L'Infinito al Meeting di Rimini. 1/ L'infinito, qui e ora, nelle cose della vita, di Claudio Magris 2/ Claudio, il nostro "piccolo" infinito è destinato a morire, di Luca Doninelli 3/ Amare Dio in ogni cosa e al di sopra di tutte le cose. Breve nota di Andrea Lonardo
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 20/8/2012 un articolo di Claudio Magris e dal sito della rivista Tempi un articolo di Luca Doninelli pubblicato il 21/8/2012, aggiungendovi una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (25/8/2012)
1/ L'infinito, qui e ora, nelle cose della vita, di Claudio Magris
«Tutte le immagini - dice una poesia di Montale - portano scritto: “Più in là”». È questo oltre, questo «Più in là» che dà senso a ogni concreta realtà finita. I nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni, la nostra esistenza non si limitano alla loro particolarità; si collocano in una dimensione infinitamente più grande che li avvolge e conferisce loro significato.
Così come un sorriso non esiste da solo, ma nel volto e nella bocca in cui nasce, nella persona in cui fiorisce e nella persona o nelle persone o nelle cose cui si rivolge e che non sono staccate da noi, ma fanno parte del campo di energie della nostra vita. La Via Lattea, quando la vediamo nelle notti serene, ci sembra lontana, altra da noi, ma invece siamo anche noi in essa, siamo anche noi la Via Lattea.
La nostra finitezza è inesorabile e forse non possiamo né dobbiamo occuparci d'altro, ma essa non basta ed è un'illusione delle nostre abitudini e dei nostri pregiudizi che essa sia tutto. Questo senso di ciò che trascende la nostra immediatezza è religioso, ma non ha necessariamente bisogno di una fede precisa. In uno splendido saggio, Horkheimer - marxista critico, padre insieme ad Adorno della Scuola di Francoforte e del pensiero negativo - parla del mondo finito come dell'unico mondo di cui si possa avere conoscenza, ma rimanda pure a un «irriducibilmente Altro» che non si può analizzare, ma non si può espellere dall'orizzonte della mente e del cuore umano.
Non so come si possa definire questo Altro: Dio, l'infinito, forse pure con altri nomi. Anni fa un eminente fisico mi disse che la scienza stava distruggendo gli infiniti. Non sono in grado di capire cosa ciò significhi, ma non credo che ciò possa cancellare la verità espressa nell'Infinito di Leopardi, verità oggettiva, che coglie il rapporto dell'individuo col Tutto in cui vive e che sostanzia la sua stessa esistenza.
Senza questo senso concreto dell'oltre, non esiste veramente niente e niente può essere vissuto, patito, goduto. Basta uno sguardo, in cui nell'amore si accende improvvisamente qualcosa d'altro, per farci capire che la nostra esistenza non finisce ai confini del nostro corpo, dei nostri interessi, delle nostre paure. Anche l'aprirsi a un altro nell'amicizia varca e trascende le misere frontiere dell'io. Viviamo, anche senza saperlo e senza volerlo, in quest'oltre, come i pesci nel mare. Non avere questa consapevolezza impoverisce la vita, l'Eros, l'avventura.
Quest'oltre può essere vissuto e sentito, ma non predicato. «Tutto sta eterno dinanzi al volto di Dio - dice, in una poesia di Goethe, la bellissima Suleika al suo amante -. Amalo in me, per questo istante». In quel momento, l'infinito - se proprio vogliamo chiamarlo così - è baciare quella bocca, non tenere conferenze sull'infinito, sull'amore o su Dio.
Forse - non lo so - matematici e fisici possono cercare di catturare l'infinito nei loro calcoli, ma nella vita d'ogni giorno non è certo il caso di rompersi la testa sulla sua inafferrabilità e di atteggiarsi a pensosi e tormentati spiriti profondi in cerca dell'assoluto. Questo oltre lo si vive nelle cose concrete d'ogni giorno, come l'orizzonte che le avvolge e dà loro significato, ma occupandosi della loro e nostra finitezza.
Si lamenta, giustamente, che preoccupazioni materiali rendano la società sempre più priva di spiritualità. Ma quest'ultima è reale non se è oggetto di nobili discorsi, ma se è l'atteggiamento con cui si affrontano i problemi d'ogni giorno. Proprio perché Dio è indicibile - ed è patetico ed empio volerlo definire, possedere, farsene rappresentanti ufficiali o interpreti autorizzati, parlare a suo nome - il nostro compito è parlare non dell'infinito ma delle piccole o grandi, buone o cattive cose in cui esso vive e si nasconde, dalle difficoltà casalinghe all'euro o alle pensioni. La preghiera, è stato detto, è attenzione, attenzione amorosa, rigorosa e silenziosa alle cose.
2/ Claudio, il nostro "piccolo" infinito è destinato a morire, di Luca Doninelli
Carissimo Claudio,
ho letto con attenzione e grande piacere la riflessione che hai dedicato, sul Corriere della Sera di ieri, al tema dell’attuale Meeting di Rimini: “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. Il tuo pensiero, oltre a quello dell’eleganza, ha il pregio dell’autentica chiarezza, quella chiarezza che non appartiene solo al procedere dell’argomentazione, ma anche alle premesse.
Proprio perciò il tuo pensiero è discutibile, come si addice a ogni vero moto di pensiero: perché sa mettersi a nudo. Da qui intendo partire per fare qualche osservazione sul tuo scritto. Leggendolo, mi venivano in mente tanti nomi fondamentali della storia della filosofia. Andando a ritroso, cito Wittgenstein, Kant, Galileo, giù giù fino agli Stoici e a Socrate. Ad essi mi permetto di aggiungere quello di Spinoza.
