paura) che se saranno completamente suoi saranno più che mai se stessi. Quindi, mentre gode nel vederli sacrificare perfino le loro innocenti volontà a Lui, odia vederli allontanare dalla loro natura per qualsiasi altra ragione. E noi invece dovremmo sempre incoraggiarli a farlo. Le più profonde simpatie e i più profondi impulsi di ogni uomo sono la materia prima, il punto di partenza, del quale il Nemico l’ha fornito.

L’alternativa non è tra una norma morale ed una norma immorale. L’alternativa è tra trovare pienamente se stessi e non trovare pienamente e stessi. Se lasciarsi esporre in qualcosa nel quale, strano a dirsi, l’uomo trova pienamente se stesso, oppure no.

Nella vita di tutti i giorni noi facciamo sempre questo: quando beviamo noi beviamo un bicchiere d’acqua. Quando un uomo legge un libro, quando un uomo guarda il cielo stellato compie un atto di fede implicita in Dio, perché riconosce che è dalla realtà che gli viene il compimento. Non certo se si chiude, dicendo per esempio “non ho sete” ed allora non gli viene sete: deve bere! E nessuno si sente umiliato dicendo: ma guarda, per essere soddisfatto della sete devo bere un bicchiere d’acqua. È piuttosto totalmente proteso a godere di quel bene che si fa strada nella sua vita. Quando un uomo guarda, legge, ama, è più se stesso che mai. Non esiste il vedere per il vedere, esiste il vedere perché io vedo voi, e sono me stesso nel momento in cui vi sto guardando.

Tutta la battaglia nelle opere di Lewis è a questo livello. Per esempio, in un bellissimo racconto che non ha finito, Lewis immagina Menelao. Per dieci anni questo eroe ha dato la caccia a sua moglie, Elena, la traditrice. Ha messo a ferro e fuoco Troia. Alla fine dopo dieci anni di assedio la trova, è lì che sta per raggiungerla ed immagina “finalmente mi riporto a casa la donna più bella del mondo, la figlia di Zeus”. E la vede, invecchiata di dieci anni.

Allora, aiutato dalla voce [lui vede questa vecchia e non la riconosce], egli la riconobbe. E assieme al primo istante del riconoscimento, tutto quello che aveva costituito il nerbo del suo pensiero negli ultimi undici anni crollò in una rovina senza speranza. […] Perché non si era mai immaginato che lei potesse apparire così; mai sognato che la carne si accumulasse sotto il mento, che il viso potesse essere tanto grasso e al tempo stesso tirato, che avesse capelli grigi sulle tempie e le rughe sotto gli occhi. […] Una donna che invecchiava; una triste, paziente donna composta, che chiede di sua figlia.

Menelao ne esce distrutto. Mentre ritornano indietro finiscono in Egitto e Lewis qui fa lo scarto: uno stregone egiziano dice a Menelao che quella non è mica Elena. Come non è Elena? Ma certo che no: quella è una cosa, una cosa che nasce, che cresce, che muore, soggetta al limite. Tu hai sposato invece una donna immortale, eterna, bellissima; vieni avanti, figlia di Zeus. Ed ecco comparire un’altra Elena, di dieci anni più giovane.

Lewis dice: chi ti porti a casa? La donna vera, che è invecchiata, che ti ha tradito, che porta sul viso il segno evidente del peso del tempo, oppure l’idea, l’immagine di bene che ti sei portato dietro per dieci anni?

Lewis non ha finito il racconto: è morto prima di poterlo concludere, però ne aveva discusso con Roger Green, uno scrittore suo amico il quale ci ha lasciato delle note in cui spiega il punto su cui voleva incentrarsi Lewis. Il conflitto dunque a questo livello: la più grande menzogna nella vita è che si possa amare senza sacrificio, senza uscire dalle nostre previe misure. Dice infatti Roger Green che Menelao per dieci anni ha avuto una idea di Elena e improvvisamente quell’idolo, quell’idea gli viene offerta. Penso, dice Green, che per quello che mi aveva detto Lewis, alla fine la donna vera, la donna invecchiata, era la donna che Menelao amava davvero, o che avrebbe potuto amare davvero.

Perché Green può dire questo? Anche perché Lewis ha scritto queste pagine nello stesso periodo nel quale sua moglie Joy stava morendo di cancro e Lewis nel suo diario, Diario di un dolore, scrive: “Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di mia moglie, ma mia moglie.” E Menelao avrebbe potuto dire: “Non la mia idea di Elena, ma Elena.”

Questo è ancora più chiaro in un saggio che Lewis aveva scritto qualche anno prima, intitolato Il cielo, in cui dialoga con il lettore rivolgendosi ad un voi che non è un voi astratto. Io tutte le volte che lo leggo sono veramente riesposto al dialogo con Lewis. Per cui adesso lo leggo a voi e a voi dico quello che lui mi dice:

Forse avrete notato che i libri che veramente amate sono legati insieme da un filo segreto; sapete benissimo qual è la caratteristica comune che ve li fa amare anche se non riuscite a tradurla in parole; ma la maggior parte dei vostri amici non la vede affatto e si chiede perché, se vi piace questo, vi piaccia anche quello.

Ancora:

forse vi siete trovati davanti a un paesaggio che sembrava incorporare quello che avete sempre cercato e poi vi siete girati verso l’amico al vostro fianco, ma alle prime parole tra voi si è aperta una voragine. E non è forse vero che le vostre amicizie più durevoli sono nate nel momento in cui finalmente avete incontrato un altro essere umano che avesse qualche sentore, sebbene vago ed incerto anche nei migliori amici, di quel qualcosa che desiderate sin dalla nascita e che cercate da sempre di trovare, di vedere e di sentire sotto il flusso di altri desideri ed in tutti i temporanei silenzi, tra tutte le passioni più forti, notte e giorno, anno dopo anno dall’infanzia alla vecchiaia? Non l’avete mai posseduto. Tutte le cose che hanno mai posseduto profondamente la vostra anima ne sono state solo degli indizi, barlumi allettanti, promesse mai completamente realizzate, echi che si spegnevano subito, appena vi arrivavano alle orecchie. Ma se questa cosa dovesse veramente manifestarsi, se mai dovesse sentirsi un’eco che non si spegnesse subito ma si espandesse nel suono stesso, voi lo sapreste; al di là di ogni possibilità di dubbio voi direste: ecco quella cosa per cui sono stato creato.

