Comunicazione e cultura: nuovi percorsi per l’evangelizzazione nel terzo millennio, dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. «Coltivatori di sicomori: il vangelo è un taglio – una purificazione, che diviene maturazione e risanamento. È un taglio che esige paziente approfondimento e comprensione, cosicché sia fatto nel momento giusto, nella fattispecie giusta e nel modo giusto»
Riprendiamo dalla rivista Nuova umanità XXV (2003/1) 145, pp. 45-53, il testo di una relazione tenuta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger il 9 novembre 2002 al Convegno CEI “Parabole mediatiche”. Per approfondimenti, vedi su questo stesso sito anche Inculturazione o inter-culturalità? Cristo, la fede e le culture, dell'allora cardinal Joseph Ratzinger. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (11/11/2012)
Il tema che mi è stato proposto, comprende tre concetti principali: comunicazione - cultura - evangelizzazione. Innanzitutto occorre dire che i due concetti di comunicazione e di evangelizzazione sono chiaramente collegati: evangelizzazione è comunicazione di una parola, che è qualcosa di più che una parola – è un modo di vivere, anzi la vita stessa. Così l’impostazione del problema è innanzitutto: come il vangelo può superare la soglia fra me e l’altro? Come si può giungere a una comunione nel vangelo, così che esso non solo mi unisca all’altro, ma unisca entrambi con la parola di Dio e così ne nasca un’unità che vada veramente in profondità?
Fra le due parole comunicazione ed evangelizzazione nel nostro tema si trova la parola cultura. Evidentemente si intende così designare il mezzo di comunicazione, l’ambiente, nel quale si può verificare la comunicazione. Di fatto il vangelo non viene portato a uomini, il cui spirito sarebbe una tabula rasa, come secondo Aristotele e Tomaso d’Aquino è lo spirito umano nel primo momento del risvegliarsi alla vita.
No, la tavola dello spirito, alla quale giunge la nostra predicazione, è riempita di molteplici scritte e viene continuamente in contatto con innumerevoli comunicazioni, così che sembra quasi impossibile collocarvi ancora qualche altra cosa. Nell’odierna sovrabbondanza di informazioni vi è ancora posto sulla tavola delle nostre anime, ovvero il vangelo, come sembra accadere spesso, può essere scritto ormai solo sul suo margine più esterno?
O forse il vangelo non è un’informazione fra le altre, una riga sulla tavola accanto ad altre, ma la chiave, un messaggio di natura totalmente diversa dalle molte informazioni che ci sommergono giorno dopo giorno? Dalla questione della caratteristica di questo messaggio dipende anzi anche la questione della forma giusta della sua comunicazione.
Se il vangelo appare solo come una notizia fra molte, può forse essere scartato in favore di altri messaggi più importanti. Ma come fa la comunicazione, che noi chiamiamo vangelo, a far capire che essa è appunto una forma totalmente altra di informazione – nel nostro uso linguistico, piuttosto una “performazione”, un processo vitale, per mezzo del quale soltanto lo strumento dell’esistenza può trovare il suo giusto tono?
Non è facile dare una risposta. Avevo affermato che la tavola dello spirito non è priva di scritte. Dobbiamo aggiungere: la persona umana non è mai sola, essa viene plasmata da una comunità, che le offre le forme del pensare, del sentire, dell’agire. Questo insieme di forme di pensare e di rappresentare, che plasma in antecedenza l’essere umano, lo chiamiamo cultura.
Della cultura fanno parte innanzitutto la lingua comune, poi la costituzione della comunità, quindi lo stato con le sue articolazioni, il diritto, le consuetudini, le concezioni morali, l’arte, le forme del culto, ecc. La parola del vangelo si inserisce in questo insieme vitale della “cultura”. Si deve rendere comprensibile in essa, e deve divenire efficace in essa, plasmare tutta questa forma di vita, essere in essa per così dire lievito, che penetra tutta la massa.
Il vangelo in una certa misura presuppone la cultura, non la sostituisce, ma la plasma. Nel mondo greco al nostro concetto di cultura corrisponde, quale termine più adeguato, la parola paideia, educazione nel senso più alto, in quanto conduce l’uomo alla vera umanità; i latini hanno espresso la stessa cosa con la parola eruditio: l’uomo viene dirozzato, viene formato quale vero essere umano. In questo senso il vangelo è per sua natura paideia-cultura, ma in questa educazione dell’uomo si unisce a tutte le forze che si propongono di configurare l’essere umano come essere comunitario.
Il tema a me proposto tuttavia aggiunge alla questione generale della comunicazione del vangelo tramite lo strumento della cultura ancora una determinazione temporale: il terzo millennio.
