Credo in Gesù Cristo, di Nicola Filippi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /11 /2012 - 09:03 am | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo sul nostro sito la relazione tenuta da mons. Nicola Filippi nell’incontro per gli operatori pastorali della XVII Prefettura della diocesi di Roma, presso la parrocchia S. Maria Madre dell’Ospitalità, il 10 novembre 2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. 

Il Centro culturale Gli scritti (18/11/2012)

 

 

Tutti gli uomini si pongono davanti alla persona storica di Gesù di Nazaret con il massimo rispetto: gli Ebrei pur non credendo in lui assicurano di avere per lui una grande stima per la sua pietà, gli atei sono affascinati dal suo insegnamento etico, i liberi pensatori gli riconoscono una esemplare integrità personale[1]. Ma per noi che ci definiamo cristiani, ossia discepoli, chi è Gesù? E cosa vuol dire, oggi, credere in lui? E come parlare di lui all’uomo del nostro tempo, spesso distratto e confuso, o ancora peggio indifferente e convinto che Gesù di Nazaret sia un qualcosa di non più attuale?

Chi è Gesù di Nazaret?

Per dare risposta a questo primo interrogativo, in quanto cristiani, non possiamo prescindere dal cercare nei Vangeli la risposta. Spesso si sente dire che quello presentato dai Vangeli è il Gesù che la Chiesaha annunciato dopo la sua morte e non quello che invece sarebbe realmente vissuto, che quindi sfuggirebbe alla nostra conoscenza. In questo senso i Vangeli sarebbero una rilettura della vita di Gesù e non il racconto della sua vicenda storica. Il Papa Benedetto XVI, invece, con i suoi tre volumi ha voluto “fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio… ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente”[2]. Assumo queste affermazioni del Santo Padre come base di riferimento per l’esposizione che segue.

Da un’analisi attenta dei Vangeli emerge subito con evidenza che Gesù ha uno straordinario rapporto di intimità con Dio, al punto che se si prescinde da ciò non lo si può comprendere[3]. Infatti egli lo chiama Padre con un termine che era usato solo nell’ambito familiare e che gli evangelisti ci hanno tramandato: abbà[4]. La particolarità non risiede tanto nel chiamare Dio Padre – questo era un patrimonio del popolo di Dio come è attestato –, ma nell’intimità che si coglie dietro al termine usato, perché rivolgersi a Dio con tale termine “era considerato troppo familiare, al limite dell’irriverenza”[5]. Dunque, Gesù si presenta come il Figlio, come l’unico che conosce il Padre (cfr Mt 11,25) conoscenza che però presuppone la comunione. Egli vive così la relazione padre-figlio secondo quelle che erano le caratteristiche di tale rapporto nella società patriarcale di quel tempo, e profondamente differenti da quelle della nostra, “obbedienza e fedeltà; imitazione; fiducia. Non è per nulla difficile scoprire che si tratti degli aspetti che caratterizzano la relazione di Gesù con Dio”[6].

Questa coscienza lo porta a definirsi come la porta da attraversare per essere salvati e trovare pascolo, ossia la vita eterna (cfr Gv 10,9), non tanto quella vita senza fine ma la vita stessa di Dio. In altre parole Gesù si presenta come colui che rende possibile all’uomo di dimorare in Dio[7] in quanto egli stesso è Dio essendo nel Padre, come spiega a Filippo: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?” (Gv 14,10).

Questa consapevolezza di avere un rapporto privilegiato con Dio porterà Gesù a modificare la Legge, la Torah, scatenando così una profonda crisi con la classe sacerdotale di Gerusalemme. Infatti, nessuno poteva modificare o correggere quello che Dio aveva trasmesso a Mosè sul Sinai[8], mentre “Gesù ha chiesto quello che la Torah concede soltanto a Dio”[9]. Si capisce così la portata rivoluzionaria delle antitesi del discorso sulla montagna (cfr Mt 5,20-48) dove Gesù solennemente afferma: “Avete inteso che fu detto… ma io vi dico” perché “una cosa è dire dal proprio punto di vista in che modo un fondamentale insegnamento della Torah orienta la vita di ogni giorno… ma tutt’altra è affermare che la Torah dice una cosa, “ma io sostengo” e annunciare poi in proprio nome quello che Dio espose sul monte Sinai”[10].