Tutti questi filosofi, nella loro diversità, si può dire professino nei confronti delle cose un atteggiamento che i detrattori hanno definito con la parola “intellettualismo”.
Tu parli dell’Infinito come di quell’“oltre”, o per dirla con Montale quel “più in là” senza cui le cose finite - che sono poi quelle di cui in realtà ci occupiamo da mattina a sera - non avrebbero nessun senso. Aggiungi però che l’Infinito, pur essendo quanto di più reale esista, diventa astratto nel momento in cui cerchiamo di farne l’oggetto di un nostro discorso, definendolo fino a farne, per così dire, un nostro possesso.
Perciò alla fine suggerisci come il solo modo di amare l’Infinito senza cadere nella vuota astrazione sia quello di amarlo “dentro” le cose finite, dentro il “qui e ora” delle cose di ogni giorno, senza la pretesa di definirLo né tantomeno di parlare in Suo nome.
Nel tuo discorso manca però qualcosa di essenziale: il fatto cioè che l’uomo non è assolutamente in grado di realizzare il programma che dici tu. C’è in noi una ferita enorme, paurosa: vorremmo essere virtuosi e siamo meschini, vorremmo essere magnanimi e siamo pieni di perfidia, cerchiamo di innalzare il nostro spirito e siamo prigionieri delle nostre passioni più inconfessabili. La vita dei pensatori più sublimi è zeppa di bassezze, come quella di noi tutti.
Che l’Infinito si realizzi nella carezza che do a mio figlio, nella stretta di mano a un amico, o anche soltanto nel preparare una frittata, bè, è il desiderio di tutti: è il fuoco che ci arde dentro, e al quale cerchiamo di dare risposta spesso nei modi peggiori.
Il guaio è che non ce la facciamo, perché tra il desiderio e la realtà di ogni giorno c’è un abisso, ci piaccia o no. È il retaggio terribile del più bello tra i doni che abbiamo ricevuto: la libertà. Nella tradizione cristiana questo abisso, che appartiene all’esperienza di tutti gli uomini, ha un nome: Peccato Originale. È una legge inesorabile, espressa perfettamente da Ovidio: “Video meliora proboque, sed deteriora sequor”: vedo ciò che è meglio e lo approvo, ma seguo quel che è peggio.
Tolta questa realtà senza pensiero e senza ragione, che si mette di traverso a ogni nostro nobile tentativo, ma da cui i nostri tentativi non possono prescindere (qui sta il punto), possiamo illuderci che il bene, che è la realizzazione dell’Infinito dentro il finito, si possa compiere sempre, basta che lo vogliamo.
Questa ferita costituisce tuttavia anche l’occasione più grande per l’uomo, perché ne rivela la natura più profonda: quella di esser totalmente bisognoso, nudo, povero, mendicante. Tanto da far dire a don Giussani, nel 1998, che “il mendicante è il protagonista della storia”. L’uomo ferito chiede all’Infinito di esistere come persona, come un “tu”.
La preghiera è sicuramente anche quello che dici tu, caro Claudio, cioè attenzione alle cose. Ma se le togli il grido che erompe dal nostro povero cuore, affinché l’Infinito abbia pietà del niente che siamo la tua resta una preghiera per filosofi, per persone molto intelligenti, per i notabili dell’umanità.
Il cristianesimo è, per me e per qualche mio amico, l’imprevedibile risposta di Dio al nostro grido, il moto del Suo cuore mosso a pietà per la nostra miseria a tal punto da farsi uomo e morire in croce. La sorpresa per questa inimmaginabile iniziativa dell’Infinito è la vita cristiana, ossia il tentativo, sempre imperfetto, ma anche sempre correggibile, di corrispondere a questo immenso dono.
3/ Amare Dio in ogni cosa e al di sopra di tutte le cose. Breve nota di Andrea Lonardo
Sant'Agostino ha scritto che si deve amare Dio in ogni cosa e al di sopra di ogni cosa[1].
Se si amasse l'Infinito solo in sé ne risulterebbe necessariamente un'astrazione o si giungerebbe al fondamentalismo - tragica è l'esperienza recente di quello islamico - dove la prova di uno pseudo-amore di Dio è esattamente l'odio per ciò che Egli ha creato.
Ma è vero anche il reciproco: se si amasse l'Infinito solo nelle cose create, in realtà vorrebbe dire che Egli è insignificante e che, essendo non personale, non meriterebbe di essere amato. È l'ipotesi di un primo Motore immobile, necessario come ipotesi filosofica, ma certo non tale da far sobbalzare il cuore.
Se l'Infinito mostra il suo volto in Cristo, ecco che Egli bussa alla porta chiedendo alle vergini sagge di essere pronte per lo sposo, ma insieme chiedendo di prendersi cura di tutti coloro che il Padre gli ha dato. Chiede di amare di amore indissolubile, di lasciare che i bambini vengano a Lui, di cercare i peccatori perduti e di servire i servitori della Chiesa, ma anche di lasciare marito e moglie, genitori e figli, campi ed amici per seguirlo. L'Infinito vuole essere amato in ogni cosa e al di sopra di tutte le cose. Perché l'Infinito si è fatto carne, pur restando Dio.
Note al testo
[1] Cfr. la Colletta della Messa della XX domenica del tempo ordinario.