Questo è la ragione nell’opera di Lewis: la capacità di ospitare, di riconoscere e di amare qualcosa che viene da fuori e che ha da dire sul nostro cuore. “Se questa cosa mai dovesse manifestarsi voi lo sapreste”! Lewis non può dirlo per noi, lo dice. Voi però lo sapreste, “al di là di ogni possibilità di dubbio” lo direste; “eri tu dunque, per tutto il tempo?”.

Ma per illustrare ancora meglio vorrei chiarire con voi brevemente, in cinque minuti, un punto, nel romanzo secondo me più bello di Lewis: A viso scoperto - un titolo che in italiano sembra un western, in realtà il titolo originale molto più bello, in inglese, tradotto letteralmente suonerebbe Finché non avremo un volto, molto più bello, più profondo.

È la storia di Amore e Psiche, tanto per restare in ambito di miti, ri-raccontato dal punto di vista della sorella brutta. Sapete: ci sono le due sorelle gelose e Psiche. Lewis a quel punto immagina un paesino barbaro ai confini della Grecia, un re che è un tiranno brutale, un culto degli dèi sanguinario - vengono fatti dei sacrifici umani, violenti, per dare fertilità ai campi, i sacrifici della fertilità che arrivano sino a Pavese - e queste tre sorelle sono educate da un precettore greco, uno schiavo greco che è un ex filosofo, chiamato Volpe perché ha i capelli rossi. Delle tre, l’una è una bella ragazza, l’altra - che è la protagonista, Orual - è bruttissima e la terza che nasce si chiama Psiche ed è bellissima, di una bellezza divina, raggiante.

Orual è legatissima alla sorella, la ama con tutta se stessa, ella è l’unico conforto e la gioia della sua vita. Ad un certo punto però scoppia una pestilenza e il sacerdote del culto locale chiede che venga data in sacrificio al dio, che deve sposare e al tempo stesso divorare la vittima, proprio Psiche. Allora Volpe, il consigliere del re, di fronte al sacerdote che parla di sacrificio, che l’uomo deve darsi in pasto alle divinità, chiede di parlare ed ecco che qui si vede di nuovo in maniera straordinaria tutto il rapporto fra la ragione ed il mistero:

“Padrone, padrone fammi parlare!”

“Parla” concesse il re.

“Non ti accorgi padrone - disse rivolto a lui - che il sacerdote dice cose senza senso? C’è un’ombra che dovrebbe essere un animale, che è anche una dea, che è anche un dio, che dovrebbe amare e divorare! Un bambino di sei anni direbbe cose più sensate! Un momento fa la vittima di questo sacrificio doveva essere il maledetto, la persona più indegna di tutto il paese, offerta in espiazione. Ora invece sembra che debba essere la migliore di tutto il paese, la vittima perfetta, unita in matrimonio al dio come ricompensa. Domandagli quale delle due cose intende dire: non possono essere vere entrambi”

“Questa mattina abbiamo ascoltato troppa saggezza greca, o re - disse il sacerdote - e son tutte cose risapute, non c’è bisogno che me le venisse ad insegnare uno schiavo. Il suo ragionamento è molto sottile, ma non porta pioggia e non fa crescere il grano. Cose che entrambe si possono ottenere con un sacrificio. Sono discorsi che non procurano loro nemmeno il coraggio davanti alla morte. Quel greco, là, ora è schiavo perché in una battaglia ha gettato a terra le armi, si è lasciato legare le mani e trascinare via e vendere piuttosto che ricevere un colpo di spada nel cuore. Ancor meno esso li aiuta a comprendere le cose sacre, costoro pretendono di vedere tali cose nitidamente, come se potessero vedere gli dèi scritti in un libro. Io, o re, ho avuto a che fare con gli dèi per tre generazioni, e so che essi ci abbagliano ai nostri occhi e si confondono come i gorghi di un fiume e nessuna enunciazione chiara che li riguardi può essere vera. I luoghi sacri sono luoghi oscuri.”

Psiche viene sacrificata, la sorella non può sopportare che il corpo rimanga esposto magari alle belve feroci, la va a cercare ed invece, nella valle sacra del dio trova Psiche ancora più bella, sana, florida, raggiante, che le dice: sono sposata! Era vero! C’è un dio invece che mi ama! Non è assolutamente come veniva detto, è molto più vero di quello che ci immaginavamo: il divorare non esiste! Io sono sposa di un dio bellissimo che viene ogni notte e io vivo con lui.

La sorella allora le dice: bene, allora portami a vedere il palazzo del dio. E Psiche le risponde: come, come faccio a fartelo vedere, se ci siamo già dentro? La sorella risponde che non vede nulla, piuttosto vede una valle, vede gli alberi e Psiche replica: come fai a non vedere? Qui siamo nell’atrio principale, qui c’è la tavola imbandita, qui ci sono i servi… come fai a non vedere?

E Orual non capisce. Ma per capire perché non capisce, bisogna riandare a un dialogo precedente, quando Psiche sta per essere sacrificata e prima dice alla sorella:

“Ti devo confessare una cosa che non ho mai confessato a nessuno fino ad ora, nemmeno a te.” “Di che si tratta?”

“Questo: - dice Psiche - da sempre, o almeno da prima che io me ne ricordi, ho provato una specie di desiderio di morte.”

“Ah, Psiche - la interloquì - dunque ti ho resa così infelice?”

“No, no, non hai capito. Non quel tipo di desiderio. È proprio nei momenti di maggiore felicità che l’ho provato più intensamente. Mi è accaduto in quei giorni felici quando noi tre stavamo là sulla collina, al vento e al sole. Ti ricordi? Quel colore, quel profumo. E guardare in là verso la montagna, e proprio perché tutto era così bello nasceva in me un desiderio, sempre lo stesso: da qualche parte doveva esserci qualcosa di ancora più bello. Tutto sembrava dirmi: Psiche, vieni! Ma io non potevo andare, non ancora, né sapevo dove andare, quasi mi faceva male…”

Desiderai con quasi dolorosa intensità, qualcosa che non potrà mai essere descritto.

