Gesù, la storia e l’apocalisse a partire da René Girard e fino a noi, di Sergio Belardinelli
Ripubblichiamo sul nostro sito la relazione tenuta da Sergio Belardinelli il 10/2/2012 nell'ambito del convegno organizzato dal Progetto culturale della Cei dal titolo "Gesù nostro contemporaneo". Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sull'Apocalisse, vedi la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (28/10/2012)
Il tema che ci apprestiamo a discutere è piuttosto impervio. Forse è di quelli che, per usare un celebre titolo di René Girard, ci costringe a parlare delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. È pur vero tuttavia che l’Apocalisse, almeno quella di Giovanni, parla di queste cose per rivelare il loro senso più profondo, per rivelare la dinamica stessa della storia della salvezza. È dunque un libro di luce, non di oscurità. Una luce che a tratti appare persino accecante, ma che certamente è chiara e incontrovertibile; tanto chiara e incontrovertibile, diciamo pure compiuta, che Giovanni può concludere il suo celebre libro profetico con una dichiarazione piuttosto perentoria: “a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro”. Che Dio ce la mandi buona dunque.
Dalla Bibbia sappiamo che la letteratura apocalittica nasce in tempi di crisi. Di fronte a un impero, quello romano, decisamente troppo potente per le forze d’Israele, non resta che confidare in un cambiamento cosmico, proveniente da Dio, che possa sconfiggere quella che nel famoso capitolo tredici dell’Apocalisse di Giovanni viene definita la “Bestia dell’abisso”. L’impero romano, reclamando per sé ciò che può essere soltanto di Dio, diventa per ciò stesso, agli occhi di Israele, la personificazione per eccellenza dell’anticristo (Cfr. Oscar Cullmann, Dio e Cesare).
Ma Girard, con buoni argomenti, ci dice qualcos’altro: sono i fondamentalisti a pensare che l’apocalisse esprima “l’ira violenta di Dio”; in realtà, “se leggiamo con attenzione i capitoli dell’Apocalisse, capiamo che parlano della violenza dell’uomo liberata dalla distruzione dei poteri secolari, e cioè degli Stati, che è quello a cui stiamo ora assistendo” (PA, 28). Secondo Girard, è stato precisamente il sacrifico di Cristo, il sacrificio di una vittima innocente, a smascherare la natura violenta dei “poteri secolari” e a firmare così la loro condanna. “La storia -egli dice- non è altro che la realizzazione di questa profezia” (PA, 27). È dunque Cristo che genera “il potere anarchico presente oggi, dotato di una forza capace di distruggere il mondo. Così che è possibile vedere l’apocalisse avvicinarsi come mai in precedenza” (PA 28-29).
La tesi di Girard è molto interessante, ma a mio avviso non è ugualmente convincente in tutte le sue articolazioni. Condivido in pieno la sua idea che il Dio cristiano sia l’unico a non essere violento. “La violenza è contraria alla natura di Dio”, ha detto Benedetto XVI nel suo grande discorso di Regensburg. Suggestiva è anche la sottolineatura dell’inimicizia tra i “poteri secolari” e Gesù. Come dice il Vangelo di Marco, all’udire della nascita di Gesù il re Erode “restò turbato”, quasi a presagire, giustamente, qualcosa di pericoloso per il suo potere, per tutti i poteri. Non sono però convinto che si possa dire che l’apocalisse sia più vicina in un momento storico, piuttosto che in un altro. Svelando il senso della storia della salvezza, l’apocalisse si configura come una speranza possibile in ogni momento della storia, non come un criterio per misurare quanto una certa epoca sia vicina o lontana dal “compimento” realizzato da Gesù Cristo sul Golgota.
Proprio come dice lo stesso Girard, “L’apocalisse non ha una connotazione storica ma religiosa, per questo non possiamo farne a meno. È questo che il cristianesimo moderno non capisce. Nel futuro apocalittico, il buono e il cattivo sono mischiati insieme in modo che, da un punto di vista cristiano, non si può parlare di pessimismo, si tratta di essere semplicemente cristiani” (PA, 27).
È perché condivido in pieno questa posizione di Girard, che non mi convince altrettanto la sua idea che l’apocalisse sia oggi particolarmente vicina. “Ognuno di noi può vedere che l’apocalisse si fa sempre più concreta ogni giorno che passa: una forza distruttiva capace di cancellare il mondo, armi sempre più potenti e altre minacce ancora si moltiplicano davanti ai nostri occhi” (PA, 30). E altrove: “Il riscaldamento climatico del pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati” (PCA, 312). Ma allora che cos’è l’apocalisse? Parliamo di una “promessa” oppure di una catastrofe imminente?
