Matrimoni misti. Nozze vietate se l’italiano non si converte. L’odissea delle donne musulmane che vivono nel nostro Paese. Per sposarsi, costrette a esibire il «passaggio all’islam» del fidanzato, di Giorgio Paolucci

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /07 /2012 - 15:11 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 20/1/2007 gli articoli scritti da Giorgio Paolucci sulla questione della richiesta di conversione all’islam come condizione per la celebrazione di un matrimonio con una donna musulmana. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/7/2012)

1/ Matrimoni misti: Nozze vietate se l’italiano non si converte, di Giorgio Paolucci

«Sono una ragazza marocchina che appartiene ai cosiddetti immigrati di seconda generazione. Ho 22 anni, quando arrivai in Italia ne avevo 6, per questo non parlo correttamente quella che tutti chiamano la mia lingua madre, cioè l’arabo. Il mio fidanzato Alessandro è italiano, abbiamo deciso di sposarci civilmente, ma tra i documenti che l’ambasciata marocchina mi ha chiesto per ottenere il nulla osta al matrimonio, c’è anche un certificato che attesti la conversione del mio ragazzo all’islam. Dato che siamo in Italia e la Costituzione garantisce la libertà religiosa, che senso ha tutto ciò? Non è una violazione di questa libertà?».

Karima si considera vittima di un’ingiustizia, ma molte altre ragazze che vivono qui e sono cittadine di Paesi islamici si trovano nella sua stessa condizione. Oltre al Marocco, anche Egitto, Tunisia, Algeria (solo per citare gli Stati di tradizione musulmana da cui proviene il maggior numero di donne emigrate in Italia) esigono la conversione all'islam del nubendo per concedere il nulla osta alle loro cittadine che vogliono sposarsi civilmente.

«È una conseguenza del peso della sharia sui codici dei Paesi islamici - spiega la professoressa Roberta Aluffi, docente di diritto musulmano all'università di Torino -. Mentre in Italia l’appartenenza religiosa dei nubendi è irrilevante per il matrimonio civile, in quei Paesi si scontra con l’impedimento per diversità di fede. La donna musulmana non può sposare un non musulmano, un divieto che invece non vale per i maschi. Da qui le richieste dei cosiddetti certificati di conversione da parte delle autorità consolari dei Paesi di origine».

Karima non si dà pace: «Non ho fatto del male a nessuno, lavoro onestamente come impiegata, voglio solo sposare la persona che amo e condurre un’esistenza tranquilla e serena. E quando avrò dei figli, insegnerò loro che gli esseri umani sono tutti uguali e che ognuno merita rispetto e libertà. Ma adesso mi sento una straniera in quella che considero la mia patria di adozione».

Karima ha chiesto aiuto a Dounia Ettaib, presidente di Admi, un'associazione che tutela le donne magrebine. «Questi casi sono in aumento, attualmente ne stiamo seguendo venti solo a Milano - spiega Dounia -. Sono la conferma bruciante della condizione di inferiorità a cui sono costrette le donne nei nostri Paesi e della mancanza di libertà con la quale devono fare i conti anche quando vivono in emigrazione. Diciamolo chiaro: sono trattate come cittadine di serie B».

Fakhita Ahwari si è sposata con Salvatore Bruneo nel 1981, in Marocco. Tra le carte che ha dovuto esibire, il consenso del padre (che da qualche anno, con il nuovo codice di famiglia approvato sotto il regno di Mohammed VI, non è più necessario) e il certificato di conversione. «Fu una semplice formalità. Gli chiesero soltanto di pronunciare la shahada (la professione di fede islamica) e di enunciare i cinque pilastri della fede musulmana, il tutto si concluse in pochi minuti. Dopo il matrimonio celebrato in Marocco, l'abbiamo registrato in Italia».

Anche da noi è relativamente facile ottenere il certificato che spalanca le porte al matrimonio con una donna musulmana. Solitamente viene richiesto al nubendo di pronunciare la professione di fede nel Dio unico e in Maometto suo profeta, di elencare i cinque pilastri della fede islamica e di impegnarsi a educare i figli secondo la religione musulmana. Il documento che attesta la conversione viene inviato all'ambasciata, che dopo averlo approvato lo rispedisce al consolato, dando di fatto il semaforo verde al matrimonio.

Al di là degli aspetti burocratici, si pongono problemi sostanziali. Ad esempio, la relativa facilità con cui vengono rilasciati i certificati di conversione (nelle rappresentanze consolari o in alcune moschee) pone più di un interrogativo sul numero dei cosiddetti convertiti all'islam, visto che molti di loro compiono questo passo più per adempiere a esigenze di tipo burocratico che per una reale convinzione spirituale e interiore. Quanti sono i musulmani «autentici» tra le centinaia di uomini che ogni anno vengono ufficialmente annoverati tra gli italiani che hanno deciso di seguire gli insegnamenti di Maometto?

Fakhita, che è responsabile di un’altra associazione per la tutela delle donne marocchine - Acmed - ha seguito vari casi di ragazze marocchine che si sono scontrate con la necessità di esibire il certificato di conversione del fidanzato per ottenere il nulla osta dalle autorità consolari del loro Paese. «Ma spesso l’uomo si rifiuta di piegarsi a questa richiesta, che potrebbe anche essere vissuto come un atto più formale che sostanziale. Non accetta di ‘fingere’ la sua conversione: è una questione di principio». E allora cosa succede? «Succede che i due decidono di ‘ripiegare’ sulla convivenza senza alcun legame giuridico, oppure si lasciano».