“…mi sentivo come un uccello in gabbia, che vede gli altri uccelli della sua specie prendere il volo verso casa. Orual - disse, rivolta a me con gli occhi splendenti - io sto per andare alla montagna. Non capisci, ti ricordi come stavamo a guardarla piene di desiderio, e tutti quei racconti sulla mia casa d’oro e d’ambra stagliata contro il cielo, dove pensavamo che non saremmo mai potute andare? Il più potente dei re l’avrebbe costruita per me. Se tu potessi crederci, sorella! No, ascolta, non lasciare che il dolore ti chiuda le orecchie e ti indurisca il cuore!” [la sorella sta chiudendosi, si è tappata le orecchie].

“Il mio cuore si è indurito?”

“Non verso di me, né il mio verso di te. Ma ascolta, queste cose sono poi terribili come sembrano? La cosa più dolce di tutta la mia vita è stato proprio quel desiderio di raggiungere quella montagna e trovare il posto da dove proviene tutta la bellezza”.

E la sorella risponde:

“e quella sarebbe tutta la cosa dolce? Ah, crudele, crudele! Il tuo cuore non è di ferro, peggio. È di pietra!” Singhiozzai.

La sorella non vuole vedere. Perché? Perché questo vorrebbe dire che dovrebbe lasciare andare la propria sorella amata verso quest’altro uomo, verso questo dio misterioso, che la ama. A tal punto che di notte Orual vede il palazzo e dice che non è vero, che sua sorella è pazza:

“mia sorella è pazza!” E questo [dice] rese l’aria della valle più respirabile.

Perché non c’era più nessuno a cui dover rendere conto. Non c’era più nessun misterioso dio che ama e rende felice mia sorella.

Per fare questo Orual deve andare contro a due cose: l’evidenza innanzitutto, perché sua sorella è sana, florida, raggiante e infinitamente più bella di prima - e chi la nutre? Come fa a vivere? Come fa ad essere così contenta? Come fa a guardarla così? -

E, in secondo luogo, il fatto che lei il palazzo l’ha visto. Ricatterà la sorella, succederanno tutta una serie di questioni ed alla fine lei, che accusa gli dèi di aver imbrogliato le carte, sogna alla fine della vita – e con Orual anch’io mi avvio giustamente alla conclusione - di poter parlare finalmente agli dèi e di dirgli quello che ha covato come odio per tutta la vita.

So quello che direte. Direte che gli dèi non sono affatto come noi li dipingiamo e che io avrei dovuto saperlo in quanto mi era stato mostrato un dio e la casa di un vero dio [si sta rivolgendo agli dèi]. Ipocriti! Certo che lo so. Come se ciò servisse a lenire le mie ferite. Avrei preferito che voi foste cose come l’ombra della bestia. Sapete bene che non vi ho mai odiato veramente finché Psiche non ha cominciato a parlare del suo palazzo e del suo amante e di suo marito. Perché mi avete mentito? Diceste che una bestia l’avrebbe divorata. Perché non è andata così? Avrei pianto per lei, avrei dato sepoltura ai suoi resti, avrei retto un monumento funebre e…e…e… Ma rubarmi il suo affetto! Davvero non riuscite a capire? Credete che noi mortali troveremmo più facile accettare voi dèi sapendo che siete belli? Ebbene, se è questo che credete, vi dirò che sarebbe mille volte peggio perché allora, voi, adeschereste e allettereste. Non ci lascereste nulla, nulla che ai nostri occhi varrebbe la pena di tenere e ai vostri di prendere. Quelli che amiamo di più, chiunque meriti il nostro affetto, quelli sarebbero anche quelli che scegliereste voi. Oh, già me l’immagino, anzi sarà sempre peggio. Mano a mano che voi svelereste la vostra bellezza il figlio che volta le spalle alla madre, la moglie al marito, rapiti lontano dal richiamo perenne e sempre uguale degli dèi, condotti dove noi non potremmo seguirli. Sarebbe meglio per noi se voi foste ripugnanti e voraci, preferiremmo che voi beveste il loro sangue piuttosto che ci rubaste i loro cuori. Preferiremmo vederli morti ma nostri, che vostri e resi immortali.

Ecco tutto il punto e la pretesa del male nella vita: andare contro il desiderio nostro e degli altri. Combattere contro il desiderio, costantemente. Perché il desiderio non è un campo neutro ma è il luogo dove Dio si fa strada e ci chiama.

Dopodiché Orual rincontra, giacché sta vedendo gli spiriti, Volpe, il filosofo greco suo vecchio mentore il quale che cosa dice, ora che è nell’eternità e vede? Dice:

Sono io da biasimare per le cose che dice, sono io che dovrei essere punito: io le ho insegnato come si insegna a un pappagallo a dire “bugie di poeti” o “gli dei sono un falso idolo”. Io le ho fatto credere che questo esaurisse la questione. Non le ho mai detto che è una immagine fin troppo vera del demone interiore – del male interiore -. Lei non mi ha mai domandato ed io ero contento che non me lo domandasse, perché la gente ricavasse dalle statue degli dèi qualcosa che nessuno ha mai ricavato dai nostri concetti. Naturalmente io non lo sapevo, ma non le ho mai detto che non lo sapevo. Non lo so neanche ora. So soltanto che la strada che conduce agli dèi è molto più simile alla casa degli dèi del paese o anche molto diversa, molto più diversa di quanto ci aspetteremmo. Il sacerdote almeno sapeva che ci vogliono sacrifici; gli dei vogliono il sacrificio. Vogliono l’uomo.

Ed ecco la parte finale, quando, dopo tutto il tempo che si è parlato di dio e degli dèi, il dio arriva, il dio sta per entrare nella sua casa. Il dio viene:

Se Psiche [la sorella] non mi avesse tenuta per mano sarei caduta a terra. Ora mi aveva condotto al bordo estremo della vasca d’acqua, l’aria intorno a noi diventava di momento in momento più luminosa, come se qualcosa avesse sprigionato un incendio. Ogni respiro che esalavo mi portava nuovi terrori, nuova gioia ed una dolcezza insostenibile. Mi sentivo come trafitta da frecce, mi stavo disfacendo.

Questa immagine c’era già nella vita di Lewis: quando egli si convertì si sentì come un pupazzo di neve che si scioglieva. Pensate alle Cronache di Narnia: il gelo perenne dell’inverno, arriva il leone e l’inverno si spezza. Cosa dice ancora Dante quando vede Dio nel XXXIII del Paradiso, per spiegarne l’esperienza? “Così la neve al sol si dissigilla”.