Io credo che l’apocalisse sia il permanere della promessa, nonostante tutte le possibili catastrofi, l’avvento della “Gerusalemme celeste” che si annuncia come certezza in mezzo al dolore e al sangue della storia. Saper leggere i “segni dei tempi” equivale per il cristiano a leggere il tempo con gli occhi di Gesù, ad affidarsi alla sua persona, non consiste certo in un sapere da “iniziati”, accessibile a pochi privilegiati. In questo senso l’apocalisse va depurata di ogni possibile interpretazione gnostica e indirizzata invece verso quella che definisco una sua interpretazione realistica, alla quale peraltro lo stesso Girard mi sembra che offra un contributo importante. Mi spiego.
Trovo molto bello e suggestivo ciò che Girard dice a proposito della passione di Cristo che “ha sconfitto il sacro rivelandone la violenza” (PCE, 13), mostrando altresì una santità che potrà avere ormai soltanto i tratti dell’amore. Lo stesso dicasi della sua lettura del terrorismo islamico come espressione religiosa “nella sua forma più arcaica”, la quale, trasformando la violenza in “espressione divina”, “si contrappone al cristianesimo in modo più netto del comunismo” (PA, 31). Come dice espressamente Girard, lo scontro in atto è “fra cristianesimo e islamismo, piuttosto che tra islamismo e umanesimo” (PA, 35).
C’è una sorta di “tendenza all’estremo” che si sta manifestando ormai su scala planetaria e della quale la violenza terroristica di matrice religiosa è soltanto la manifestazione più eloquente. Ad averla vista per primo, secondo Girard, sarebbe stato Karl von Clausewitz, l’autore di Vom Kriege, il quale, ben più di Hegel o di Carl Schmitt, avrebbe intuito come sia precisamente questa tendenza a stabilire il significato più profondo della guerra moderna. Né gli stati, né il diritto, né il sacro sono più in grado di arginarla. La guerra moderna non conosce più limiti di sorta. “La violenza che produceva il sacro, non produce ormai altro che se stessa” (PCE, 13). La stessa reazione armata dell’Occidente al terrorismo islamico non fa che alimentare questa violenza. Per questo, secondo Girard, diventa sempre più evidente che soltanto l’amore di Cristo può salvare l’umanità dalla sua autodistruzione.
Mi sembra un’interpretazione ineccepibile del momento storico che stiamo attraversando. E lo è tanto di più, proprio perché condotta alla luce di un principio teologico-apocalittico profondamente cristiano e quindi anche realistico, ma purtroppo poco in uso nelle letture che si fanno della storia contemporanea. Come dice lo stesso Girard in Portando Clausewitz all’estremo, “L’apocalisse non annuncia la fine del mondo, ma fonda una speranza. Chi apre gli occhi sulla realtà non cade nella disperazione assoluta dell’impensato moderno, ma ritrova un mondo dove le cose riacquistano un senso” (PCE, 17).
Ecco un ottimo esempio di uso realistico dell’apocalisse, ossia l’uso di questa parola per denunciare, sì, una possibile catastrofe di dimensioni immense, ma soprattutto per cercare, nonostante tutto, una coerente e non fanatica asserzione di senso di fronte ai tanti disastri della storia: il terrorismo, le tecnologie della vita umana, il riscaldamento del pianeta, ecc. Anche i cristiani che resistettero al Nazismo lo fecero in fondo con questo spirito. L’11 settembre 2001 è accaduto senz’altro qualcosa di sconvolgente, eppure, soprattutto quando i fatti storici hanno dimensioni apocalittiche, occorre restare saldamente ancorati, diciamo così, a una “teologia dell’alleanza” tra Dio e l’uomo. Se le cose vanno tanto male, è certo per colpa dei terroristi, ma anche perché tutti abbiamo peccato, abbiamo rotto l’alleanza con Dio. Riconciliamoci, riscopriamo l’amore di Gesù, e avremo qualche speranza di un mondo migliore.
Totalmente diverso è invece l’uso gnostico degli elementi apocalittici che viene fatto, ad esempio, sul fronte fondamentalista, dove, mescolando in modo esplosivo disperazione, eccitazione e risentimento, si vorrebbe trasformare il mondo intero in una enorme valle di Ermaghedon dove le forze del bene lottano contro quelle del male: un bene e un male “metafisici”, “astratti”, che hanno perduto qualsiasi riferimento alla realtà.
