Le radici cristiane dell’Albania. Un’intervista di Luca Marcolivio a Teodor Nasi
Riprendiamo dall’Agenzia di stampa Zenit un’intervista apparsa in due parti il 6 e 7/7/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (11/7/2012)
Per quella che è stata la sua vicenda, l'Albania rappresenta un capitolo a sé nella storia d'Europa. Difficilmente incasellabile secondo i parametri di Europa occidentale o orientale, questo paese, seppur piccolo per dimensioni territoriali, è grande per la forza della sua tradizione cristiana.
Sebbene sia stato oppresso da una dittatura comunista, sarebbe un errore analizzare la storia dell'Albania in base a quanto avvenne in Unione Sovietica e nel paesi satelliti. Anche in ciò, questa nazione conserva la sua peculiarità.
Pur essendo luogo d'origine di una delle più numerose comunità di immigrati sul suolo italiano, dell'Albania sappiamo molto poco. La mostra Albania Athleta Christi. Alle radici della libertà di un popolo, in programma al prossimo Meeting di Rimini (19-25 agosto), intende contribuire a colmare questa lacuna.
Per conoscere i contenuti dell'esposizione, Zenit ha incontrato Teodor Nasi, giovane avvocato trapiantato in Italia, curatore dell'iniziativa, assieme a Felice Crema, Bardha Karra, Florenc Kola, Zhirajr Mokini Poturljan, Miranda Mulgeci Kola, Giorgio Paolucci e Denis Spahaj.
Come avete conosciuto il Meeting, voi curatori albanesi, e come è nata l'idea di questa mostra?
Teodor Nasi: Ho conosciuto il Meeting poco dopo aver incontrato il cristianesimo. È la più importante tribuna culturale italiana. Ho iniziato a lavorarvi come volontario nel 1997, a 17 anni. Avvicinandoci all’occasione del centenario dell’indipendenza dell’Albania, diventando sempre più forte l’urgenza di dare una risposta a quelle domande che la mostra solleva, ecco che nel 2010 abbiamo iniziato a parlarne ed oggi pare che ci siamo.
Il vostro progetto intende illustrare il rapporto inscindibile tra cristianesimo e libertà: nell'Europa orientale che ha vissuto più di 40 anni di comunismo, ciò è un dato acquisito. Come trasmetterlo qui in Occidente, dove la cristianità viene spesso vista come una minaccia?
Teodor Nasi: È un dato di fatto che questo rapporto, non sempre chiaro e sovente avversato e negato, segni a fondo la storia e l’identità albanese. L’evidenza di questo sorge in noi a seguito della nostra esperienza personale di incontro cristiano e si proietta nella mostra sotto forma di domanda valida per tutti gli albanesi.
Vorrei però osservare che non sussiste, se non apparentemente, una identità tra Albania ed “Europa Orientale”. Una delle discussioni più vive cui si assiste in Albania oggi è proprio questa sulla collocazione culturale tra Oriente e Occidente. È una questione complessa e si discute sul ruolo dell’islam e sull’appartenenza al cristianesimo. Il punto, però, è che tali discussioni sono tanto vivaci nei toni, quanto povere nei contenuti. Si insiste a portare acqua al proprio mulino, leggendo ideologicamente la storia. Ed è parimenti evidente che molti esponenti delle diverse correnti di pensiero in questa diatriba sono dei partigiani di posizioni di potere non albanesi, per non dire anti-albanesi.
Ci ha molto colpito, invece, la perfetta concordia nel porsi di alcune domande tra noi e il più grande scrittore albanese vivente, Ismail Kadaré. Il rischio di dissolvimento identitario, così come egli lo pone, è il punto di partenza della nostra mostra. Se si pensa che stiamo parlando di una persona di tradizione islamica e formazione atea, ecco che il nostro lavoro diventa interessante, perché ci si rende conto che stiamo dialogando idealmente con tutti.