… mi stavo disfacendo, non ero nessuno, ma dire questo è ancora troppo poco. Piuttosto Psiche stessa non era più – in un certo senso – nessuno. La amai come un tempo non avrei mai creduto di poterla amare. Avrei patito qualunque morte per lei, eppure non era lei, non ora, che contava. Oh, se contava! Come dubitarne? Lei contava gloriosamente. Era per amore di un altro.

La lama si è ripuntata alla gola. Per tutto il tempo si è parlato del desiderio di qualcun altro, ma adesso Orual ama Psiche per amore di un altro. Per qualcosa che ha a che fare con lei. La terra, le stelle e il sole, tutto ciò che era stato o sarà, esistevano per amore di Lui.

Egli stava venendo: la creatura più terribile, la cosa più bella. L’unico terrore, la cosa più bella che ci sia, stava venendo. Le colonne sul lato più lontano della vasca già brillavano per il suo avvicinarsi. Abbassai lo sguardo a terra.

Poi lo rialza e lo guarda.

Avevo terminato il mio primo libro con le parole “non danno una risposta gli dei”. Ora so, Signore, perché tu non dai risposte: tu stesso sei la risposta. Davanti al tuo volto ogni domanda muore sulle labbra. Quale altra risposta sarebbe soddisfacente? Parole, soltanto parole, da far scendere in campo contro altre parole. A lungo ti ho odiato, a lungo ti ho temuto, forse potrei…

E il libro finisce su quest’ultima opzione della libertà.

Chiudendo, se devo dire la cosa che a me colpisce di più in tutta l’opera di Lewis è che egli ci espone sempre e costantemente ad una sola cosa: al desiderio. E ci dice: se questa cosa vi colpisce, voi lo sapreste. Voi lo sapreste.

La sua arte è una spregiudicata - senza limiti! - valorizzazione dell’umana esperienza. La ragione in lui è la capacità di ospitare questa impossibile e desiderabile corrispondenza tra sé e la realtà. Costantemente ci dice: sappiate che potete aspettarvi qualcosa dalla realtà; sfidatela la realtà! Come diceva lui, quello che mi colpisce dell’esperienza è che è una cosa così onesta: l’universo risponde il vero a chi lo interroga onestamente.

E la logica, a questo punto? E la ragione, la capacità di Volpe, quella che abbiamo visto all’inizio, dove va a finire? Viene buttata alle ortiche? No, niente è cacciato. Perché, se qualcuno di voi ha presente le Cronache di Narnia, anche lì abbiamo l’immagine di un professore di logica a cui i bambini dicono: ma nostra sorella dice una cosa impossibile. Dice che entrando in un armadio si entra in un mondo fantastico.

E il professore risponde: ecco, ma cosa insegnano ai ragazzi nelle scuole, al giorno d’oggi? Non gli insegnano più la logica. Scusate, a rigor di logica, se vostra sorella non mente e non è pazza, dobbiamo supporre che dica la verità.

Se avete presente il film tratto dalle Cronache di Narnia, questo inizia con la bambina Lucy che entra nell’armadio e vedendo questo paesaggio più vasto dice: “impossibile!”. Ma è un’impossibile che in realtà sta dicendo “possibile!”. Perché ce l’ha davanti agli occhi; ecco la ragione!

Mentre alla fine dello stesso film, la strega, quando vede Arslan, il leone resuscitato, bisbiglia disperata “impossibile”. La realtà è sempre più grande di noi, sempre più forte di tutte le nostre capacità di imbrigliarla nelle previe nostre definizioni.

È la genialità di Lewis di rappresentare Dio come un leone, l’animale meno domestico e meno controllabile che ci sia. Dio voglia, e ringraziamo il cielo che opere come l’arte di Lewis ci sostengano in questo senso, che i nostri occhi siano sempre più capaci di dire “possibile”, come Lucy che entra in Narnia, e sempre meno di avere lo sguardo diabolico, chiuso nella tirannia del proprio potere della strega bianca.

Il più grande regalo che l’opera di Lewis fa nella mia vita è questo: non c’è niente di casuale in quello che amiamo ed io, per esperienza personale, lo dico anche a voi. Sappiate cioè che quello che amate non è casuale: “se verrà qualcosa di grande nella vostra vita - Egli stava venendo - avrà a che fare con questo vostro desiderio”.

Vi ringrazio tantissimo per la vostra attenzione.

Domande e risposte

Ghisalberti: Non ho parole da aggiungere, tutto questo calore si è sentito. Posso solo dire che sentendo questa esposizione così appassionata, così coinvolgente e così in tema con quello che dicevamo all’inizio - ricercare le vie per arrivare a trovare quello che cerca la metafisica, percorsi paralleli a quelli ufficiali della logica e della filosofia - che oggi abbiamo avuto un’occasione bellissima e un esempio molto stimolante.
Ho solo il rimpianto che non si riesca a farne a sufficienza di percorsi paralleli, senza intaccare quelli della filosofia e della metafisica, per far vedere come ci sia questa convergenza in tutto ciò che è quantomeno il percorso tradizionale dell’umanesimo
. Io sono senza dubbio grato a nome di tutti, come hanno già manifestato con il caloroso applauso, al dottor Rialti che così misuratamente ma così appassionatamente – senza superare il limite della passione che lui ha per Lewis - è riuscito a farci entrare dentro questi temi, questi problemi e suggestioni che, posso dirlo anche io, sono quelli che ci riguardano.
Ora, se ci sono domande, vi invito a farle.

Intervento: Mentre ascoltavo Rialti ho ripreso una frase di Lewis proprio da Sorpreso dalla gioia - che poi hai anche citato -, nella quale Lewis parla dell’esperienza. “Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate, ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete avere ingannato voi stessi ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi: l’universo risponde il vero, quando lo interrogate onestamente”.
Io ho letto poco di Lewis rispetto a tutta la sua opera, ma per quel poco che ho letto, mi ha colpito moltissimo come abbia lo sguardo così positivo rispetto all’esperienza; come abbia una fede, nell’esperienza come luogo dove uno possa trovare il compimento di tutti gli aspetti di sé.
Ho in mente in particolar modo il saggio Il cielo
ove arriva a dire che tanto più uno rimane fedele alla propria diversità, le proprie tendenze, la propria affettività etc., tanto più compie quella che è la sua umanità, la sua natura.
A tal riguardo c’entra tantissimo l’educazione, perché uno sguardo così alla realtà, così all’esperienza, viene da domandare da dove Lewis l’abbia potuto prendere, quali maestri abbia avuto che l’abbiano potuto così richiamare all’esperienza.
Per una persona che voglia veramente interrogare l’universo, che abbia a cuore la verità e l’incontro con essa, capire chi nella propria vita sia maestro sia importantissimo.
Immagino che per Lewis questo sia stato fondamentale. Vorrei capire dunque l’esperienza che egli ha avuto a questo riguardo.

