1/ Sopra il tempo inseguendo il Vero. Johannes Vermeer e il secolo d’oro olandese alle Scuderie del Quirinale, di Antonio Paolucci 2/ Un genio che rivendicava il diritto alla pazienza, di Sandro Barbagallo
Riprendiamo due articoli da L’Osservatore Romano del 21/10/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su Johannes Vermeer, vedi su questo stesso sito Vermeer cattolicissimo, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (4/11/2012)
1/ Sopra il tempo inseguendo il Vero. Johannes Vermeer e il secolo d’oro olandese alle Scuderie del Quirinale, di Antonio Paolucci
È in corso a Roma, fino al 20 gennaio alle Scuderie del Quirinale, la mostra «Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese» a cura di Sandrina Bandera, Walter Liedtke e Arthur K. Wheelock. Dal catalogo (Milano, Skira, 2012, pagine 248, euro 38) pubblichiamo la presentazione del direttore dei musei Vaticani che è anche presidente della Commissione scientifica delle Scuderie del Quirinale.
Vermeer, un pittore di appena trentacinque opere, pochissime di queste datate; un pittore la cui formazione resta per molti aspetti misteriosa e tuttavia un artista che ha affascinato come pochi altri la letteratura e l’arte moderne: Marcel Proust, Giorgio Morandi, Ingmar Bergman, per dire solo di alcuni. Come ci ricorda Sandrina Bandera a conclusione del suo denso saggio nel catalogo che le mie righe introducono.
Qual è dunque il segreto del pittore di Delft? Quale il carattere che lo rende unico? Probabilmente è la sua capacità di conferire «una qualità atemporale a scene di vita quotidiana». Così secondo Arthur Wheelock «atemporale » vuol dire fuori del tempo o meglio «sopra il tempo». Il tempo che scandisce le opere e i giorni degli uomini, il tempo che dà colore e senso alle cose, sospende i suoi effetti nei quadri di Vermeer.
Per il maestro di Delft non è importante il tempo. Importante è la contemplazione de le cose. Sapendo bene tuttavia che le cose sono inafferrabili. Nessuno lo aveva capito come lui. Il Vero è un mistero ontologico. Come non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, così non si può guardare due volte la stessa cosa. Perché nello scorrere della vita, nel mutare della luce e nel contestuale mutare dei pensieri e delle sensazioni, impercettibilmente ma irreversibilmente cambiano, frazione di secondo dopo frazione di secondo, la cosa guardata e il riguardante.
Il Vero - i pensieri degli uomini come la vita della natura, lo splendore di un panno di seta come l’ombra che si addensa nelle pieghe di un abito, come i mattoni che tremano nel sole di un giorno qualunque sul muro anonimo di una stradina di città - è dunque inafferrabile. Anzi è un enigma. Di tutto questo Vermeer era consapevole.
L’autentico carattere distintivo della sua arte è una approssimazione lenta, implacabile, incessante all’ultimo confine della “rappresentabilità ”, fino al punto estremo in cui la mimesi della realtà si affaccia sull’insondabile enigma dell’essere. Per questo la sensibilità moderna ha così amato Vermeer, per questo abbiamo voluto ospitare nel cuore di Roma una mostra che, dedicata alla pittura laica e borghese dell’Olanda del Seicento, porta in epigrafe il suo nome. Nel luogo che, appena due anni or sono ha ospitato Caravaggio, era giusto dare immagine all’altra faccia della Pittura della Realtà nell’Europa del XVII secolo.
Molto è stato scritto e da angolazioni diverse sui rapporti fra Vermeer e l’Italia. Sandrina Bandera ce ne dà conto con metodo minuzioso e utili approfondimenti. E tuttavia fra Vermeer e Caravaggio, fra i pittori olandesi di impianto naturalistico e i loro colleghi italiani, il divario resta incolmabile.
Per Caravaggio e per i suoi seguaci, il Vero svelato dall’ombra e dalla luce è flagrante immersione nel flusso tumultuoso della vita. Per Vermeer e per gli olandesi del suo secolo è ascolto del silenzio che abita i luoghi e le cose. Ci sarà pure una ragione se il genere pittorico che noi italiani chiamiamo “natura morta”, sotto i cieli del Nord è conosciuto come “vita silente”.
Le ore del silenzio si intitola un piccolo libro di Gaëlle Josse (Skira) dedicato a un celebre dipinto di Emanuel de Witte che rappresenta una giovane donna vista di spalle seduta di fronte alla spinetta.
Tutto intorno e sullo sfondo un interno borghese fatto di lucidi pavimenti, di legni e di stoffe consumati e resi preziosi dall’uso, di pensieri, di trasalimenti, di emozioni e di stupori che abitano la solitaria protagonista e che solo il silenzio ci permette di capire.
Il sommesso respiro che vive nelle cose è il protagonista dei dipinti di de Witte, di de Hoche e, più di ogni altro, di Vermeer van Delft. Il visitatore di questa mostra capirà che le “ore del silenzio” sono il tempo che Dio ci ha dato, che lo sguardo a lunga posa di Vermeer è la cosa più grande regalataci, alle origini della modernità, dal naturalismo e dallo spiritualismo d’occidente.
