Clavius e il calendario, di Gianfranco Ravasi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /10 /2012 - 14:25 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della Pontificia Università Gregoriana un articolo del cardinale Gianfranco Ravasi, pubblicato l’11/10/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, vedi la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2012)

Tutti sappiamo la verità della definizione che Ovidio formulò icasticamente nelle sue Metamorfosi (XV,234): tempus edax rerum. Sì, il tempo divora ogni cosa, è simile a un «vorace cormorano», come ripeterà il re Ferdinando delle Pene d’amor perdute (I,1) di Shakespeare. È per questo che l’umanità da sempre si è dedicata a misurare il tempo, e meridiane, gnomoni, clessidre, orologi, sveglie, cronometri, lunari, calendari e altro ancora hanno scandito questa realtà che è l’inesorabile segno del nostro limite e della nostra mortalità.

In questo orizzonte – che non è meramente fisico ma anche metafisico (si pensi, ad esempio, all’appassionata e sofisticata riflessione sul tempo esistenziale elaborata da sant’Agostino nelle Confessioni) – una posizione di alto profilo è occupata proprio da Christophorus Clavius, il grande matematico gesuita convocato da Papa Gregorio XIII per quella riforma del calendario che nel 1582 segnò una svolta nella cronologia universale. Egli fu il vero artefice di quell’evento all’interno della commissione istituita dal Pontefice e ne fu anche l’appassionato difensore e divulgatore, pronto a reagire con la straordinaria competenza scientifica di cui era dotato alle critiche non solo popolari ma anche accademiche.

In quel fatidico 1582 tutta l’umanità invecchiò in un colpo solo di dieci giorni perché la data successiva a giovedì 4 ottobre divenne il lunedì 15 ottobre, colmando, così, quello scarto cronologico che il calendario giuliano si trascinava da secoli. Non è certo nostro compito ora delineare il complesso diagramma che sta alla base della riforma e che è ormai acquisizione comune, nonostante le lunghe resistenze, dovute a motivazioni extra-scientifiche: la Russia, ad esempio, vi aderì solo nel 1918 col nuovo governo rivoluzionario bolscevico, mentre la Chiesa russa continua ancor oggi a declinare la sua liturgia sul calendario giuliano.

Noi vorremmo solo esaltare la figura di questa straordinaria personalità di gesuita e di scienziato proprio all’interno di una tale operazione socio-culturale che, per altro, non fu l’unico orizzonte della sua ricerca. A ragione la Pontificia Università Gregoriana ha voluto celebrarlo con un Convegno internazionale: egli, infatti, incarna una delle molteplici ma tra le più importanti missioni sia di questa università sia dell’intera Compagnia di Gesù. Intendiamo riferirci al dialogo tra fede e scienza, superando le antinomie del passato che continuano a essere inalberate come un vessillo attraverso il “caso Galileo”.

P. Clavius ha dimostrato con la sua ricerca rigorosa e la sua testimonianza religiosa quello che secoli dopo Einstein dichiarava mediante il famoso asserto sulla scienza zoppa e sulla religione cieca, se esse si ignorano. Ancor più esplicito sarebbe stato l’artefice della teoria dei “quanti”, Max Planck, quando nella sua opera Conoscenza del mondo fisico (1906) affermava: «Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente».

Da un lato, è necessario che lo scienziato lasci cadere quell’orgogliosa autosufficienza che lo spinge a relegare la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale e che lo illude a considerare la scienza come la capacità onnicomprensiva di conoscere il reale, circoscrivendo ed esaurendo la totalità dell’essere e dell’esistere e del loro senso.

D’altro lato, si deve vincere anche la tentazione del teologo a perimetrare i campi di ricerca scientifica e di finalizzarne o piegarne i risultati in chiave apologetica a sostegno delle sue tesi.

Clavius è, perciò, il modello del rispetto degli specifici canoni di ricerca dello scienziato e del teologo, ma anche della possibilità di un dialogo tra essi, dato che entrambi si rivolgono allo stesso oggetto che è l’essere e l’esistere. Autonomia, quindi, ma al tempo stesso attenzione reciproca; non conflittualità perché si procede su tracciati e percorsi differenti, ma neppure separatezza, essendo molto più complessa e variegata la conoscenza umana che dispone di vari canali di approfondimento, non solo scientifici o di logica formale, ma anche estetici, simbolici, filosofici, teologici e fin mistici.

C’è, però, un elemento specifico che rende la figura di Christophorus Clavius particolarmente suggestiva, ed è proprio il suo legame col tempo, la realtà che più inerisce alla nostra esistenza. Non per nulla la Bibbia ci presenta una “storia della salvezza”: prima ancora del tempio (lo spazio), è il tempo l’ambito in cui Dio si rivela e opera, come è attestato da ogni pagina delle Sacre Scritture che non sono un’astratta raccolta di teoremi teologici, ma una sequenza di vicende ove si incrociano Dio e l’umanità. È la stessa tradizione biblica a insegnarci la sostanziale distinzione tra il tempo cronologico, oggettivo, analizzato con acribia dal Clavius e oggi computato dagli orologi atomici, il chrónos dei Greci, e il tempo personale, esistenziale, vissuto, il kairós della classicità, secondo il quale l’identica ora trascorsa durante una conferenza noiosa oppure con la persona amata non ha la stessa durata.

In questa luce acquista particolare significato un’intensa invocazione incastonata all’interno di una malinconica e profonda lirica orante del Salterio biblico: limnôt jamenû ken hôda‛  wenabi’ lebab hokmah, «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore di sapienza» (Salmo 90,12). Da un lato, c’è il computo e la valutazione dei giorni che sono circoscritti e decifrabili, tant’è vero che il Salmista poche righe prima osserva che «gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti» (90,10). D’altro lato, però, si ammonisce che, studiando il tempo, si può conquistare un cuore saggio, pervaso da quella sapienza che invita non solo a intuire la nostra miseria, ma anche la nostra grandezza.

Si legge, infatti, sempre nella stessa composizione salmica: «L’agitarsi [degli anni della nostra vita] è fatica e delusione, passano presto e noi voliamo via». Ma si aggiunge: «Rendici, Signore, la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti, per gli anni di cui abbiamo visto il male… Sia su di noi la dolcezza del Signore nostro Dio; rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda!» (90,10.15.17).

Christophorus Clavius che, come matematico, “contò” gli anni del calendario, e come gesuita, li visse nella fede potrebbe idealmente avere come epigrafe proprio queste parole bibliche piene di realismo e di speranza riguardo alla nostra esistenza nel tempo.