Rialti: Certamente. E’ una domanda importantissima anche perché Lewis di mestiere faceva l’educatore. Era cioè docente di letteratura medievale e rinascimentale a Oxford e teneva un corso che si chiamava “Introduzione alla mentalità medievale”, che aveva ogni anno più di trecento studenti perché era un corso fondamentale e poi lui era un docente bravissimo. Ha letteralmente plasmato generazioni di studiosi anche nello specifico del suo lavoro.
Per quanto riguarda l’educazione va dato atto sicuramente a Lewis che egli possedeva una straordinaria onestà intellettuale personale. Lui non ha avuto grandissimi professori: ha avuto grandi professori all’università e un grande insegnante di letteratura greca durante il liceo, ma ha avuto tra i suoi grandi maestri persone che non ha conosciuto direttamente ma che gli hanno cambiato la vita: Chesterton, MacDonald, Dante, Virgilio. Lui scrive di loro: “tu sei lo mio maestro e lo mio autore”, citando Dante. Ha imparato a guardare immedesimandosi con loro, seguendo sempre di più la traccia lasciata da loro nonostante le proprie previe misure.
Disse di Chesterton che, leggendone i libri, risultasse l’uomo più ragionevole che avesse mai conosciuto. A dispetto del suo cristianesimo. Dante era il poeta più grande che lo colpiva. Nonostante il suo cristianesimo. Virgilio poi era il più grande poeta del mondo antico, nonostante il suo sentimento religioso. Finché a un certo punto gli viene da domandare: ma non sarà che non è “nonostante”, ma sarà “proprio per”?
Il punto è questo; questo è un passo che fa lui e che grazie al cielo è lasciato a ciascuno di noi.
Walter Hooper, il segretario di Lewis, venuto poco fa a Milano, mi ha detto una cosa bellissima, cioè che la maggior parte della gente pensa di potersi aspettare qualcosa solo da se stessi. Lewis invece, per come era stato incontrato dai suoi migliori amici - Owen Barfield, Tolkien - che avevano valorizzato quello che altrimenti era un desiderio assolutamente solitario - “ma come, anche tu? E io che pensavo di essere l’unico” -, anzi lo avevano sostenuto a guardare sempre di più.
Infatti la dedica de L’allegoria dell’amore, il suo primo grande saggio, è dedicata a Owen Barfield, il suo primo grande amico
, che lui dice il primo grande maestro della mia vita.
Perché? Perché Owen Barfield è un maestro? Perché lo ha sfidato sul terreno del desiderio - la “grande guerra” - e gli ha detto: devi decidere su cosa puntare nella tua vita, devi decidere a cosa guardare. Questi sono i maestri della vita di Lewis: persone che lo hanno sostenuto e spronato a puntare sul desiderio. Questo lo ha reso a sua volta capace di uno sguardo così.
Per questo, continuo, Hooper diceva: la maggior parte della gente pensa di potersi aspettare qualcosa solo da se stessa, dalle proprie già previe risorse. Lewis per come era stato incontrato da Cristo attraverso la realtà, sapeva di potersi aspettare qualcosa dagli altri per cui io ho vissuto per un anno con un uomo, Lewis, che era il mio datore di lavoro, il quale mi chiedeva un parere, io gli rispondevo una cosa e tra me e me dicevo intanto “che stupidaggine che ho detto”. Lui però la mia affermazione la rilanciava in aria come una palla e ne faceva il ponte per una cosa più grande e più intelligente. Alla fine del discorso mi chiedevo “l’avrò mica detta io una cosa così intelligente”.
Ti rendeva partecipe del tuo percorso, senza mai sostituirsi a te
: questa è la straordinarietà dello sguardo che aveva Lewis sulle cose, ma perché Lewis era incontrato costantemente così. È sempre stato un uomo così: aveva il cuore scoperto e ha deciso di lasciarlo scoperto ed ha per questo sorpreso una serie infinita di suggerimenti che gli hanno cambiato la vita.
Legge per caso alla stazione, giusto per fare un esempio, un libro di George MacDonald e questo libro gli cambia completamente il modo di guardare le cose. Lewis dunque ha avuto dei grandissimi maestri, amici vivi. Non persone che gli hanno detto che cosa fare ma persone con le quali lui ha camminato. Tolkien era cattolico e Lewis protestante, in Inghilterra - dove non è che sempre i rapporti tra protestanti e cattolici siano stati particolarmente facili -, ma i due erano insieme e non perché la pensavano uguale, ma perché erano esposti alla stessa esperienza: amavano entrambi nostro Signore. Infatti in entrambe le opere di Lewis e di Tolkien da una parte c’è il male che è sempre solo - Sauron nel Signore degli anelli non ha neppure due occhi, ne ha uno: è solo anche rispetto a se stesso, ha un punto di vista che è ottuso - e dall’altra c’è “la compagnia dell’anello”; un gruppo di persone messe insieme che inizia ad essere legato per un motivo anche storico e contingente ma che alla fine è legato l’uno all’altro per quello che gli è successo, si amano, si vogliono bene.
Se qualcuno di voi ha letto Il signore degli anelli, dovrebbe avere presente due personaggi, Gimli e Legolas, che sono Tolkien e Lewis
, rispecchiano esattamente l’esperienza che i due hanno fatto perché questi due personaggi della fiaba sono di due popoli che nella leggenda non si sopportano - hanno il corrispettivo odio di un ebreo e di un palestinese dei giorni nostri in terra santa -, due popoli vicini opposti da un conflitto asprissimo. I due sono messi insieme per un motivo politico ma il fuoco cova sotto le ceneri. Quando la cosa si ribalta? È quando Gimli il nano si innamora di Galadriel, la regina degli elfi, che il nano guarda con occhi diversi anche il compagno di viaggio. Perché lui per la prima volta è stato esposto ad un desiderio più grande.
Questa è l’esperienza che Lewis ha fatto con persone come Owen Barfield, Charles Williams, Tolkien, etc.; non gente che la pensava alla stessa maniera ma persone che camminano insieme, perché condividono lo stesso desiderio.
Se a un amico tu dovessi chiedere mi vuoi bene, non dovresti tanto chiedergli “mi vuoi bene?”, ma “lo vedi anche te? Ma la vedi anche te questa verità? Ma hai a cuore anche te questa verità?”
. Qui è il punto: questo sguardo che Lewis ha visto su di sé attraverso Tolkien, attraverso gli scrittori che più amava, lo ha reso capace - proprio perché era lo sguardo di Dio nella sua vita, che lo educava e lo tirava fuori da se stesso - di essere un educatore straordinario.
A tal punto che una bambina gli chiede in una lettera: “ma chi è questo Arslan di cui si parla tanto nelle Cronache di Narnia?” Lewis le risponde: “Pensaci bene. C’è qualcuno che a Natale viene, ha lottato contro il male per liberare gli uomini, che per la colpa di un traditore è stato ucciso da degli esseri, da degli uomini malvagi ed è tornato più grande e più forte di prima? Se conosci il suo nome, fammelo sapere”. Lewis non fa il passo al posto del lettore, perché valorizza l’esperienza
. Non ha il problema di far capire, perché non è un uomo ideologico: ha solo il problema di esporci ad una esperienza. Perché cosa ti colpirà? Il leggere in filigrana: guarda che si parla del cristianesimo, o piuttosto il vedere ancora una volta una forza infinita come questo leone che si fa fare a pezzi per salvare un bambino. Questo ti dice di più di mille concetti perché non è un concetto, è un’esperienza.
Lewis come educatore ha sempre fatto solo questo, infatti diceva che il compito di un lettore non deve essere di ricondurre l’autore a quello che già pensa perché sostiene che questo è come prendere un motore nuovo, metterlo sulla nostra vecchia moto e fare i nostri soliti giri. Te invece ti devi mettere sul sellino posteriore e farti portare dall’autore in posti dove non sei mai stato, e così scoprirai qualcosa di nuovo.