La certezza di essere il Figlio è così radicata in Gesù che definisce la sua identità più profonda. Negarla significherebbe tradire il suo proprio io più profondo, non essere più lui. Egli vi rimane fedele fino alla fine e pagherà con la morte in croce questa sua fedeltà. Infatti già durante la predicazione a Gerusalemme “i Giudei cercavano di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18)[11]. Nel processo davanti al Sommo Sacerdote sarà proprio la risposta affermativa alla domanda se fosse lui il Cristo, il figlio del Benedetto, a decretarne la morte (cfr Mc 14,62)[12]

La morte in croce non è solo tragica per la modalità con cui avviene, ma per il significato teologico che essa assume: morire appesi al legno della croce significava, infatti, essere stati maledetti da Dio (cfr Dt 21,23). Quando i discepoli, e con loro tutti gli abitanti di Gerusalemme, vedono il loro Maestro morire crocifisso sul Calvario, non possono che pensare che Dio si era ritirato da lui, lo aveva punito con una morte infamante, smentendo in modo inequivocabile e comprensibile a tutti la sua pretesa di essere il Figlio e di parlare in suo nome e con la sua autorità.

Questa lettura viene, però, smentita da quanto i suoi discepoli affermeranno: è risorto! Infatti “La risurrezione sembra capovolgere il verdetto della corte giudaica e del processo romano: Gesù era realmente il Messia di Dio”[13]. La prova di questo fatto non è il sepolcro vuoto, quanto invece la testimonianza di coloro che lo hanno visto. Noi crediamo che Gesù di Nazaret è il crocifisso risorto, ossia un uomo che morto è entrato in una nuova dimensione della vita[14], perché alcuni lo hanno visto e in più perché il sepolcro è vuoto. La nostra fede si basa sulla testimonianza degli apostoli. Egli, dunque, è realmente il Figlio, Dio si è realmente manifestato in lui.

Arrivati a questo punto possiamo dunque dare una risposta al primo dei nostri interrogativi. La testimonianza dei Vangeli è concorde nell’affermare che Gesù di Nazaret è il Figlio unigenito di Dio, il Crocifisso Risorto,  colui che, entrato nella gloria di Dio, vive ormai per sempre potendo essere così nostro contemporaneo “non in un senso sostanzialmente metaforico, per indicare la forza con cui è impresso nel nostro ricordo, o anche il nostro impegno a prendere esempio da lui e a conformare il nostro modo di vivere al suo, bensì in senso proprio e reale”[15].

Cosa vuol dire credere in Gesù Cristo?

Gesù Cristo, il Risorto, vive ormai per sempre e, trovandosi nell’oggi di Dio, viene a visitarci ogni giorno della nostra vita. Questo fatto è assolutamente centrale nella nostra esperienza di fede. Infatti solo una persona vivente, che vive nel nostro tempo, può esserci di aiuto. Se Cristo non fosse risorto, egli sarebbe ormai confinato nel passato, le sue parole dette in tempi remoti e in contesti culturali profondamente differenti dai nostri non servirebbero a nulla; ma se egli invece è vivo la sua parola illumina la vita e la sua presenza, discreta ma reale, accompagna l’uomo. Di chi è morto conserviamo solo un bel ricordo, a volte carico di struggente nostalgia che non aiuta ad affrontare il presente, perché solo chi è vivo è in grado di aiutarci.

Per capire meglio cosa comporta credere in lui è necessario prima comprendere quale sia la novità che egli è venuto a introdurre nella storia dell’umanità. Il Papa Benedetto XVI lo spiega con queste parole: “Egli ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza”[16]. Credere in Gesù significa, come ricorda il Concilio Vaticano II, avere trovato la chiave per comprendere chi sia l’essere umano[17].