La questione del rapporto tra identità, libertà e religiosità assume toni tanto vivi quanto tragici nel giudizio sul regime comunista. Ciò che è avvenuto in Albania è molto diverso da quanto hanno subito i popoli dell’Unione Sovietica o i paesi del Patto di Varsavia: far coincidere l’esperienza albanese con quella dell’Europa Orientale comunista non è una scelta sostenibile. Se volessimo per forza trovare dei termini di paragone, sarebbero più calzanti la Corea del Nord o la Cambogia di Pol Pot.
Quali sono le conseguenze di quel regime che ancora incidono sull'attualità del vostro paese?
Teodor Nasi: L’effetto culturale principale di questo regime disumano è un inquietante vuoto identitario, che si alimenta ancora con l'incapacità dell’establishment culturale e politico di fare seriamente i conti con quanto è avvenuto nel recente passato. Questa vergognosa mancanza si perpetua da vent’anni. Ci sono delle luminose eccezioni. Oltre a Kadaré, abbiamo scoperto l’opera di Agron Tufa, poeta e direttore dell’Istituto albanese per i crimini del comunismo. Oppure Ardjan Ndreca, professore dell’Urbaniana e direttore di uno degli storici periodici albanesi, riaperto dopo la censura comunista.
Si parte quindi da questi sprazzi di luce e dalla nostra esperienza per divulgare in Occidente con serietà la questione dell’identità albanese. Semplificando si potrebbe dire: ecco dove porta la strada anticristiana intrapresa. Non è tanto la sofferenza che causa l’oppressione di un regime comunista feroce quando è al potere, ma è la sua eredità ad essere oggi ancora angosciante.
Si riparte sempre però, non vivendo nella menzogna, giudicando ciò che è capitato a ciascuno e a tutto il popolo. La mostra a sua volta cerca, forse inadeguatamente, di documentare proprio questo partendo dall’esperienza albanese. Per comprendere in Occidente questo passaggio cruciale, accanto e con più titoli della nostra mostra, io suggerirei la gigantesca opera promossa dalla Fondazione Russia Cristiana, guidata da Padre Romano Scalfi.
(II parte)
Perché è così attuale la figura del vostro eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg? Che valori può trasmettere a noi che non conosciamo l'Albania?
Teodor Nasi: L’identità albanese, così come si è in qualche modo salvata fino ad oggi, trova la prima linfa vitale nell’epopea di questo personaggio eccezionale. Per i popoli balcanici i miti storici sono fondamentali, anche se sovente ridotti a idoli nazionalisti.
Qui parliamo di un grande principe cattolico, l’Athleta Christi dei Papi suoi contemporanei. Per gli albanesi la sua grandezza è riconosciuta ed orgogliosamente esaltata. Noi mettiamo in luce un aspetto della sua epopea che di solito la propaganda nazionalista tende a sottovalutare. Egli combatté in un contesto in cui l’Europa cristiana iniziava a difendersi dal più pericoloso nemico esterno della sua storia. Scanderbeg è immerso in questo contesto ed ha una parte da protagonista in questa lotta. Egli è nel cuore di questa lotta per la salvezza dell’Europa e vi si dedica con ogni forza, a dispetto di ogni calcolo. E, miracolo, gli albanesi lo seguirono uniti. Alcuni lo tradirono, ma ciò che rimane è che in quei trentacinque anni di cinque secoli fa gli albanesi entrarono nella leggenda.
Unità, lotta per la libertà, chiarezza dell’appartenenza, una epopea commovente… È attuale l’orgoglio degli albanesi per ciò che allora furono. È un punto di partenza per giudicare il presente, per dare le ragioni dell’orgoglio. È la viva descrizione degli albanesi immersi eroicamente nella cultura europea occidentale, in maniera tanto naturale da non essere in dubbio la relativa appartenenza.
Uno storico, Francesco Pall, descrive con efficacia l’impatto che ebbe Scanderbeg sui principi italiani suoi contemporanei: “[…] anche uomini di così calcolata avvedutezza, così astuti e privi di scrupoli, in quell’ambiente quattrocentesco, acerbamente egoistico e di generale slealtà, come erano lo Sforza e Ferrante d’Aragona, si mostrarono particolarmente sensibili di fronte a tanta liberalità d’animo e una così schietta lealtà […]”.