Intervento: Mi ha colpito quanto diceva il segretario di Lewis, che lui si aspettava sempre qualcosa dalle persone. Leggendo la sua autobiografia, c’è un episodio in cui si racconta che lui, pranzando con degli studenti, vedendo il cenno di assenso di uno di questi all’altro dice: “lì capii di aver sbagliato”. Mi aveva colpito molto che un professore imparasse da un suo studente. Questo atteggiamento Lewis l’aveva solo con le sue amicizie o si vedeva anche nel modo di fare lezione?

Rialti: Per rispondere basta dire una cosa: Lewis riceveva duecentocinquanta lettere al mese dai suoi lettori. Ha risposto a tutti. Tutti i mesi e per tantissimi anni. Quando alla fine della vita non ce la faceva più le dettava, ma ha risposto a tutti e se voi avete modo di prendere in mano l’epistolario è sconvolgente perché vi accorgete che lo stesso giorno risponde con la medesima serietà a un professore di novant’anni che gli scrive: “senta stavo cercando una cosa sulla Divina Commedia ma non trovo il passo” - e lui risponde - come pure a una bimba di nove anni, nello stesso giorno e con alcuna condiscendenza. Addirittura i bambini gli mandano dei disegni e lui ogni volta ringrazia per quel che ha ricevuto. Oppure per i racconti: bambini di nove anni che gli mandano racconti sulle Cronache di Narnia e Lewis li legge e dice: “grazie, perché m’hai fatto scoprire una cosa che nemmeno io sapevo”. Proprio perché l’ha vissuta intensamente con gli amici, la straordinaria capacità di sorprendersi di Lewis si è riversata in tutta la sua vita, ma non per un programma intenzionale, bensì per un atteggiamento umano. Quello che appunto diceva Walter Hooper, cioè che lui ha vissuto per un anno con un uomo che ha tirato fuori solo il meglio di lui. Questo non perché Lewis avesse il previo problema, ma perché lui era guardato così.
Oltretutto, sempre riguardo all’educazione, bisogna tener presente che Oxford ha sfornato in quegli anni una generazione di grandissimi educatori, ma perché erano persone fedeli a ciò che amavano.
Ad esempio Lewis ha avuto grandi professori ma non dei grandissimi padri durante la vita; ne ha avuti, ma si trattava di persone vissute centinaia di anni prima, da Dante a George MacDonald che lui chiamava “il mio padre e il mio maestro”, colui che mi ha riesposto al desiderio. Questo lui non lo sente minimamente come una condizione inferiore, perché quelle persone continuavano a fare del bene nella sua vita, da dove erano, a tal punto che a loro riconosce un merito grandissimo.
Nel film Viaggio in Inghilterra si vedono queste lezioni che egli fa, tipo di tutoraggio, però il film non rende molto bene il personaggio Lewis perché rappresentano questo inglese freddo, molto distaccato, con una forma anche di sottile disprezzo nei confronti della gente, che parla per tutta la vita del dolore e poi quando la moglie sta male soffre ma in realtà è la moglie che soffre. Invece in realtà - ve lo racconto per farvi capire la persona - non è così. I due si sono sposati negli ultimi tre anni di vita di questa donna, che si era convertita al cristianesimo leggendo i libri di Lewis. Ennesimo caso di sorpresa perché Lewis innanzitutto malvedeva gli americani, non sopportava particolarmente i comunisti e si innamora di una americana ex-comunista convertita al cristianesimo. Anche in questo caso l’Onnipotente, come direbbe Charles Williams, aveva dispiegato il suo tocco ironico. Oltretutto scrive un libro intitolato Sorpreso dalla gioiaSurprised by joy -, per tutta la vita parla della gioia e si sposa con una che si chiama Joy Gresham. Lei era malata di una malattia gravissima alle ossa, la davano per spacciata e loro si sposano sul capezzale. Dal giorno successivo al matrimonio, lei per tre anni non ha avuto quasi più niente. Il cancro si arresta, lei stava bene, camminava. E lui per quei tre anni ha perso calcio alle ossa. Quando i suoi amici gli chiedevano, lui rispondeva: “se abbiamo fatto a cambio, a me va bene; perché sono io che l’ho chiesto”. Questo per esempio nel film non emerge.
Lewis non è un uomo che non ha mai avuto preconcetti o precognizioni, è solo che ha avuto l’umiltà di lasciarsele fare a pezzi e di seguire quel di più.
Dice di non aver paura del dolore, perché tutte le volte che è arrivata una gioia nella sua vita, gli ha causato un dolore
, che è l’uscita da noi stessi.
A un certo punto in A viso scoperto alla protagonista viene detto: “muori, prima di morire; dopo non c’è possibilità.” Esci dalle tue previe misure. L’unica alternativa è se tu sia di quello che hai in testa o se tu sia di questo amore nuovo che ti succede.

