San Benedetto e quel silenzio (scomodo) che abbiamo dimenticato, di Massimo Camisasca
Riprendiamo dal sito Il Sussidiario un testo di Massimo Camisasca pubblicato il 9/7/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (11/7/2012)
Proponiamo un brano dell’intervento tenuto ieri dall'autore a Ravenna, nell’incontro dal titolo “Natura e silenzio nell'esperienza monastica e nella nostra vita oggi”, in occasione del Ravenna Festival.
Per comprendere cosa sia il silenzio e soprattutto per vivere il silenzio occorre un lungo cammino. Voglio chiarire subito un possibile equivoco: il silenzio non è l’assenza assoluta di parole e di suoni, ma un dialogo, uno sguardo che sa vedere con maggiore profondità le cose e la vita di tutti i giorni.
Nel nostro tempo c’è paura del silenzio. Per ragioni diverse. Taluni hanno timore del nulla, del vuoto che potrebbe rapirci se non siamo accompagnati continuamente da rumori e immagini sempre più assordanti e numerose. Nel tentativo di vivere lontani dal silenzio abbiamo creato una società dominata dall’inquinamento acustico. Anneghiamo in un’overdose di segnali. Teniamo accesa la televisione anche quando siamo a tavola. Pensiamo di essere in contatto con tutto il mondo attraverso internet. Andiamo in discoteca, purché i decibel siano altissimi, e amiamo altre forme di stordimento.
Non si sa più godere del silenzio. Forse temiamo che il silenzio porti dentro di sé le domande fondamentali di cui non avvertiamo più la ragionevolezza e la pace. Eppure queste domande sono dentro di noi e ci indicano le strade giuste per vivere.
Mi viene in mente Seneca. Dopo tanti anni di carriera nella corte imperiale si ritirò nella sua casa in campagna appunto per cercare il silenzio: “La natura ci ha dato l’istinto della curiosità: dove sono uscite queste stelle? Quale principio razionale ha separato ciò che era confuso? Chi ha assegnato posto alle cose?”[1].
Per entrare nel silenzio non dobbiamo uscire dal mondo, fare come Democrito che, riferisce Cicerone, si era privato degli occhi per non essere distratto dalla meditazione. Non c’è un comandamento che ci possa obbligare a uscire dal rumore. Occorre provare, dare credito a coloro che ci testimoniano che è possibile vivere meglio, che è possibile vedere più in profondità, godere maggiormente dei rapporti, soprattutto godere dell’ascolto dell’altro.
Proviamo a trovare, appena alzati o prima di dormire, un tempo di dialogo con noi stessi e con Dio. Se il silenzio esige una certa lontananza dai rumori di tutti i giorni, ci dona di entrare più profondamente nella realtà, ci fa scoprire il volto vero delle cose che spesso è nascosto come dietro un velo.
Per l’antica filosofia greca, dai primi pensatori fino a Plotino, la contemplazione era il vertice della vita. Ogni essere, secondo loro, tende alla contemplazione. In questo modo si stabiliva una gerarchia nella vita, fra contemplazione e azione. La seconda doveva sgorgare dalla prima. Per Platone, ne parla nel suo dialogo Fedro, il fare è tanto più ricco quanto più lo è stato il contemplare.
Queste profondissime annotazioni che hanno costituito la nostra civiltà occidentale, non sono riuscite però spesso a trovare un punto di sintesi. La contemplazione infatti, nel mondo greco e romano, la teoria, l’otium, era possibile solo per taluni. La maggior parte degli uomini era condannata a una vita senza peso e senza senso.
La riflessione sui diversi livelli della realtà personale e del mondo ha dominato anche l’oriente. Senza poter entrare adesso nei particolari, vorrei ricordare l’induismo che mira a liberare l’anima dai vincoli della corporeità attraverso le retta conoscenza che ci fa entrare nell’Uno o Eterno, in una coscienza cosmica o divina, eliminando ogni distinzione tra l’uomo e le cose. Per il taoismo l’uomo perfetto si libera da tutto ciò che appartiene al mondo, si sbarazza perfino della propria coscienza, entra in un mondo extratemporale ed extraspaziale, dove tutto è una sola cosa.