Lo gnosticismo ha sempre guardato con sospetto il senso comune, ossia il mondo che si vede, quello che sta sotto gli occhi di tutti; alla verità del senso comune ha sempre contrapposto qualcosa di arcano, visibile a pochi eletti, capaci di guardare dall’alto della loro “perfezione” gli “Untermenschen” che continuano ad abitare il mondo del senso comune, il mondo delle “sicurezze” borghesi. “Chi vuole soltanto benessere non merita di vivere su questa terra”, scriveva Spengler in uno scritto del 1933 (Anni decisivi, p. 18).
Orbene, a me pare che ci sia in tutto ciò un inconfondibile odore di zolfo. Del resto il diavolo è “gnostico” fin dalla sua prima apparizione. Fin dall’inizio egli usa una presunta intenzione latente (Dio non vuole che diventiate come Lui), per distruggere quello che sembrava l’ordine manifesto (non si deve mangiare di quell’albero). E da allora continua non a caso a comparire nella nostra cultura in una duplice veste: come fonte del dubbio radicale (si pensi al diavoletto di Cartesio) e come decostruttore del mondo sociale.
L’effetto di queste apparizioni è più o meno sempre lo stesso: spingerci a ritirarci nell’anonimato e nell’anomia della prima persona, a sospendere l’idea di un ordine e di una conoscenza oggettiva delle cose, senza la quale gli “illuminati” difficilmente avrebbero buon gioco con i loro deliri sulla realtà “nuova” e sugli uomini “nuovi”, preparati magari grazie alle tecnologie della vita e alla biopolitica. Con le parole di Girard, “La speranza è possibile solo per chi osa pensare i pericoli del momento, e a condizioni di opporsi ai nichilisti, per i quali tutto è linguaggio, e contemporaneamente ai ‘realisti’ (io direi ai ‘cinici’. Nota S.B.) che negano all’intelligenza di saper toccare la verità: i governanti, i banchieri, i militari che pretendono di salvarci, quando invece ci fanno piombare ogni giorno di più nello sfacelo” (PCE, 17).
È una citazione, questa, che va presa molto sul serio. I “pericoli del momento”, i pericoli del tempo presente - penso alle tecnologie della vita umana, alla miseria scandalosa che attanaglia molti popoli della terra, al terrorismo, alle guerre, alle ingiustizie - indicano tutti quella violenza tendente all’estremo, di cui abbiamo già detto. La speranza, proprio come dice Girard, può scaturire soltanto da chi questi pericoli sa guardarli con uno sguardo cristiano, con uno sguardo pieno d’amore, non certo da chi pensa che la realtà sia semplicemente un gioco linguistico. La realtà è tragica; il male, la violenza e l’ingiustizia la fanno il più delle volte da padroni; i lupi amano mascherarsi da agnelli; e alla fine ci aspetta la morte. Eppure Gesù ci promette che la morte non avrà l’ultima parola; ci esorta a lavorare come “servi inutili”, a fare tutto il bene possibile, senza pretendere che il destino del mondo dipenda da noi. È lui che ha vinto il mondo. “Il peggio - dice Girard - non è per forza di cose inevitabile” (PCE, 121). Non possiamo essere sicuri di riuscirci, ma dobbiamo provarci. “Da bravo apocalittico - è sempre Girard a dirlo -, rifiuto qualsiasi provvidenzialismo. Bisogna battersi fino in fondo, anche quando si pensa che si tratta di un 'tentativo vano'” (PCE, 125).
Del resto, prima o poi, l’entropia annienterà tutto. La vita umana è un soffio. Ma in un tempo sufficientemente lungo (e il mondo fisico di tempo ne ha in abbondanza), possiamo star certi che scomparirà anche tutto ciò che ci circonda. Non resterà traccia dei colli di Roma e nemmeno della basilica di San Pietro. Eppure la fine di tutto non è il fine a cui tutto tende. Se lo fosse, vorrebbe dire semplicemente che siamo nelle mani di ananke, la necessità. E invece la ragione e la libertà - ecco il realismo - ci dicono che Girard ha ragione, che “Bisogna battersi fino in fondo, anche quando si pensa che si tratta di un ‘tentativo vano’”, poiché in realtà non si tratta mai di una battaglia contro i mulini a vento.
