1/ Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso. Quell'altrove culturale dove vivono gli studenti, di Marco Lodoli 2/ Vogliamo un prof che abbia negli occhi ciò che insegna, di Giulia Guidi (liceo classico)
Riprendiamo da Repubblica del 31/10/2012 un articolo scritto da Marco Lodoli e la risposta di una studentessa di liceo classico, Giulia Guidi, pubblicata sul sito del Sussidiario il 4/11/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/11/2012)
1/ Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso. Quell'altrove culturale dove vivono gli studenti, di Marco Lodoli
"Io non esisto più, sono diventata invisibile", mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. "Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l'anno. La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell'aria, e dopo un poco mi sembra che anch'io mi dissolvo, resta solo un senso di impotenza, di fallimento". Quante volte negli ultimi anni ho raccolto dai miei colleghi sfoghi di questo genere: professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione e che finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo, e a poco a poco si scaricano, si spengono malinconicamente. Perché accade questo, perché sembrano saltati i ponti e le rive si allontanano sempre di più? A riguardo mi sono fatto un'idea.
Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta, ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all'atto, alla maieutica e all'iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all'idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti.
È chiaro che da qualche parte, in un eccellente liceo classico, esiste e resiste un ragazzo che legge Platone, scrive sonetti, suona il violino e studia la pittura di Raffaello, la vita per fortuna si diversifica per avanzare. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così, c'è poco da fare, l'oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente.
Anche Huckleberry Finn rifiuta la storia di Mosè e della manna nel deserto quando scopre che Mosè è morto da secoli, della gente morta un ragazzo non sa che farsene, dice Huck e forse ha ragione. Ma per la mia generazione, e quella di mio padre, e quella di mio nonno - e più indietro non vado - il passato non era un tempo che svaniva insieme ai foglietti del calendario. Certi morti non erano mai morti. Fossero gli eroi greci o quelli del Risorgimento o Che Guevara, fosse Mozart o John Coltrane o Luigi Tenco, i grandi continuavano a vivere nell'immaginazione e nella riconoscenza dei ragazzi. Una catena d'acciaio o una ghirlanda di fiori univa il meglio al meglio, la bellezza alla speranza, la forza alla fiducia. Leggevo Dostoevskij e Tolstoj come se fossero dei fratelli maggiori, non li collocavo nel regno cupo dei morti, le loro parole erano vive, non sussurrate da un tempo lontanissimo fino a perdersi nell'incomprensibilità.
E i quadri di Bellini e quelli di Morandi entravano a far parte dello stesso museo interiore, ogni giorno una nuova opera si sistemava su una parete vuota: e le pareti erano infinite, come le meraviglie del passato. Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L'arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food.
Naturalmente anche la politica esce con le ossa rotte dalla fabbrica delle nuove produzioni mentali e sentimentali: anche la politica è fumo nel vento. Questa è la stagione del desiderio, dell'onnipotenza tecnologica, dei corpi che vanno più veloci del pensiero, è la stagione del disprezzo verso ogni forma di misura, di armonia, di compostezza classica, di ragionamento lento e articolato. Sillogismi, rime, consonanze, prospettive, equilibri, riflessioni sulla miseria e la grandezza dell'uomo: via, giù tra le macchine da cucire e il cinema muto, tra i libri dei poeti e i fiori secchi. La cesura è netta, un taglio secco, del passato non si recupera quasi nulla, la cultura umanista finirà tutta quanta in una bella mostra a Roma o a Firenze, e ci sarà la fila per ammirare il cadavere mummificato: ma i ragazzi stanno tutti altrove, davanti a qualche schermo acceso, su qualche aereo che vola sul mondo, in un futuro che allegramente, superbamente, se ne frega di ciò che è stato e che non sarà mai più.
Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.