L’uomo, infatti, rimane incomprensibile a se stesso se non sperimenta l’amore: in Gesù egli può, però, toccare con mano di essere amato fino alla fine, con un amore che è capace di non arrestarsi davanti al tradimento e al rifiuto perché ha come sue caratteristiche essenziali quelle della fedeltà e della gratuità assoluta. Questo amore raggiunge l’uomo in diverse forme[18], e in modo del tutto particolare nell’Eucaristia. Infatti, l’uomo, ricevendo il corpo di Cristo, viene a lui unito in modo del tutto singolare partecipando alla sua vita divina. Questo amore spinge il Buon pastore a venire incontro ad ognuno nell’ora suprema della morte per accompagnarlo attraverso la valle oscura e condurlo verso la Gerusalemme celeste. Ciò significa che la certezza della vita eterna promessa a coloro che si affidano senza riserve a questo amore offre all’uomo un nuovo orizzonte in cui collocare la propria storia con i suoi eventi anche tragici e dolorosi, che però non sono definitivi. Credere che Gesù Cristo risorto dai morti è il primogenito di una moltitudine di risorti significa credere che la vita umana ha come meta ultima la comunione con Dio e non la dissoluzione nel nulla. La fedeltà dell’amore di Dio non permette che la morte abbia la parola definitiva riguardo la vicenda storica di ogni uomo e per questo esso è in grado di spalancarci l’orizzonte dell’eternità.

Ma l’uomo oltre a essere cuore, e dunque avvertire il bisogno dell’amore, è anche ragione portando in sé il desiderio di conoscere la verità[19], di ricevere una parola che non solo gli consenta di trovare risposta agli interrogativi più profondi ma anche che sia la base su cui edificare la propria esistenza. Credere in Gesù Cristo significa avere trovato queste risposte[20] e la roccia su cui costruire la propria casa senza timore che essa sia abbattuta dalle tempeste della vita. Possiamo essere certi che egli non ci ha nascosto nulla perché “tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). È per questo che Gesù è la pienezza della rivelazione e, dunque, non è da attendersi alcuna altra rivelazione pubblica prima del suo ritorno nella gloria[21].

Tutto questo si attua per mezzo dello Spirito Santo perché “per essere in contatto con Cristo, bisogna dapprima essere stati toccati dallo Spirito Santo”[22]. È infatti lo Spirito che introduce nella Verità, che è Cristo stesso, ossia colui che ci permette di avere un’intelligenza sempre maggiore e sempre più profonda della parola di Gesù. Ed è sempre lo Spirito che ci rende presente il mistero di Cristo, soprattutto nell’Eucaristia[23], ottenendoci così di fare esperienza di quell’amore – è anche lo Spirito dell’Amore –  fino alla fine che non ci abbandona neanche nella morte. Dunque è grazie all’azione dello Spirito che l’uomo può avere una reale e oggettiva esperienza di Dio, o ancora meglio che quella vita divina che Cristo è venuto a donarci ci raggiunge nel nostro quotidiano e possiamo chiamarci ed essere realmente figli di Dio e chiamarlo Padre[24].

Possiamo, così giungere anche a una seconda conclusione. Credere in Gesù Cristo significa che l’uomo può adesso rispondere alla domanda “chi sono?”, sapendo che accogliere Gesù Cristo e il suo Vangelo rende la vita più bella, degna di essere vissuta, pienamente umana perché “chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo”[25]. Dunque, la fede in Gesù Cristo non impoverisce la vita umana, non la mortifica – nel senso che la fa morire –  ma al contrario la arricchisce, la perfeziona e la vivifica: “Egli non toglie nulla, e dona tutto”[26].

Come annunciare Gesù?

Una delle grandi tentazioni che si presenta davanti a noi è quella di annunciare Gesù parlando di lui in maniera orizzontale, riducendo la fede in lui a una morale o a un codice di comportamento o raccontando semplicemente gli eventi della sua vita, senza spiegarne il significato e il valore per la vita. Annunciare Gesù significherebbe, dunque, annunciare un modo di vivere, degli atteggiamenti da assumere e dei gesti da compiere, in pratica una filosofia di vita. Questa riduzione cristologica ha delle pesanti conseguenze  perché “quando mi chiedo da cosa dipenda lo svuotarsi delle nostre chiese, il dissolversi silenzioso della fede, vorrei rispondere che il motivo centrale è lo svuotamento della figura di Gesù insieme con la formulazione deistica del concetto di Dio. Il surrogato di Gesù, più o meno romantico, che viene offerto, non basta”[27].