La cultura greca ha elaborato due risposte a questo problema: la prima è quella di Anassimandro, secondo la quale, prima o poi, tutte le cose torneranno finalmente donde sono venute, espiando in questo modo tutti i loro limiti, anzi, le “colpe”, per essere venute al mondo. La vita è violenza; ciò che vive lo fa sempre a spese di qualcos’altro; qualsiasi forma d’ordine produce disordine intorno a sé; non resta dunque che espiare la colpa di essere nati: una sorta di entropia provvidenziale: la fine di tutto come il fine a cui tutto tende. La seconda risposta è invece quella platonica, la quale, pur consapevole del fatto che anche le cose più belle, più buone e più virtuose sono destinate prima o poi a scomparire, a cadere sotto i colpi di ananke, mostra tuttavia come la loro lucentezza, la lucentezza del bello, del buono e del giusto, resti eternamente, senza essere minimamente scalfita dal loro tramonto: la fine di tutto non coincide con il fine a cui tutto tende.
L’escatologia cristiana produce una sorta di combinazione di queste due prospettive. Un po’ come in Anassimandro, anche nel cristianesimo la morte, la fine di tutto rappresenta una sorta di penitenza per una “colpa” commessa all’inizio. Ma la morte non rappresenta l’ultima parola, poiché la risurrezione di Cristo l’ha già sconfitta da sempre e per sempre. Il massimo di entropia, la fine del mondo, ben lungi dal rappresentare la fine di tutto, rappresenta piuttosto l’avvento definitivo della “Gerusalemme celeste”, dove Dio mostrerà la sua onnipotenza e il suo potere di “far nuove tutte le cose”. Non la morte, ma la vita, la vita buona, bella e giusta ha dunque l’ultima parola: questa la sostanza della speranza cristiana, al cospetto della quale persino ananke traballa, mostrando le sue crepe. Il fatto che dobbiamo inevitabilmente morire non significa che le nostre azioni siano indifferenti; il velo tragico che avvolgeva il mondo greco viene come squarciato; e gli uomini vengono chiamati a fare il “bene” ad amare, anche a rischio della morte, anche a rischio di far crescere l’entropia, poiché questo è l’unico modo veramente umano per “dare molto frutto” e per non morire mai.
Albert Camus, uno che di tragedie e di assurdità se ne intendeva, ha scritto che “dobbiamo immaginarci Sisifo felice”. Ma non può esserci felicità in una vita dominata dalla necessità, in una vita dove siamo costretti a ripetere sempre la stessa azione. Una vita del genere sarebbe soltanto una condanna; “assurdo” pensare che in essa possa trovar posto la felicità. Felice può essere la fatica di una madre che ogni giorno ripete gli stessi gesti per accudire suo figlio o per tenere in ordine la casa, non la fatica di Sisifo che deve ogni volta riportare in alto la sua pietra.
Nessuna struttura di vita buona si afferma e si mantiene senza sforzo, senza una lotta continua col disordine e col caos: questo è indubbio e lo sanno tutti coloro che lavorano e lottano per qualcosa: le madri e i padri di famiglia, al pari degli artisti o dei governanti. Ma, proprio per questo, occorre uscire dall’orizzonte tragico della necessità e dare senso anche allo sforzo e alla fatica. La realtà è quella che è, segnata dal dolore e dalla morte, ma nessun uomo viene al mondo semplicemente per morire. Se così fosse, sarebbe il trionfo dell’entropia.
Invece, direbbe Hannah Arendt, veniamo al mondo per incominciare, per generare forme di vita individuali, sociali e politiche capaci di procrastinare la fine che costantemente incombe su tutti noi e su tutto ciò che ci circonda. Guai ad assecondare questa fine. Non lavare i piatti su cui abbiamo appena mangiato, perché tanto domani li sporcheremo di nuovo, o, per la stessa ragione, non rifare il letto sul quale abbiamo dormito o non tagliare l’erba del giardino di casa sono segni di trascuratezza, non di realismo. Il quale, per gli uomini, non consiste nell’assecondare il caos, il disordine o l’entropia, quanto piuttosto nel cercare sempre il “bene possibile” in un mondo segnato dal caos, dal disordine e dall’entropia.
Non una fatica di Sisifo, dunque, e nemmeno la pretesa di realizzare un mondo perfetto dove non ci siano più né fatica, né morte, ma solo la ferma determinazione a tenere in scacco, più a lungo e nel modo migliore possibile, la fine che necessariamente arriverà: questo è realismo. Certo, anche le persone migliori o le forme socio-politiche migliori alla fine moriranno, ma proprio la loro vita sta a testimoniare un senso, un fine, che non coincide con la loro fine. La bellezza, la bontà, la giustizia di ciò che avremo saputo realizzare sopravvivranno certamente alla caducità delle nostre povere vite e della vita dell’intero universo. È questo, a mio avviso, che ci dicono l’amore di Gesù e la promessa dell’apocalisse.