La democrazia? È nata nel Medioevo. Un’intervista a Jacques Dalarun di Daniele Zappalà
Riprendiamo da Avvenire del 13/11/2011 un’intervista a Jacques Dalarun di Daniele Zappalà. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2012)
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ
« È come se nella lunga evoluzione di una società o di una civiltà umana venissero seminati dei chicchi. Non germinano subito, eppure anche ciò che è piccolo e unico, come una comunità monastica, può divenire un motore della storia». A sostenerlo è il noto medievista Jacques Dalarun, le cui ipotesi stanno facendo discutere in Francia.
Il saggio Gouverner c’est servir («Governare è servire», Alma éditeur) invita a un viaggio agli albori di ordini come quello francescano e domenicano. «La croce di Cristo è al contempo l’ossatura e la spina delle società medievali. Esse sono strutturate, ma pure continuamente pungolate, dalla croce. È ciò che chiamo il paradosso cristiano del Medioevo occidentale», spiega lo storico. Per lui, l’originalità, l’intensità e la portata delle esperienze spirituali di numerose comunità cristiane potrebbe condurre persino a reinterpretare il pluralismo di fonti della democrazia contemporanea: non solo l’esempio antico dei greci, né la Rivoluzione francese; ma anche il Medioevo cristiano.
Professor Dalarun, che cosa l’ha spinta a confrontare le esperienze monastiche medievali?
«Ciascuna di queste comunità sembra interpretare a suo modo la transizione dal Vangelo agli Atti degli apostoli. Quella da un carisma originario a un’armonia duratura, dato che il buon carisma deve prima o poi sempre trasformarsi in un’istituzione. Al contempo, dopo decenni di frequentazione assidua dei testi medievali, mi sembra possibile definire la società medievale pure a partire dall’incapacità evidente di far tacere la Bibbia e in particolare il Nuovo Testamento. Anche per questo, il Medioevo si costruisce sull’idea continua di un ribaltamento, come mostra il consenso paradossale attorno alle figure di santi che, come Francesco d’Assisi, rinunciano ai valori mondani di ricchezza, successo ed apparenza».
Per lei il Medioevo non è una parentesi nella storia della democrazia...
«L’idea medievale centrale di un ribaltamento dei valori mondani ha conosciuto un’applicazione concreta e frequente nelle comunità monastiche. Qui, in un modo o in un altro, chi è superiore si definisce pure come inferiore. Oppure, è superiore perché è inferiore. E quest’idea s’impone anche a proposito del papa, servus servorum Dei. Per san Benedetto, l’abate non deve presiedere o dominare, ma restare al servizio degli altri membri della comunità».
Ma fu vera democrazia?
«Ho avanzato un interrogativo e un’idea che possono sembrare fragili, ma ai quali tengo molto: in tali comunità, non si è forse inventato qualcosa che assomiglia molto alla democrazia? Certo, il Medioevo non è stato affatto il regno della democrazia come sistema di governo, ma ha conosciuto abbozzi ed esperimenti di questo tipo. Fu naturalmente anche il caso a livello civile, ad esempio con le assemblee locali in Scandinavia o certe regole di funzionamento dei Comuni italiani. Ma, ancor più che altrove, le comunità monastiche assunsero la forma di laboratori. A partire dall’assenza di un’eredità personale e dunque di una dominazione genetica, come definire chi è superiore? In molti casi, cominciò così ciò che appare come un’invenzione progressiva di forme democratiche».
Nelle sue analisi molto minuziose, emergono pure le incertezze agli albori di queste comunità...
«Certo, ma ciò appare oggi proprio come uno dei tratti salienti della democrazia. Queste comunità non si riferivano affatto al modello della democrazia ateniese, divenuto all’epoca molto astratto e ideale. Seguendo i primi passi di queste comunità, si scorge tutta la dimensione umana e in fondo la verità di una piccola società che inventa le proprie regole e comprende, ad esempio, che il tipo di elezione non riassume interamente una democrazia. In questo senso, ci si avvicina non solo a ciò che la democrazia è poi divenuta, ma anche a ciò che ancor oggi dovrebbe essere: l’arte di governare senza che nessuno possa aggrapparsi al potere».
Si può davvero parlare di un’influenza più generale di questi modelli particolari?
«Ci furono certamente delle influenze. Colpisce molto il fatto che il fiorire dei Comuni italiani coincise con la diffusione capillare degli ordini poveri, in particolare quello francescano. E a proposito degli slittamenti dall’universo religioso verso quello civile, non dimentichiamo che in Italia l’assemblea comunale si teneva talvolta nel convento francescano... Attilio Bartoli Langeli ha poi dimostrato che i francescani furono pure archivisti nei Comuni. L’influenza non fu immediata, certo, ma verosimilmente giocò un effetto analogico e un valore di testimonianza legati a questa presenza. In proposito, ho sempre visto il cristianesimo come una religione che suscita domande ed evidenzia problemi, ancor prima di proporre risposte o certezze».
Altri elementi di riflessione?
«Almeno questo: la storia di queste comunità ci ricorda che la democrazia non si decreta dall’esterno, ma s’inventa dall’interno. La democrazia è un’esplorazione del possibile, deve essere sempre inventata autonomamente. E probabilmente, ogni intrusione esterna rischia solo di ritardare quest’invenzione. Ancor oggi, del resto, non ci sono in Europa due democrazie davvero simili l’una all’altra, ma questa molteplicità di forme ci appare come una ricchezza e non come un limite».