Se guardiamo all’esperienza primitiva della Chiesa scopriamo invece un’altra modalità. In particolare Pietro non ha avuto paura di annunciare che Gesù di Nazaret è stato crocifisso ed è morto, ma che Dio lo ha risuscitato e lo ha costituito Signore e Cristo (cfr At 2,22-36). E anche Paolo ripeterà che Cristo morì per i nostri peccati, fu sepolto, è risorto ed è apparso ai Dodici (cfr 1Cor 15,3-4). Dunque annunciare subito il cuore della fede cristiana – quello che viene definito il kerygma – , perché “solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo[28]. Infatti è la certezza della risurrezione di Cristo che motiva e sostiene l’agire in particolare quello di un amore senza limiti verso tutti, compresi i nemici, come è stato quello di Gesù. Solo l’incontro si tramuta poi in sequela, perché è difficile, specie nell’adolescenza, che la sequela, ossia la prassi, consenta poi di giungere a una professione di fede matura, ossia all’incontro.

Rimane, poi, vero anche oggi quello che Paolo VI scriveva  in Evangelii nuntiandi: “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri … o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”[29]. Dunque le nostre vite devono manifestare la forza della risurrezione, dobbiamo, cioè, vivere da risorti pienamente immersi in Dio –  “la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3) mistero di Amore e di Verità –, agendo sempre con carità nella verità, pronti anche a soffrire, finanche a morire[30].

Nell’epoca del compromesso, delle mezze verità, rimanere fedeli alla Parola a cui si è aderito senza cedere alle mezze misure, significa vivere sostenuti dallo Spirito di Verità.

Non è un caso che la fede cristiana si sia diffusa grazie alla testimonianza dei martiri che per rimanere fedeli a quel Gesù che sapevano essere vivo all’amore che avevano scoperto, e che testimoniavano, e alla verità che dava senso alla loro esistenza non hanno esitato a versare il sangue. Vivere amando con il cuore di Dio, amando con il soffio dello Spirito dell’amore, e parlando con la parola di Dio.

Forse a noi oggi è chiesto innanzitutto di amare e di essere accoglienti senza guardare a chi abbiamo davanti, di far comprendere a chi abbiamo davanti, in particolare ai giovani, che egli è prezioso ai nostri occhi, che anche in lui rifulge un nucleo di bellezza, che forse altri uomini non vedono[31], e che siamo capaci di amarlo sempre anche quando ci delude e tradisce le nostre attese. L’amore oltre il tradimento e l’abbandono, come quello vissuto da Gesù durante la sua passione, è il modo più convincente per far vedere che egli è realmente risorto. Infatti chi è il Risorto se non l’Amore che vince sulla morte? Il famoso teologo von Balthasar ha intitolato un suo celebre libro “Solo l’amore è credibile”. È questa forse la sintesi di quanto è stato fino ad ora detto: Gesù di Nazaret, ci amato fino alla fine, non risparmiandosi ed è per questo che ai nostri occhi egli è credibile. Se noi sapremo come lui amare senza limiti di tempo e di spazio[32] ne saremo suoi testimoni credibili.



[1] Cfr T. Söding, Gesù e la Chiesa, 7.

[2] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, 18.

[3] “Non si può comprendere in assoluto Gesù senza tenere conto della sua profonda e peculiare esperienza di Dio” [R. Aguirre-C. Bernabé-C. Gil, Gesù di Nazaret?, 139].

[4] “Il fatto che Gesù pregasse così trattando con Dio mediante un vocativo del genere, esprimendo così uno nuova forma originale e personalissima di intimità con Dio, è stato l’incentivo che ha spinto la primitiva cristianità a conservarci intatta questa parola, trasmettendocela nel suo tenore originario” [J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, 176]

[5] J.D.G. Dunn, La memoria di Gesù II, 752.

[6] R. Aguirre-C. Bernabé-C. Gil, Gesù di Nazaret?, 143.

[7] K. Berger definisce Gesù come il luogo di Dio, ossia dove Dio abita [K. Berger, La fine dell’invisibilità di Dio. Gesù come fotografia di Dio, in Comitato progetto culturale (ed.), Gesù nostro contemporaneo, 34]. San Paolo a Timoteo condenserà tutto dicendo che “uno solo (è) il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1Tim 2,5) [cfr Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, 7].

[8] “Noi ebrei affermiamo … che la Torah era ed è perfetta e non suscettibile di miglioramenti e che l’ebraismo – basato sulla Torah, sui Profeti e sugli Scritti, sulla legge orale contenuta nella Mishnah, nel Talmud, nel Midrash – era ed è ciò che Dio desidera per l’umanità” [J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù, 10-11].

[9] J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù, 63.