2/ Un genio che rivendicava il diritto alla pazienza, di Sandro Barbagallo
Una preziosa selezione di opere di Johannes Vermeer è esposta per la prima volta a Roma nelle sale delle Scuderie del Quirinale, insieme con cinquanta opere degli artisti olandesi suoi contemporanei. È il secolo d’oro dell’arte olandese, il Seicento dominato da pittori che lavorano “in finezza” sull’esaltazione meticolosa dei particolari del reale, della vita quotidiana, esattamente come accadrà nella Francia di fine Ottocento con l’avvento degli impressionisti. Ma nei quadri olandesi non c’è gioia, sensualità o allegria.
Nei dipinti di Vermeer, poi, è diffusa un’atmosfera misteriosa ed enigmatica. I suoi oggetti sono come isolati nel supremo sforzo di raggiungere la bellezza della perfezione. Non conosciamo molto di Vermeer. Si sa con certezza che lavorò poco e lentamente. Anche la sua data di nascita esatta è tuttora sconosciuta, come buona parte della sua vita.
Sappiamo però che appartiene a una modesta famiglia protestante ed è battezzato il 31 ottobre 1632 a Delft: cittadina che rappresenta un orizzonte esclusivo nella sua vicenda biografica. Infatti da qui non si spostò quasi mai. Johannes vive quasi come figlio unico, poiché la sorella ha dodici anni più di lui. Il fatto gli permette di dedicarsi alla pittura per cui si sente portato.
Quando il padre muore, nel 1652, si ritrova carico di debiti e con due attività commerciali in perdita. Un anno dopo, comunque, sposa la cattolica Catharina Bolnes che appartiene a un’ottima famiglia di magistrati. Forse per amore della fidanzata, Johannes si converte al cattolicesimo e arriva a sposarsi in chiesa. Catharina gli darà ben undici figli.
Vermeer cerca di conciliare la sua passione per la pittura con il commercio di quadri e la locanda di famiglia. Non riesce però a gestire il proprio tempo come forse vorrebbe. Non a caso a noi sono arrivate non più di trentacinque opere (a Roma ne sono esposte otto), dovute a ventidue anni di attività. Non si conoscono né disegni, né incisioni. Si comporta come se la pittura non fosse la sua passione principale.
Qualcuno ritiene che la sua lentezza nasca da un modo di dipingere troppo metodico. Un quadro alla volta, una cura maniacale delle luci, dei toni di colore, delle più piccole sfumature. In un mondo di artisti che hanno la bottega in cui il lavoro viene suddiviso tra numerosi aiutanti per ottimizzare i tempi di produzione, lui, Vermeer, rivendica il proprio diritto alla “lunga pazienza” del genio.
Poche opere, ma capolavori. Ricordiamo La lattaia (non in mostra a Roma), dipinta tra il 1658 e il 1661. Con quest’opera l’artista dà un colpo di coda alla propria produzione precedente. Opta per un approccio “tattile” al colore, riuscendo a ottenere un miracoloso equilibrio tra l’illusione del vero e la cura meticolosa di ogni dettaglio. Basti pensare alla ruvidezza della lana del corpetto a contrasto con la sericità delle maniche rimboccate, o al pane spezzato di cui sembra di sentire la fragranza attraverso le piccole taches con cui è dipinto, o alla pelle della donna arrossata dal freddo. Una solida popolana intenta ai lavori di casa in una stanza nuda come una cella, ma nobilitata dallo zoccolo di mattonelle bianche a disegni azzurri tipiche di Delft, e da quella luce vetrosa che impreziosisce l’ambiente.
Qualcosa di sacro emana da quel gesto, tanto naturale quanto in posa. Forse nasce dall’ambientazione austera, o dalla notazione di quell’umidità che risale dallo zoccolo delle piastrelle a ombreggiare la parete, oppure è la polvere o quello scaldino dimenticato in terra. E poi c’è il pane e il latte. Cosa vuole rivelarci il pittore?
Il 15 dicembre 1675 Vermeer muore improvvisamente e viene sepolto nella Oude Kerk di Delft. Aveva da poco completato L’allegoria della fede (1674), uno splendido dipinto in cui una donna vestita di bianco e blu, i colori della luce e del cielo, prega poggiando il gomito a un altare su cui stanno un Vangelo aperto, un crocifisso e un calice (chiaro riferimento all’Eucaristia, come la grande Crocifissione raffigurata dietro di lei), mentre tiene il piede destro su di un mappamondo, a significare l’universalità del messaggio cristiano.
Nel 1676 una supplica della vedova alla corte di giustizia riferisce che Vermeer durante la lunga guerra con la Francia non era riuscito a vender nulla. Era quindi caduto in tale angoscia e prostrazione «da passare in un sol giorno dalla piena salute alla morte». I beni di Vermeer, quadri compresi, erano stati infatti sequestrati per pagare i debitori. Catharina cerca però di salvare L’allegoria della pittura con una vendita fittizia alla madre, ma lo stratagemma ha breve durata. Il quadro viene sequestrato e per centocinquanta anni verrà dimenticato, insieme al suo autore.
Nel 1813 il conte Johann Rudolf Czernin lo acquista a Vienna, dove è però attribuito a Pieter de Hooch. Solo nel 1860 il direttore del museo di Berlino lo riattribuisce a Vermeer, dando il via alle ricerche per la riscoperta della “sfinge di Delft”, dopo quasi due secoli di oblio.