Una passeggiata tra nobili giganti, di Marina Corradi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Marina Corradi pubblicato il 2 dicembre 2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2012)
Milano, 13 novembre. In una giornata di sole in viale Elvezia mi si para davanti come una fiammata d’incendio il rosso e l’oro degli alberi del Parco Sempione. Questi nobili giganti, che da prima che io nascessi vivono e crescono – di un infinitesimo di millimetro ogni giorno – senza che tu, che passi, ci faccia caso; e poi una mattina d’autunno alzi gli occhi e ti incantano, così ardenti, con quei primi rami spogli tesi nell’aria come povere mani.
Mani di mendicanti, le diresti, magre e vuote. Eppure è così massiccio il tronco, e possenti le radici annodate e abbarbicate alla terra. E quella chioma fulva è l’abbondanza, l’estremo bruciare della linfa nelle vene. Ricchezza regale, che tuttavia all’ultimo nei rami secchi e nudi sembra svelare: non siamo nulla, siamo solo domanda.
San Bernardo diceva di avere imparato molto dagli alberi. Certo lui ne conosceva tutti i nomi, nelle foreste che percorreva nei lunghi viaggi a cavallo, quando, in un’Europa inselvatichita, andava a fondare monasteri. («Ciò che io so – scrisse – della Scienza divina e delle Sacre Scritture, l’ho imparato nei boschi e nei campi. I miei maestri sono stati i faggi e le querce, non ne ho avuti altri. Tu imparerai più nei boschi che nei libri. Alberi e pietre ti insegneranno più di quanto tu possa acquisire dalla bocca di un maestro».)
Pensa, ti dici, saper guardare questi alberi con quello sguardo. Da terra, magari, dal giaciglio steso in un bosco in una notte senza luna; e all’alba aprire gli occhi e incontrare, in alto, i giovani rami, esili e fieri, tesi oltre, e le gemme prorompenti di germogli verde chiaro. (E forse allora Bernardo guardava i suoi compagni di viaggio, i giovani cavalieri che si erano lasciati alle spalle nobiltà di sangue e ricchezza, sedotti da un altro tesoro. Quei cavalieri ventenni che nel sonno profondo avevano ancora tracce di lineamenti bambini, sotto alle barbe incolte. Bernardo guardava loro, e poi i germogli audaci, nel freddo umido dell’alba, e fra sé ringraziava).
Magari poi nel vento caldo di un pomeriggio di giugno con i suoi procedeva, nell’ombra di ippocastani, e di tigli, che emanavano, mille anni fa uguale a oggi, lo stesso struggente profumo. E allora Bernardo pensava ai campi di grano maturi, e alle madri che nei casolari all’orizzonte allattavano i figli stretti al seno; quell’abbondanza di foglie e di fiori e prole come l’eco di una promessa – vera già, eppure non ancora.
E forse ancora in una mattina di novembre il santo e i suoi, dopo giorni nella nebbia, si trovavano davanti un corteo glorioso di chiome di rame e di porpora, uguale a questo, stamattina, a Milano. Come l’omaggio fiero di un esercito che se ne va, ma partendo saluta, sfilando con bandiere sfavillanti, e gonfaloni d’oro.
E poi, solo i rami spogli sarebbero rimasti, Bernardo lo sapeva bene. S’addormentava a sera in una ormai fredda foresta, lo sguardo su quelle mani alzate, rigide e nere; pregava, forse? D’essere alla fine come gli alberi di novembre, all’apparenza poveri e desolati. Con nelle vene, però, una promessa: rinasceremo, e fioriremo e daremo frutto, per infinite primavere ancora.