Ma che ne sapete voi dell’amore («Non ti amo perché è giusto»), di Davide Rondoni
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Davide Rondoni pubblicato il 4/9/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (17/9/2012)
Già cent’anni fa il dongiovanni Miguel Mañara e la Violaine di Claudel ricordavano ai cristiani ciò di cui solo loro dovrebbero parlare sempre. Perché nessuno come loro conosce questa strana cosa che impasta i destini degli uomini con paradisi e inferni
I rotocalchi, le tv, i libri (con cinquanta sfumature o mille) parlano d’amore. Fan bene. Lo han sempre fatto anche i cristiani. È ora che ricomincino a farlo. Non si può non fare. Perché l’amore è forte come la morte, come dice il Cantico dei Cantici. Spiazza e attrae tutti. Non ha misura. In Romagna, dove il Cantico dei Cantici non è certo la lettura più diffusa, si usava però la stessa parola, “trasporto”, per indicare l’innamoramento e il funerale. In entrambi i casi sei portato da qualcosa a cui non ti puoi opporre.
Per questo l’amore – come la morte – non è giusto. Non sta in nessuna giustizia che non sia una strana giustizia “ingiusta” secondo le misure umane. Siamo tutti amati “ingiustamente”. Per fortuna.
Quale bacio, abbraccio, quale perdono e quale “ti amo” meritiamo? Che razza d’amore sarebbe quello che non riesce a essere un po’ ingiusto… Lo dice la splendida Violaine. personaggio chiave de L’Annuncio a Maria, capolavoro di Paul Claudel, ignorato in Italia se non fosse per le letture che ne ha mosso don Luigi Giussani.
Violaine, il personaggio in cui il poeta adombra la sua amata e sfortunata sorella, la gran scultrice Camille, a un certo punto dice al suo fidanzato Giacomo: «Io non ti amo perché è giusto». Verso dinamitardo. Da scrivere sugli stipiti delle porte di ogni genere di casa, di famiglia o convento, di don Giovanni o di consacrati.
Cent’anni fa mentre a Parigi veniva rappresentato per la prima volta L’Annuncio, uno strano personaggio, figlio di gente ombrosa, tentato dal suicidio e però definito da Oscar Wilde “poetry itself”, la poesia stessa, dava alle stampe un dramma teatrale. Oscar Vladislas Milosz scrive la vera storia del personaggio che ha ispirato la figura di don Giovanni, il nobiluomo di Siviglia Miguel Mañara. Colui che nel 1619, dopo aver collezionato un catalogo di ogni tipo di femmina (per abbracciare le infinite possibilità, dice), sposa Girolama. Anche nel destino di don Giovanni amore e morte si incontrano, come nel Cantico dei Cantici. Due cose ingiuste e ugualmente forti. Da comprendere e vivere veramente fino in fondo nella loro “ingiustizia”.
I mormoratori naturalmente oppongono a questa idea il fatto che l’amore vero corregge, cerca di condurre a giustizia, alla misura giusta le cose. Non è così. La vita è un continuo debordare nostro dalla giustizia, e tali debordamenti sono da correggere, sì, ma amando. Forse è giusta l’esuberanza erotica di un diciassettenne, forse è giusto l’invecchiamento che tutti assale? O la ritrosia della bella ragazza? Tutto giusto e ingiusto insieme, una misura con una dismisura dentro. Non si capisce bene, perciò occorre parlarne di continuo.
«Possiamo soltanto amare/ il resto non conta/ non funziona». I poeti ne parlano sempre, anche per chi non ne ha più voglia, non si azzarda, o crede che non ci sia più niente da dire. Ma l’amore, finché lo si vive, mobilita parole. Siamo la patria della canzone d’amore. Non abbiamo mai preso troppo sul serio quelli che pensano che il diavolo abbia la minigonna. Mio nonno a ottantatré anni inventava soprannomi per mia nonna. Non era stato di certo un marito perfetto. Aveva una concezione romagnola del matrimonio (che è durato 65 anni, fino alla morte). Ma inventava nomi per lei.
Nessuno come il cristiano sa d’amore che impasta i destini, gli attimi di uomini e donne con paradisi e inferni. Così mentre settimanali e rotocalchi ne parlano in modo superficiale e soprattutto d’estate per riempire vuoti e pascersi lettori annoiati con storielle e gossip, ecco che Tempi, settimanale catto-corsaro, e d’ora in poi catto-amoroso, chiede a me di parlarne, mentre le ferie finiscono e riprende la vita di tutti i giorni. Perché la vita di tutti i giorni senza amore inaridisce. Del resto, i grandi autori (cristiani) hanno sempre parlato d’amore. Quindi lo posso far anch’io, il minimo.
Dante non scrive mica la Commedia perché voleva lasciarci un malloppone sintetico sulla cultura e sull’universo medievale. Ma perché ha incontrato Beatrice. E capisce che in quella esperienza si sintetizza il grande dibattito e il grande dramma d’esperienza dei teologi del secolo precedente e dei poeti. Gli uni discutevano se si conosce Dio amandolo, gli altri inventano la grande poesia provenzale e stilnovista cantando un oggetto “imprendibile” come Dio (le dame sono sempre sposate o d’altri), amando il quale l’uomo si nobilita e si conosce. Dante compie la sintesi: amando Beatrice, che sua non è, e che gli viene sottratta dalla morte, arriva a conoscere Dio, la stoffa dell’Essere.
Senza voler insegnare niente
Dire “ti amo” non significa dire sei mio o mia. Pochi come il cristiano Baudelaire, che dedicava poesie come a una principessa alla sua prostituta mulatta Jeanne, sono penetrati nel dramma misterioso dell’amore. E non è il cattolico Manzoni il primo grande autore italiano di telenovela (lui, lei, l’altro che la vuole…) mettendo in scena il dramma di Renzo, Lucia e don Rodrigo? Sia Dante che Manzoni san bene, senza bisogno di fare letteratura banale, i legami misteriosi tra corpo, amore, tra desiderio sessuale e legame. Tra corpo e anima amanti. Il cattolico Ungaretti scrive tra le più belle poesie d’amore e di desiderio. E il filosofo accademico di Francia Jean-Luc Marion sta da tempo riflettendo sulla conoscenza erotica.
Certo, rispetto al fuoco della poesia, spesso gli uomini di Chiesa hanno parlato dell’amore – tranne rare eccezioni tra cui Wojtyla e il Papa in carica – in modo banale, spesso untuoso e complessato. È ora di voltare pagina. Senza voler insegnare niente, se non quello che tutti, in fondo, sappiamo. Ci state?