[10] J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù, 61-62. Sempre Neusner dice che Gesù non ha tralasciato nulla della Legge ma ha aggiunto una cosa: se stesso [cfr J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù, 133].

[11] Il famoso esegeta tedesco R. Schnackenburg commenta: “Fare se stesso uguale a Dio significa, secondo l’idea giudaica, arrogarsi potenza e autorità divina, e la detestabilità di tale comportamento sta nell’arbitrarietà dell’autoesaltazione, nella ribellione della creatura al Creatore e Signore del mondo” [R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni II, 179].

[12] Il testo di Marco per il linguaggio usato sembra essere originario. Benedetto XVI  spiega che la risposta di Gesù “ai membri del sinedrio … dovette apparire politicamente privo di senso e teologicamente inaccettabile, poiché con ciò era ora di fatto espressa una vicinanza alla ‘Potenza’, una partecipazione alla natura stessa di Dio, che veniva intesa come bestemmia” [J. Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 204]. K. Adam spiega ancora meglio: “Se Gesù si fosse proclamato il Cristo nel senso del nazionalismo giudaico non sarebbe stato crocifisso, anche nell’ipotesi che la sua pretesa fosse stata combattuta e respinta. Infatti, secondo il diritto giudaico allora vigente, tale pretesa anche se sembrava ingiustificata, non raggiunge gli estremi di un reato punibile con la pena di morte. Tale condanna seguì solo perché Gesù … alla domanda anche solenne del Sommo Sacerdote … non solo affermativamente, ma aggiunse con audacia rivelando lo splendore e la verità del suo essere ultimo … Così, alla domanda del sommo sacerdote che, nel contesto delle idee giudaiche, poteva sempre avere diversi significati. Egli dava un senso unico e una riposta senza ambiguità” [K. Adam, Gesù il Cristo, 147].

[13] N.T. Wright, “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”, in Comitato progetto culturale (ed.), Gesù nostro contemporaneo, 377. Wrigtht usa il condizionale solo perché è intento a mostrare la veridicità della risurrezione.

[14] “La risurrezione di Gesù è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire… Gesù non è tornato in una nuova vita umana di questo mondo, come era successo a Lazzaro” [J. Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 272].

[15] C. Ruini, Conclusioni, in Comitato progetto culturale (ed.), Gesù nostro contemporaneo, 392.

[16] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, 67.

[17] “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” [Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 22].

[18] Nella sua prima enciclica Benedetto XVI ci ricorda che “nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l’amore di Dio, percepiamo la sua presenza” [Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 17].

[19] Per Papa Benedetto XVI “amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo” [Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, 1].

[20] “L’uomo, infatti, avrà sempre desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, del suo lavoro e della sua morte… soltanto Dio, che ha creato l’uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, offre a tali problemi una risposta pienamente adeguata, e ciò per mezzo della rivelazione compiuta nel Figlio suo, fatto uomo.” [Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 41].

[21] Cfr Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, 4 e 7.

[22] Catechismo della Chiesa Cattolica, 683

[23] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 737

[24] “Avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo Abbà, Padre” (Rom 8,15), con tutta la ricchezza del significato della parola Abbà. Similmente nella lettera ai Galati: “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida Abbà Padre” (Gal 4,6).

[25] Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 41.

[26] Benedetto XVI, Om. S. Messa inizio ministero petrino, 24.05.2005.

[27] J. Ratzinger, Vangelo catechesi catechismo, 72-73.

[28] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 270.

[29] Paolo VI, Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, 41.

[30] Nella meditazione di apertura del Sinodo dei Vescovi Papa Benedetto XVI ha magistralmente spiegato il significato del termine latino confessio [cfr Benedetto XVI, Meditazione, 8.10.2012].

[31] Lo scrittore Alessandro D’Avenia dice: “Secondo me, Gesù potrà farsi nostro contemporaneo, se i ragazzi troveranno negli adulti questa capacità di guardare il nucleo di bellezza che ciascuno di loro ha, difendendolo come la cosa più preziosa” [A. D’Avenia, Essere figli per essere liberi, in Comitato progetto culturale (ed.), Gesù nostro contemporaneo, 337].

[32] Il sociologo Z. Bauman afferma “non è amore se non assume come suoi soli limiti accettabili l’infinità del tempo e l’immensità dello spazio” [Z. Bauman, La società individualizzata, 210].