Intervento: Un po’ alla Terzani, all’ultimo Terzani.

Rialti: Non so, non ho letto Terzani, non glielo saprei dire. Purtroppo non ho letto il libro…

Intervento: Neanch’io. Comunque se posso, vorrei fare un complimento per questa lezione non lezione. Purtroppo i professori sono noiosi, invece io a Salerno avevo un professore che insegnava filosofia così, alla buona, ma profondo.

Rialti: Beh, grazie…

Intervento: Innanzitutto grazie e complimenti. Io sono sempre stato colpito nell’epistolario di Tolkien dal concetto di subcreazione, l’arte come subcreazione. Chiedo allora se si può trovare qualcosa di analogo in Lewis. L’altra domanda è una curiosità, se cioè la scelta del nome Peter nelle Cronache di Narnia sia casuale oppure se risponda a una motivazione allegorica. Me lo chiedo perché si tratta pur sempre di un anglicano

Rialti: Grazie per le domande, molto ampie ed in particolare la prima. Tolkien cosa dice? Nel punto che ha convertito Lewis, che Dio crea il mondo, crea la realtà, l’uomo partecipa di questo - “coltiva il mio giardino”, viene detto nella Genesi – anche raccontando delle storie, perché attinge a qualcosa che è dato. È un modo per riappropriarsi della realtà e conoscerla più profondamente. Tanto che anche Lewis dice che la fantasia, se usata correttamente, non è fuga dalla realtà, non è liberazione dalla realtà, ma è una liberazione della realtà.
Noi possiamo immaginare un cavallo alato? Sì, perché nella vita vediamo i cavalli e vediamo le ali, ma non possiamo pensare un cerchio quadrato, perché la seconda è una impossibilità logica, la seconda è il fatto che di cavalli alati non ce ne sono. Però noi attingiamo sempre alla realtà, per scrivere, per immaginare. Tanto è vero che un uomo non può immaginare una cosa che non c’è, deve sempre utilizzare qualcosa che c’è. È la subcreazione, cioè la sotto-creazione: la partecipazione all’attività divina.
Questo è il punto; le opere di Lewis volevano essere questo: ogni grande opera non è un teorema, non è l’esposizione di un qualcosa che l’autore ha già capito
, ma è la partecipazione a una esperienza più grande che l’autore cerca di servire ed indicare con i mezzi dell’arte.
Tanta opera di Lewis è esattamente questo, perché ad esempio, anche l’allegoria delle Cronache di Narnia, che è una modalità narrativa molto diversa da quella del Signore degli anelli - che è romanzo epico, mentre le Cronache sono fiabe allegoriche - non è una modalità che funziona come “dico questo significo quello”.
Non è cioè un controllo intenzionale da parte dell’autore. Semplicemente è piuttosto il paragone tra due esperienze altrettanto reali. Per far capire l’allegoria Lewis dice: noi abbiamo l’idea che l’allegoria è un’immagine che ci richiama un concetto. È il contrario, dobbiamo infatti capire che è il concetto che è illustrabile e conoscibile solo attraverso un’immagine. Noi vediamo come un’opera allegorica la valle verde con il pastore che canta all’alba e diciamo: ecco, questo significa l’umiltà. Dovremmo invece capire che è l’umiltà ad essere come una valle verde nella quale un uomo può camminare all’alba, vedere il sole sorgere e sentire gli uccelli. È questo il ribaltamento: le Cronache sono a loro volta una allegoria, cioè si rappresenta una cosa con un’altra, ma questo restituisce il valore dell’esperienza. Dialogando con una professoressa una volta questa mi disse: “molto belle le Cronache di Narnia, certo io l’ho apprezzato meglio dei bambini perché io colgo le allegorie e i bambini invece no.” Io le ho risposto che aveva ragione in un certo senso, però capire è solo il primo passo, perché chiunque di noi capisce una poesia d’amore, ma solo un innamorato la vive. Questa è una differenza sostanziale: se non c’è un’esperienza da parte del lettore l’opera d’arte resterà sempre e comunque fredda, incapace di dirci qualcosa.
La subcreazione è appunto il servizio che l’artista rende alla creazione, perché chiunque legga una grande opera d’arte si riaccorge della realtà. Nessuno che abbia letto l’Odissea può più guardare il mare nello stesso modo. Io, da quando ho letto l’Agamennone di Eschilo, “l’infinito sorriso dei flutti” per descrivere il mare, non posso più guardare le scaglie del mare a mezzogiorno senza dire “ma guarda, sembra che sorrida!”. Perché è Eschilo che me ne ha fatto accorgere, ma il mare c’era da prima che ci fosse Eschilo. Dunque la subcreazione è la capacità che l’uomo ha di accorgersi e riappropriarsi più intensamente di qualcosa che già c’è. Non è una fuga dalla realtà ma è un servizio all’esperienza. Talmente tanto che Tolkien diceva che la differenza che c’è tra l’arte e la pornografia è che l’arte non vuole creare potere in questo mondo. Quando un’opera d’arte è vera non ti pone mai il problema “ti piacerebbe essere nel luogo che ti sto raccontando”, ma ti colpisce in quello che ti sta raccontando.
Tolkien ha sempre affermato che non avrebbe mai voluto essere nelle miniere di Moria con gli altri personaggi - Dio me ne scampi e liberi - ma lo colpiva quella storia, e la voleva raccontare.
Per quanto riguarda Peter, il protagonista delle Cronache, a cui Arslan il leone, che è Gesù, affida il mondo, certamente ha a che fare con san Pietro, perché Lewis pur partecipando formalmente dell’esperienza protestante, però ha un sentire assolutamente cattolico dell’esistenza. Cioè che Dio ha bisogno degli uomini. Che l’umanità non è, per così dire, un interregno, ma il luogo in cui appunto l’umanità viene resa partecipe di questo nuovo mondo
, di questo nuovo ordine di cose. Se qualcuno di voi ha presente il film, c’è una immagine che nel libro non è presente ma che quando l’ho vista io mi son detto che rendeva pienamente ragione del cuore delle Cronache di Narnia e di tutte le opere di Lewis ed è il fatto che quando c’è la battaglia Peter, questo bambino fragile, debole, solleva la spada e fa un solo gesto in avanti e tutto il cielo si copre delle aquile che vanno in battaglia. Io appena l’ho vista ho pensato che questa immagine restituisce, in maniera molto più potente di tutto quello che io potrò dire, l’intuizione di Romano Guardini, quando disse che quando un uomo segue Dio, quando un uomo segue Cristo, tutto ciò che c’è di buono in cielo e in terra segue il gesto di quell’uomo, serve il gesto di quell’uomo. E quella sola immagine lo fa vedere meglio del fatto che io adesso ve l’ho detto, perché quella immagine l’ha già in sé, questo concetto, perché è una esperienza, non è un concetto.
Per cui certamente Peter ha a che fare con questo, talmente tanto che nella sua trilogia fantascientifica il cognome del protagonista è Randsom ed a un certo punto, quando questo personaggio si trova a dover aiutare in un altro pianeta di nuovo un Adamo e un’Eva sottoposti a tentazione - quest’uomo è stato mandato da Dio ad aiutarli -, di notte quest’uomo dice “io non ce la faccio più ad aiutarli” e Gesù allora interviene e gli dice: “non è un caso che tu ti chiami Randsom” - che in inglese vuol dire “riscatto” - e poi gli dice: “anche io mi chiamo Randsom - riscatto -, lo sai?” E questo libera Randsom dal suo “ce la faccio, non ce la faccio”, perché il problema non è la propria misura, ma il fatto che io sono con te e insieme combattiamo. Questo lo libera e gli darà la forza di intervenire in maniera decisiva. Però c’è Randsom lì, c’è l’uomo. Dio ha bisogno degli uomini nelle opere di Lewis, assolutamente, costantemente.
Io sono convinto di questo, ma Walter Hooper, il suo segretario, ha ribadito questo; se oggi gli chiedono Lewis oggi che cosa sarebbe, lui gli risponde “un cattolico”. Perché una delle sue opere più famose, Il cristianesimo così com’è, oggi lo leggono più i cattolici che i protestanti.