Non si tratta quindi in astratto del rapporto fra vangelo e cultura, ma di come si possa rendere comunicabile il vangelo nell’ambito della cultura di oggi. Così occorre almeno in modo molto breve domandarci: cosa è dunque la nostra cultura che scrive oggi sulla tavola delle nostre anime? La precisazione temporale è inoltre accompagnata a motivo della cornice del nostro convegno anche da una determinazione locale: si tratta della Chiesa in Italia. Ora, l’Italia con le sue caratteristiche del tutto specifiche fa parte del mondo occidentale e della sua cultura. Questa cultura da una parte è stata edificata dal cristianesimo, e in Italia questa conformazione attraverso la fede cattolica è senza dubbio ancora sostanzialmente più fortemente operante che in molti altri paesi occidentali.
In questo senso il vangelo parla qui non semplicemente in una cornice totalmente estranea. Questi elementi perduranti di una cultura cristiana non possiamo sottovalutarli e non vogliamo nello zelo del rinnovamento metterli da parte quale ciarpame invecchiato, come è accaduto qui e là nel primo entusiasmo del tempo postconciliare, in cui tutta la cultura cristiana esistente con una singolare frattura temporale fu improvvisamente bollata come preconciliare e così etichettata come superata.
No, dovremmo essere lieti di queste forme cristiane che danno configurazione alla nostra vita comunitaria, spolverarle e purificarle – laddove è necessario –, ma comunque rafforzarle e incoraggiarle. Tuttavia già sempre, anche nel medioevo, questa cultura cristiana era insidiata da elementi non cristiani e anticristiani. A partire dall’illuminismo la cultura dell’occidente si allontana con velocità crescente dai suoi fondamenti cristiani. La dissoluzione della famiglia e del matrimonio, i crescenti attacchi alla vita umana e alla sua dignità, la riduzione della fede a realtà soggettiva e la conseguente secolarizzazione della coscienza pubblica così come la frammentazione e la relativizzazione dell’ethos ci mostrano questo in modo oltremodo chiaro.
In questo senso la cultura di oggi in Italia e in forme diverse in tutto il mondo occidentale è anche una cultura lacerata da contraddizioni interne. Esistono modalità di cultura cristiana che si affermano o che nuovamente emergono, esistono in contrasto a queste con crescente forza di diffusione forme che si contrappongono alla paideia cristiana. L’evangelizzazione, che parla a questa cultura, non ha dunque a che fare con un destinatario unitario. Deve esercitare l’arte del discernimento in una realtà contraddittoria e deve trovare anche nelle zone secolarizzate di questa cultura vie che si lascino aprire alla fede.
Prima che cerchi di concretizzare ancora ulteriormente queste riflessioni in un paio di tesi, vorrei proporre per questo itinerario di incontro e di confronto culturale un’immagine che ho trovato in Basilio il Grande (m. 379), il quale nel confronto con la cultura greca del suo tempo si vide posto davanti a un compito assai simile a quello che è posto a noi. Basilio si riallaccia all’autopresentazione del profeta Amos, il quale diceva di sé: «Pastore sono e coltivatore di sicomori» (7,14).
La traduzione greca del libro del profeta, la LXX, rende in modo più chiaro nel seguente modo l’ultima espressione: «Io ero uno che taglia i sicomori». La traduzione si fonda sul fatto che i frutti del sicomoro devono essere incisi prima del raccolto, poi maturano entro pochi giorni. Basilio presuppone nel suo commentario a Is 9,10 questa prassi, infatti egli scrive:
«Il sicomoro è un albero che produce moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché divengano gradevoli al gusto. Per questo motivo, noi riteniamo, (il sicomoro) è un simbolo per l’insieme dei popoli pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile»[1].
Christian Gnilka commenta così questo passo: «In questo simbolo si trovano l’ampiezza, la ricchezza, la fastosità del paganesimo... ma anche si trova qui il suo limite: così come è, è insipido, inutilizzabile. Necessita di un cambiamento totale, ma questo cambiamento non distrugge la sostanza, ma le dà la qualità che le manca... I frutti restano frutti; la loro abbondanza non viene diminuita, ma riconosciuta come pregio... D’altra parte la trasformazione necessaria non potrebbe essere sottolineata in modo più forte dal punto di vista dell’immagine se non proprio dicendo che si rende commestibile, ciò che prima non era fruibile. Nella “fuoriuscita” del succo inoltre sembra alludersi al processo di purificazione»[2].
