Perché non si smette di cercare chi si ama. Quel che unisce prima e dopo le grandi separazioni, di Claudio Magris
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Ripresentiamo sul nostro sito, per stimolare la discussione, una interessantissima, anche se problematica, intervista di Claudio Magris a Dacia Maraini, apparsa sul Corriere della sera del 16 dicembre 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, vedi la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (10/10/2012)
Tutto si tiene. Avevo appena scritto una pagina di omaggio a Fosco Maraini, in cui ricordavo come mi fossi innamorato, a quattordici anni - e lo sono ancora - del suo Segreto Tibet e come, incontrandolo molti molti anni dopo, gli avessi chiesto, prima ancora che ci fossimo formalmente presentati, se era ancora viva Pemà Chöki, l'incantevole tibetana di cui nel libro si parla con asciutta emozione e la cui immagine mi è rimasta in cuore, libera e ariosa come le montagne dell'Himalaya ritratte, sempre in quel libro, in un'indimenticabile fotografia intitolata «Liberazione». Un paio di giorni dopo mi è arrivata La Grande festa di Dacia Maraini, in cui c'è anche lui - «il mio giovane padre settantaseienne» - e ci sono altre figure struggenti e schiette di persone a lei care, persone vere e realmente esistite e non certo meno fantasiose, avventurose e imprevedibili di quelle che si inventano nei romanzi.
Questo libro, che va diritto al cuore con dolorosa poesia, dimostra come Dacia Maraini abbia il dono istintivo, la grazia della gentilezza, nel senso antico del termine. È un libro di commiato da persone amate, che fa sentire tuttavia la presenza di queste persone amate; un libro di dialogo con loro. La «grande festa», come scrive Philippe Ariès molto presente in queste pagine, è il senso di una comunione che - nonostante la lacerazione, il dolore e lo scandalo della morte - unisce e continua ad unire chi è di qua e chi è di là di quella soglia.
Si avverte, in generale, sempre più fortemente la ribellione contro l'impudica rimozione della morte. Non è un caso che in queste settimane sia uscito pure un altro libro bello e forte che ci aiuta ad abbracciare chi è passato dall'altra parte, a guardare in faccia l'indicibile, a ritrovare la presenza e l'amore nel dirsi addio, Così è la vita di Concita De Gregorio. Sento fortemente che nessuna storia finisce mai; le persone che fanno parte della nostra vita, che sono la nostra vita, continuano ad esserlo: continuiamo ad amarle, ad arrabbiarci con loro, ad esser loro ora più vicini ora più lontani, a pensarle e a sentirle al presente: esse sono, così come Omero non «era» un poeta, ma lo è, per sempre. «Come è bello e felice che i fratelli gioiscano insieme, nell'unità», dice la Scrittura.
La grande festa non è una discesa all'Ade; è un colloquio, doloroso ma sereno, con i morti - sorelle, amici, compagni di vita e d'amore, un figlio morto prima di affacciarsi al mondo grande e terribile. Ma tutti presenti, nella vita dell'autrice come nella storia del mondo; ognuno è la cicatrice di un distacco ma anche la tenerezza di una carezza rimasta sul viso. Resta, certo, lo sgomento per lo «spazio vuoto, indicibile», come ha scritto Veronica Raimo, che avvolge quelle figure.
C'è forse una profonda femminilità - chiedo a Dacia Maraini - in questa riservata e insieme franca capacità di abbracciare senza paura chi è dall'altra parte? La generosità è dalla parte di Alcesti, non di Admeto, lo sposo al posto del quale lei accetta di morire, tema che ho ripreso più volte e mi tocca profondamente. Forse per questo Giovanni Paolo I ha parlato di un «Dio madre», perché un Padreterno quale autorità maschile, come tu scrivi, non è sufficiente all'amore...
Maraini: «Non so se l'accudimento dei bambini, così come quella degli anziani e dei malati, appartenga alle donne per natura o per storia. So che per millenni è stato affidato loro questo compito e le donne hanno introiettato l'esperienza che è diventata una vera e propria competenza femminile. La capacità di allungare la mano su una guancia bruciante per la febbre o gelata per il rigor mortis, appartiene all'esperienza femminile, per consuetudine, per prassi. Niente toglie però che, una volta liberati dalle divisioni coatte dei compiti, la mano maschile possa chinarsi con altrettanta affettuosità a carezzare una guancia che si fa di ghiaccio.