Intervento: A me aveva colpito molto l’ultima frase della sua esposizione iniziale: sappiate che quello che amate non è casuale, se verrà nella vostra vita qualcosa di grande, avrà a che fare col vostro desiderio. Questo perché un pezzo dell’opera di Lewis che mi ha sempre colpito è il finale del Le due vie del pellegrino, in cui i due protagonisti vengono portati al di là della morte, verso il paradiso, da un angelo e facendo questa strada uno dei due vede la casa dove aveva vissuto da bambino e prova dolore per quello che si perde qui. Ad un certo punto però dice: “io credo che non per nulla il Signore ha avvinto così strettamente i nostri cuori al tempo e al luogo, a un amico piuttosto che a un pezzo di terra” e dice poi con una canzone che il dolore è questa cosa qua: essere legati a un tempo e a un luogo; questo è misterioso ma in qualche modo è un privilegio. Tanto è vero che a conclusione dell’opera la canzone dell’angelo dice che lui, angelo, non conosce il tempo e il luogo, perché vive nell’eternità, e rimpiange di non poter attingere mai a questa cosa che si chiama dolore e che rappresenta il fatto di essere legati alle cose finite. È un’idea che più che affascinarmi, direi che ne ho bisogno. Poi lei ha detto che Lewis ha trovato la stessa idea espressa da Chesterton quando dice: “se io abito in una casa con una cassetta delle lettere rossa e sono affezionato a questo posto, io voglio trovare quando vado nel paradiso una casa con una cassetta delle lettere rossa”.
Volevo semplicemente che lei mi dicesse, conoscendo bene questo autore, dove emerge ancora quest’idea.

Rialti: Domanda giustissima, perché è il cuore di tutta l’arte di Lewis; “Eri tu dunque?”, cioè eri tu già prima. L’ultima opera che Lewis ha scritto, intitolata Lettere a Malcom, un’opera bellissima che vi consiglio, nell’ultima frase che ha scritto dice, parlando dell’eternità: “Allora il cielo e la terra, gli stessi di ora, ma non esattamente gli stessi, risorgeranno in noi come noi siamo risorti in Cristo, e dopo chissà quante ere di silenzio e oscurità, gli uccelli riprenderanno a cantare, e le nuvole correranno sopra le colline e i volti dei nostri amici stupiti sorrideranno nel riconoscerci.” Questo è il punto, è esattamente la stessa cosa che dice Dante. Cosa trova Dante nel Paradiso? “La resorta carne allelujando”! La resuscitata carne allelujando: la salvezza non è qualcosa che non scarta la vita di un uomo, ma avrà a che fare con questo. È la salvezza di quello che già abbiamo, talmente tanto che Lewis dice che l’ultima parola di cui lui parla è l’ossessione di accostare tutta la sua vita nel volto di coloro che amiamo: “i volti dei nostri amici stupiti rideranno, sorrideranno nel riconoscerci”, non sarà torto nemmeno un capello.
Questa cosa è così vera che è vera in tutta l’esperienza della grande arte cristiana, degli uomini cristiani, se pensate al Purgatorio di Dante. Quel pezzo straordinario in cui Dante rivede Beatrice, che è tutta divina, è tutta di Dio, cioè è completamente assunta nella gloria divina e infinitamente più bella della ragazza che camminava per le vie di Firenze, eppure ha lo stesso vestito rosso che aveva quando Dante l’ha vista per la prima volta ad una festa di bambini a Ognissanti. Non è tolto nemmeno un capello di quello che già era vero e che già ci ha preso il cuore, perché non sono pretesti; l’opera di Lewis lo ricorda costantemente.

Ghisalberti: Bene, questo pomeriggio intenso, molto bello, volge al termine; ringrazio ancora il dottor Rialti per la sua bravura prima di tutto e per la sua contagiante passione per la ragione nella letteratura; ringrazio Carlo e Samuele per l’aiuto che mi hanno dato nel preparare e nell’organizzare l’iniziativa e anche nell’idearla e, visto che siamo in tanti ad essere contenti per quello che abbiamo fatto oggi, giustamente dico grazie agli studenti che mi hanno aiutato a predisporre tutto. Arrivederci al prossimo incontro. Grazie.