Ancora una cosa si deve notare: la trasformazione necessaria non può derivare da una proprietà dell’albero e del suo frutto – è necessario un intervento del coltivatore, un intervento dall’esterno. Applicando questo al paganesimo, a ciò che è proprio della cultura umana, ciò significa: il Logos stesso deve incidere le nostre culture e i suoi frutti, cosicché ciò che non era fruibile venga purificato e non divenga soltanto fruibile, ma buono.
Osservando attentamente il testo e le sue affermazioni, possiamo aggiungere un’ulteriore considerazione: sì, ultimamente è solo il Logos stesso che può condurre le nostre culture alla loro autentica purezza e maturità, ma il Logos ha bisogno dei suoi servitori, dei «coltivatori di sicomori»: l’intervento necessario presuppone competenza, conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione, esperienza e pazienza.
Poiché Basilio parla qui dell’insieme dei pagani e delle loro abitudini, è evidente che in questa immagine non si tratta semplicemente della guida individuale delle anime, ma della purificazione e della maturazione delle culture, tanto più che la parola «abitudini» (mores) è una delle parole che corrispondono presso i padri più o meno al nostro concetto di cultura. Così in questo testo è rappresentato esattamente ciò su cui ci stiamo interrogando: il percorso dell’evangelizzazione nell’ambito della cultura, il rapporto del vangelo con la cultura.
Il vangelo non sta accanto alla cultura. Non è rivolto semplicemente all’individuo, ma alla cultura, che plasma la crescita e il divenire spirituale del singolo, la sua fecondità o infecondità per Dio e per il mondo. L’evangelizzazione non è neppure un semplice adattarsi alla cultura, ovvero un rivestirsi con elementi della cultura nel senso di un concetto superficiale di inculturazione, che ritiene siano sufficienti un paio di innovazioni nella liturgia e espressioni linguistiche cambiate.
No, il vangelo è un taglio – una purificazione, che diviene maturazione e risanamento. È un taglio che esige paziente approfondimento e comprensione, cosicché sia fatto nel momento giusto, nella fattispecie giusta e nel modo giusto, che esige quindi sensibilità, comprensione della cultura dal suo interno, dei suoi rischi e delle sue possibilità nascoste o anche palesi.
Così è evidente che questo taglio «non è affare di un momento, al quale dovrebbe poi semplicemente seguire una ovvia maturazione»[3], ma è necessario un continuo paziente incontro fra il Logos e la cultura, mediato dal servizio dei credenti.
A me sembra che in tal modo veramente sia stato detto l’essenziale di ciò che esige l’incontro oggi necessario fra fede e cultura. Così è anche corretta la concezione unilaterale, che oggi spesso associamo con il concetto di inculturazione. Forse è però pur sempre utile illustrare ancora brevemente in tre tesi ciò che si è voluto dire.
1. La fede cristiana è aperta a tutto ciò che di grande, vero e puro vi è nella cultura del mondo, come Paolo ha ben espresso nella lettera ai Filippesi: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (4,8). Paolo si riferisce qui certamente innanzitutto agli elementi essenziali della concezione morale stoica, che egli riteneva si avvicinasse al cristianesimo, ma in generale a tutto quello che di grande vi era nella cultura grecoromana.
Ciò che egli ha detto in quell’ambiente, vale universalmente. Chi oggi evangelizza, innanzitutto ricercherà nella nostra cultura ciò che in essa si apre al vangelo e si preoccuperà per così dire di sviluppare ulteriormente questi «semi del Verbo». Prenderà in considerazione naturalmente anche i contesti sociologici e psicologici che oggi si oppongono alla fede o viceversa possono divenire punti di incontro. Il cristianesimo in passato aveva avuto inizio in una cultura cittadina ed era riuscito solo lentamente a interessare la campagna: gli abitanti della campagna rimanevano “pagani”. Si è poi associato alla cultura agraria e oggi deve ritrovare nelle culture cittadine gli spazi in cui poter porre la sua dimora.
I “movimenti”, le nuove forme di itinerari alla fede nei pellegrinaggi, ecc., gli incontri nei santuari, le giornate della gioventù indicano dei modelli; su ciò dovranno riflettere le Conferenze episcopali con i loro esperti.
2. La fede conosce e ricerca i punti di contatto, recupera ciò che vi è di buono, ma è anche opposizione a ciò che nelle culture sbarra le porte al vangelo. È un “taglio”, come abbiamo sentito. È quindi stata anche sempre critica delle culture e deve essere proprio anche oggi impavida e coraggiosa.
Gli irenismi non aiutano nessuno. Hugo Rahner ha mostrato questo efficacemente nel suo lavoro sulla pompa diaboli: del rito battesimale fa parte infatti la rinuncia alla «pompa del demonio». Che cosa è? da che cosa qui il cristiano si separava? Di fatto la parola si riferiva innanzitutto al teatro pagano, ai giochi del circo, nei quali lo scannamento di uomini era divenuto uno spettacolo ricercato, crudeltà, violenza, disprezzo dell’uomo era il culmine dell’intrattenimento.