Per il cristianesimo invece, che nasce dall’Incarnazione di Dio in un uomo, Dio ha creato l’universo come cosa buona. Anche se esiste il male nel mondo a causa del peccato, da esso ci ha liberato il Figlio di Dio che attraverso la sua Resurrezione da morte ha reso possibile la speranza della resurrezione della carne. Il mondo non verrà distrutto, ma trasfigurato e inizia già ora il suo cammino verso tale trasformazione nella carità dei credenti.
Nella vita cristiana le passioni, i desideri, le attese degli uomini non vengono cancellati, ma orientati. Ecco allora il valore del silenzio. Trovare Dio nel fondo di noi stessi, trovare in Lui l’unità di tutte le nostre parole e di tutte le nostre azioni. Noi siamo abitati da Dio. Se ascoltiamo la sua voce ed entriamo nella sua azione, a poco a poco la nostra vita trova una nuova unità.
Se dovessi riassumere in una definizione cosa sia il silenzio, direi che esso è l’attimo abitato da un Altro. La tradizione monastica benedettina ci ha insegnato molto bene tale unità della vita. Ora et labora infatti è un’espressione che vuole introdurre nel silenzio come dimensione profonda e interiore di ogni azione e nel lavoro come trasformazione del mondo che nasce dal silenzio.
Padre Mauro Lepori, abate generale dell’Ordine Cistercense, ha scritto di recente che san Benedetto ci invita ad imparare a parlare e a tacere[2]. Nessuno di questi due atteggiamenti è un assoluto in se stesso.
Se la regola di san Benedetto domanda di coltivare il silenzio, lo chiede per due scopi. Per ascoltare Dio che parla e per vivere tale ascolto nella carità verso gli altri. Il silenzio consiste nella conversione del cuore “che tolga alla nostra parola il suo potere, le sue capacità possessive e offensive e diventi sempre più trasmissione della parola di Dio che crea ogni cosa buona, benedicendola”. La carità nasce dunque dal silenzio che ascolta. “Il silenzio monastico, ha scritto sempre padre Lepori, non è mai autistico, non è mai una chiusura su di sé, ma un atto di relazione, una taciturnitas, come dicevano i latini, cioè rinunciare al proprio turno di parola per ascoltare l’altro”.
Il nostro silenzio non nasce dal comandamento “Taci!”, ma da una parola che ci dice “Ascolta!”. Cassiano nelle sue conferenze scrive: “Quali che siano le offese che lo colpiscono, il monaco conserverà la pace; non solo sulle labbra, ma nel fondo del cuore. Se si sente anche minimamente turbato rimanga in silenzio e osservi diligentemente quanto dice il salmista: custodirò le mie vie per non peccare con la mia lingua (Sal 38). Egli non deve fermarsi a considerare il presente, non deve lasciarsi uscire dalle labbra ciò che gli suggerisce la collera. Deve ripensare nel cuore la grazia della carità di un tempo oppure rivolgere il suo sguardo all’avvenire per vedere la pacificazione come già avvenuta”[3].
Il nostro tempo ha sommamente bisogno di imparare la carità e non potrà farlo se non attraverso il silenzio. Il profeta Isaia ha scritto: “Nel silenzio e nella speranza risiederà la vostra forza” (Is 30, 15). Esso ci rende attenti a noi stessi, apre il nostro cuore alla voce di Dio, ci dispone ad accogliere i suoi doni che dissolvono l’amarezza del nostro animo, ci rende a poco a poco capaci di parlare e di tacere, di perdonare, di costruire. Tutti doni assolutamente necessari se vogliamo che l’umanesimo torni ad essere l’ossatura profonda dei nostri popoli.
Note al testo
[1] Seneca, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000, 191-192.
[2] Capitolo 1 settembre 2011.
[3] Cassiano, Regola, Conferenza XXVI.