Mi viene in mente un esempio di amore paterno che si trova nella cripta dei cappuccini di Palermo. Una bambina è morta fra le braccia del padre medico. Per lenire il suo dolore, l'uomo ha inventato un unguento per imbalsamare sua figlia. Ma dopo di lei ha distrutto il segreto, non l'ha voluto diffondere. In mezzo ai tanti corpi morti di nobili palermitani, resi orribili da una approssimativa imbalsamazione fatta col salnitro che rende la pelle dura come la pietra e marrone come la corteccia della castagna, la bambina imbalsamata mantiene miracolosamente una faccia tonda e rosea, le ciglia perfettamente conservate, le labbra carnose, un ciuffo di capelli castani fermato da un fiocco rosa. La si osserva con meraviglia. Eppure penso che il padre abbia fatto bene a non diffondere il segreto. L'imbalsamazione non è una risposta alla paura della morte. L'eternità non è un teatro delle apparizioni, ma una misteriosa conciliazione chimica».
Magris: «Alcune di queste figure a te care sono anche grandi personaggi famosi - Moravia, Pasolini - che appartengono alla storia della letteratura. È inevitabile, nei loro confronti, qualche particolare riserbo, un senso di responsabilità che seleziona, quasi frena nella scrittura i ricordi che si hanno di loro. Nel tuo libro, tua sorella Yuki è più viva, completa di Moravia. Forse è la letteratura a recare in sé questi limiti dell'umano, a stilizzare l'uomo o la donna nell'immagine dello scrittore, a renderli in certo modo personaggi pubblici verso i quali ci si sente meno liberi, più riguardosi, anche se la morte non ha riguardi per nessuno...».
Maraini: «Non è la morte ad avere riguardi, ma il nostro pensiero che agisce molto più efficacemente di una imbalsamazione, perché nel pensiero una persona cresce, si trasforma, insomma si comporta come un corpo vivo e non si offre come una carne pietrificata. Mia sorella è morta troppo presto in seguito a lunghe sofferenze di cui sono stata testimone e che mi hanno fatto soffrire a mia volta. La sofferenza, se non è dannazione, può diventare un segreto per conservare amorevolmente un affetto, con le sole forze segrete e tenaci della memoria».
Magris: «Tu scrivi, a proposito di Paradiso e Inferno, che, "l'immaginaria divisione cattolica medievale tra buoni e cattivi mi risulta noiosa e prevedibile". Ma Primo Levi diceva che l'idea di un Paradiso per tutti, di un'assoluzione finale in cui tutti, anche i carnefici di Auschwitz, fossero redenti, gli faceva orrore...».
Maraini: «Nessun Dio, per quanto generoso, credo che manderebbe gli aguzzini di Auschwitz in Paradiso. Se c'è un Inferno, sono laggiù. Sarebbe veramente straordinario se ci fosse una serena ed equa giustizia celeste che rimedia alla totale mancanza di giustizia di questo mondo, soprattutto del nostro paese così anarchico, così innamorato del potere individuale e così sordo ai valori sociali. A me piacerebbe poterci credere: un Dio gentile, che giudica, soppesa, analizza, penetra nel cuore umano sapendo dove si annida l'innocenza e dove si nascondono le ombre scure dell'egoismo, sarebbe consolante. Ma dubito che esista un tale meraviglioso tribunale».
Magris: «In una splendida pagina del tuo libro, ricordando il grande amore fra i tuoi genitori, fondato sulla libertà reciproca, anche sentimentale, e sul leale impegno a raccontarsi tutto, pure altre passioni, tu dici che, pur avendo aderito con slancio alle libertà della stagione sessantottesca, non hai mai creduto che questa libertà e questa franchezza possano essere indolori: "C'è sempre uno che ama di più - scrivi - che soffre più dell'altro. E il risultato è un atto di crudeltà contro il più debole e il più esposto". Condivido profondamente questa consapevolezza e la dolorosa nostalgia che la pervade. Vorremmo che nell'amore non vigesse il principio di contraddizione, capita di amare più di una persona, anche se c'è sempre una che si ama di più; vorremmo anche poterlo dire, raccontare, perché ogni esperienza significativa chiede di essere condivisa con chi ci è caro. La "grande festa" potrebbe essere forse anche questo? Tanti canzonieri d'amore hanno arricchito tante persone, ma hanno fatto pure soffrire qualcuno e non è lecito far soffrire nessuno, neanche un cane, ha detto Ernesto Sábato...».
Maraini: «Sono d'accordo con Sábato. Anche gli animali soffrono e vanno rispettati nel loro dolore. In quanto all'amore: per fare coppia ci vuole fiducia. Non si può pretendere di mantenersi liberi sessualmente e sentimentalmente e nello stesso tempo vivere fino in fondo un grande amore. Ogni legame pretende anche delle rinunce. Che non saranno sacrifici ma felice concentrazione e approfondimento di un rapporto a due. Amare più persone si può certamente, ma in tempi diversi. Altrimenti facciamo come Don Giovanni che contava: "in Ispagna son già mille e tre!". Perfetto per scandalizzare i nobili bigotti del suo tempo, ma tristissimo per chi aveva voglia di amare con allegria e stringere un corpo senza sentire il respiro gelido di un ragioniere del sesso».
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