Castriota difese la fede del suo popolo con le armi, quasi come un crociato. Non rischia di essere un'immagine un po' "fuori luogo" in un contesto come quello del Meeting dove il dialogo interreligioso e l'amicizia tra i popoli sono all'ordine del giorno?
Teodor Nasi: Scanderbeg era un vero e proprio crociato. Quando prese il potere a Kruja nel 1442, la prima cosa che fece fu quella di passare per le armi tutti i turchi presenti che non si vollero convertire. Fu una crudeltà non fine a se stessa e che non si ripeté più in questi termini. In quel momento, all’inizio della sua lotta, Scanderbeg si schierava secondo il metodo del tempo. Diceva pubblicamente al Sultano che stava iniziando una guerra senza ripensamenti, all’ultimo sangue. Un gesto terribile. Siamo di fronte ad una scelta: o chiudiamo gli occhi o rileggiamo la nostra storia senza censurare nulla, alla ricerca delle radici di ciò che siamo. Per farlo credo che il primo requisito sia essere uomini liberi.
Se la verità storica al Meeting fosse fuori luogo, credo che esso si ridurrebbe in ultima istanza ad una sorta di celebrazione del relativismo. La mia esperienza del Meeting è quella di un luogo libero, slegato dalla schiavitù a teorie politically correct. D’altra parte il cuore dell’uomo è fatto per l’infinito, non per avere successo tra gli uomini che non deve offendere.
Lei vive in Italia da un po' di anni: come giudica i rapporti tra la sua terra d'origine e la sua terra adottiva? In cosa si rassomigliano e in cosa si differenziano i nostri popoli?
Teodor Nasi: Gli albanesi sanno tutto dell’Italia, gli italiani non sanno quasi nulla dell’Albania. C’è un po’ di disequilibrio nella reciproca comprensione. Ma poco male, alla fine conta il fatto che noi qui siamo accolti, anche se non da qualche violento ignorante.
Io faccio l’avvocato penalista in Italia. Ritengo questa professione importante quanto quella del medico. Se questi è colui che tutela la vita dell’uomo, l’avvocato penalista è colui che ne difende la libertà dagli abusi di chi applica la legge e dalle stesse leggi quando sono ingiuste. È una figura che i padri della patria repubblicana concepiscono così perché hanno chiara la luminosa tradizione cui appartenevano, dalle chiare radici cristiane.
Ebbene, oggi in Italia, la vulgata giornalistica e la relativa dominante opinione pubblica vedono nell’avvocato solo uno che “tira fuori di galera i delinquenti”, riducendone l’importanza ad un fastidio che non sanno perché lo si debba sopportare. Pensi che in Albania nel 1945-46 la prima categoria di persone fisicamente eliminata dal regime furono i preti cattolici. Immediatamente dopo i comunisti torturarono ed uccisero i loro avvocati. L’avvocatura fu abolita pochi anni dopo, con la motivazione che si trattava di una professione inutile. In Italia non siamo a questo punto, ma forse stiamo rotolando culturalmente verso una pari concezione.
Pensi anche alla generale sfiducia nella democrazia che inizia a serpeggiare un po’ ovunque. Ci sono in Albania persone che, come alcuni sedicenti ferventi cattolici, dicono stupidaggini come “la democrazia ha fallito”, guardando il vuoto identitario che segna quel paese. È un po’ la vecchia tentazione, miope e segno di schiavitù, di dare la colpa al sistema e non a noi stessi. In Italia si dà analogamente la colpa alla classe politica per la crisi e per il ristagno economico. È un po’ il cercare il male fuori dall’uomo che segna entrambe le culture.
Una cosa positiva che ci unisce è forse che non siamo popoli pusillanimi o servi. In sintesi: gli albanesi hanno un problema di definizione della loro identità. Secondo lei, si è poi riusciti a fare gli italiani?