Ma con questa rinuncia al teatro si intendeva naturalmente tutto un tipo di cultura o detto meglio: la degenerazione di una cultura, dalla quale innanzitutto doveva separarsi colui che voleva diventare cristiano e che si impegnava a vedere nell’uomo un’immagine di Dio e a vivere come tale[4]. Così questa rinuncia battesimale è espressione sintetica del carattere critico nei confronti della cultura che è tipico del cristianesimo e un contrassegno per il “taglio” che qui si rende necessario. Chi non potrebbe vedere le analogie con il presente e le sue degenerazioni culturali?
3. Nessuno vive solo. Il richiamo al rapporto fra vangelo e cultura vuole mettere in luce questo. Divenire cristiano necessita un rapporto vitale, nel quale si possano realizzare risanamento e trasformazione della cultura. L’evangelizzazione non è mai soltanto una comunicazione intellettuale, essa è un processo vitale, una purificazione e una trasformazione della nostra esistenza, e per questo è necessario un cammino comune.
Perciò la catechesi deve necessariamente assumere la forma del catecumenato, nel quale si possano compiere i necessari risanamenti, nel quale soprattutto viene stabilito il rapporto fra pensiero e vita. Eloquente è al riguardo il racconto che Cipriano di Cartagine (m. 258) ha dato della sua conversione alla fede cristiana. Egli ci racconta che prima della sua conversione e battesimo non poteva affatto immaginarsi come si potesse mai vivere da cristiano e superare le abitudini del suo tempo[5].
Egli fornisce in proposito una cruda descrizione di quelle abitudini, che ricorda proprio le Satire di Giovenale, ma anche fa pensare al contesto vitale, nel quale oggi devono vivere i giovani: si può qui essere cristiani? non è questa una forma di vita superata? Quanti si chiedono questo, a ragione in realtà parlando da un punto di vista puramente umano.
Ma l’impossibile, così narra Cipriano, fu reso possibile per la grazia di Dio e il sacramento della rinascita, che naturalmente è considerato nel luogo concreto, nel quale esso può divenire efficace: nel cammino comune dei credenti, che aprono una via alternativa da vivere e la mostrano come possibile. Qui siamo ora di nuovo al tema della cultura, al tema del “taglio”.
Infatti Cipriano parla proprio della violenza delle “abitudini”, cioè di una cultura che fa apparire la fede come impossibile. Più di cento anni dopo Gregorio di Nazianzo (m. 390) esalta la conversione di Cipriano con le seguenti parole: «Per le sue conoscenze... rendono testimonianza anche le opere, di cui egli compose molte e notevoli per il nostro argomento, dopo che, grazie alla bontà di Dio, “che tutto crea” e “volge al meglio” (Amos 5,8, LXX), egli aveva messo in salvo la sua formazione precedente portandola da questa parte e aveva sottomesso l’irragionevolezza alla ragione»[6].
Proprio perché egli sul cammino della conversione, mediante il taglio del Logos, ha trasformato la cultura del suo mondo, egli ha «messo in salvo» ciò che di essenziale e di vero essa conteneva. Mediante l’incisione nel sicomoro della cultura antica i Padri l’hanno nel complesso «messa in salvo» per noi e trasformata da strumento marcio in un frutto grandioso.
Questo è il compito che oggi è a noi proposto nei confronti della cultura secolarizzata del nostro tempo – questo è evangelizzazione della cultura.
Note al testo
[1] Basilio, in Is 9,228 (commento a Is 9,10), PG 30,516 D/517A. L’autenticità di questo commento dei primi 16 capitoli del profeta è discussa. Cito secondo C. Gnilka, Chrisis. II. Kultur und Conversion, Basel 1993, p. 84, e seguo anche nell’interpretazione del testo il libro di Gnilka, fondamentale per la questione di vangelo e cultura.
[2] Ibid., p. 85.
[3] Ibid., p. 86.
[4] Cf. H. Rahner, Pompa diaboli, in ZkTh, 55 (1931), pp. 53-108; cf. J. Holdt, Hugo Rahner. Sein geschichts-und symboltheologisches Denken, Paderborn 1997, p. 67.
[5] Cf. Cipriano, Ad Donatum 3 (CSEL 3,1,5); seguo anche qui C. Gnilka, op. cit., pp. 93s.
[6] Greg. Naz. 24,7 (Sources chrét. 284, 50/52); cf. C. Gnilka, op. cit., p. 94.