2/ Vogliamo un prof che abbia negli occhi ciò che insegna, di Giulia Guidi (liceo classico)
Il 31 ottobre è uscito su Repubblica un articolo di Marco Lodoli, docente, giornalista e scrittore, dal titolo "La fine dell'umanesimo. Quell'altrove culturale dove vivono gli studenti". Nell'articolo, tra l'altro, si legge: "(...) Quante volte negli ultimi anni ho raccolto dai miei colleghi sfoghi di questo genere: professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione e che finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo, e a poco a poco si scaricano, si spengono malinconicamente. Perché accade questo, perché sembrano saltati i ponti e le rive si allontanano sempre di più? A riguardo mi sono fatto un'idea. Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta, ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori".
La risposta di Giulia Guidi, 5° anno liceo classico.
"L'occhio guarda, per questo è fondamentale. È l'unico che può accorgersi della bellezza; (...) la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. Dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli non c'è dubbio (...) Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l'ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempendo i nostri occhi di infinito desiderio".
Pier Paolo Pasolini descrive così il rapporto tra uomo e bellezza introducendo inevitabilmente il tema della libertà; eppure sul deserto delle nostre strade Lei passa, ci dice Pasolini, e di questo dobbiamo esserne certi. Credo che una scuola, qualsiasi essa sia, debba proporsi, mostrarsi ai suoi studenti, cioè a noi, con questa pretesa. Per niente di meno non varrebbe la pena studiare. Che il mondo stia cambiando, è vero, ma dire che gli uomini sono diversi, questa è una menzogna.
Oggigiorno in una classe di liceo almeno la metà degli studenti non si stimano, non si riconoscono più e mettono così in atto svariate armi difensive, dal rifiuto della realtà all'accanimento verso di essa; gli uomini non si riconoscono più con il passato anzitutto perché non si riconoscono più con loro stessi.
Se intercorre una frattura, un disinteresse tra contemporaneità e tradizione è perché l'uomo moderno non è più abituato a tenere alta la fiamma del desiderio, nell'attesa di trovare un qualsiasi compagno di strada, un amico, un poeta, che non lo faccia più sentire solo nel suo cammino. L'uomo moderno si nutre del finito e così lo studente si nutre di piccoli obbiettivi, di piccoli voti, di piccole soddisfazioni.
Talvolta la bellezza è ancora più insostenibile del male, è insopportabile nella sua inafferrabilità, è rischiosa. Se la bellezza porta con sé una fatica, un rischio, perché dovremmo essere disposti ad abbandonarci ad essa? Come può, un giovane, riappacificarsi con la bellezza dopo esserne rimasto deluso? Come può se non trova maestri all'altezza del suo desiderio?
Io mi chiederei innanzitutto con quale prospettiva un professore decida di entrare in aula. A noi non interessa quanto l'insegnante abbia preparato bene la lezione, quanto l'insegnante sia colto ed erudito. A noi studenti interessa incontrare persone certe che valga la pena vivere, persone disposte ad amare la nostra fatica, il nostro rifiuto, persone disposte a educarlo, a correggerlo. Nessuno oserebbe direi che studiare è sconveniente, ma qualcuno ha mai avuto il coraggio di darcene le ragioni? E soprattutto di mostrarcele?
Jean-Louis Chrétien ha detto che soltanto ciò che ci lascia senza parole è meritevole di essere espresso. Esistono ancora professori convinti della dignità di ciò che insegnano? Chi è quel professore che ha negli occhi e nella voce i suoi filosofi, la sua materia? Trovare uomini così significherebbe trovare in chi riporre fiducia, significherebbe poter essere disposti a usare autenticamente la propria libertà, essere disposti alla fatica.
La bellezza è faticosa, la bellezza del passato è faticosa, l'intensità delle questioni può essere pesante se nessuno ci assicura che vale la pena affrontarle. L'uomo per sua natura è attirato dalla conoscenza. Ma se è vero, come ha affermato Dante nella Divina Commedia, che studiare significa amare, allora il far fatica a studiare porta dentro di sé una fatica nell'amare. La scuola, attraverso la tradizione, attraverso la letteratura dovrebbe essere il luogo dell’amore, quel luogo dove noi possiamo allenarci ad amare.