Ma c’è chi non si è arreso ed è ricorso alle vie legali perché gli venisse riconosciuto un diritto di libertà. Casi finiti nelle aule di un tribunale civile, e che hanno rappresentato una piccola-grande svolta in questa complessa problematica. È accaduto a Khalfallh Sallohua Bet Khemaies, tunisina, e a Luigi Del Marro che hanno presentato ricorso al Tribunale di Roma. È successo a T. H., marocchina, e all’italiano A. P. in quello di Viterbo.

Entrambe le cause, istruite dall’avvocato Paolo Liberati, si sono concluse con una sentenza che ha ordinato all’ufficiale di stato civile di procedere alla pubblicazione del matrimonio anche in assenza del certificato di conversione all’islam del nubendo (vedere intervista in questa pagina). Il rifiuto di concedere il nulla osta al matrimonio da parte delle autorità consolari è stato dichiarato in contrasto con i principi di libertà religiosa e di uguaglianza affermati dalla Costituzione italiana. Ma per vedersi riconosciuti questi principi elementari, le donne musulmane sono costrette a pagarsi un avvocato.

2/ Il legale: «Io non ci sto. e in tribunale ho vinto due cause», di Giorgio Paolucci

Con due procedimenti ai tribunali di Roma e Viterbo, l’avvocato Liberati è riuscito a ottenere il nulla osta al matrimonio senza il certificato di conversione.

«Il Codice civile italiano è molto chiaro, e anche la Costituzione. Questa è una battaglia di libertà. L’ho combattuta insieme a due donne musulmane per due volte, e due volte l’abbiamo vinta». L’avvocato Paolo Liberati racconta come è riuscito a far sposare civilmente una donna tunisina e una marocchina con due cittadini italiani, senza che costoro dovessero «ricorrere» al certificato di conversione.

Cominciamo dal Codice civile italiano.

In base all’articolo 116, lo straniero che vuole contrarre matrimonio con un cittadino italiano deve presentare all’ufficiale di stato civile una dichiarazione dell’autorità competente del proprio Paese dal quale risulti che nulla osta alle nozze.

Quando nasce il problema?

Quando il consolato o l’ambasciata, per rilasciare il nulla osta al proprio cittadino chiede oltre ai soliti certificati (nascita, residenza, stato libero, ecc.) anche quello di conversione all’islam da parte del nubendo italiano. È una richiesta che, si badi bene, riguarda soltanto le donne straniere, le quali sono tenute ad esibire un documento che certifichi la conversione del fidanzato. Se invece il candidato straniero al matrimonio è un uomo, non è richiesta la conversione della donna italiana.

Come si può procedere in questi casi?

Nelle due cause che ho avviato, presso il Tribunale di Roma e in quello di Viterbo, ho evidenziato che il rifiuto del nulla osta è in contrasto con alcuni principi sanciti dalla Costituzione: la libertà religiosa (articolo 19) e l’uguaglianza e garanzia dei diritti inviolabili (articoli 3 e 2). Il giudice mi ha dato ragione, e ha ordinato all’ufficiale di stato civile del Comune dove le nozze si dovevano celebrare di procedere alle pubblicazioni di matrimonio anche in assenza del nulla osta. Inoltre nel caso della donna marocchina, è stato ottenuto un riconoscimento molto importante sul piano del diritto e delle procedure.

Quale?

Il giudice del tribunale di Viterbo ha chiesto la prova che la mancata concessione del nulla osta dipendesse specificamente da motivi religiosi, e cioè dalla mancata conversione all’islam del nubendo italiano. Su nostra richiesta, l’autorità consolare marocchina ha prodotto una dichiarazione scritta in cui si attesta che il mancato rilascio del nulla osta era dipeso dalla non conversione del fidanzato della signora. È il primo caso in cui viene fatta questa pubblica ammissione, e testimonia la relativa «apertura» del Regno del Marocco rispetto ad altri Paesi islamici.

In che senso?

Alcuni consolati rifiutano addirittura di ricevere la richiesta di nulla osta, oppure il rifiuto viene comunicato solo verbalmente, per non lasciarne traccia. Violando così anche l’inviolabile diritto di informare ed essere informati, e l’obbligo di motivare qualsiasi atto amministrativo.

3/ Il «marchio» della sharia sui matrimoni che nega l’uguaglianza tra uomo e donna e la libertà, di Giorgio Paolucci

La presenza di un crescente numero di immigrati in Italia sta moltiplicando i matrimoni «binazionali». Il problema assume una particolare importanza quando l’unione riguarda un cittadino italiano e uno proveniente da Paesi di cultura e tradizione islamica. In questi casi possono nascere conflitti tra il diritto italiano e quello vigente negli Stati in cui le norme hanno un’origine sharaitica, cioè si ispirano alla legge islamica, che stabilisce la supremazia dell’uomo sulla donna e limita pesantemente i diritti di quest’ultima. «In questo caso – spiega Roberta Aluffi, docente di diritto musulmano all’università di Torino – il giudice chiamato ad affrontare i singoli casi può rigettare le norme di origine sharaitica perché lesive del principio di uguaglianza tra i sessi, e dunque argomentando sulla base della loro contrarietà all’ordine pubblico».

Secondo la sharia, recepita in maniera più o meno esplicita nei codici di molti Paesi islamici, un uomo di fede musulmana può sposare una donna appartenente a una religione del Libro, cioè ebrea o cristiana, mentre una donna islamica può unirsi in matrimonio solo con un uomo che condivida la sua stessa fede. In generale, spiega la professoressa Aluffi, «la musulmana che sposa un non musulmano sarà spesso oggetto di pressioni, minacce e talora di violenze da parte della famiglia. E comunque la possibilità che il matrimonio sia riconosciuto nel Paese islamico dipende dalla conversione all’islam del marito».

Infine, la non musulmana che sposa un musulmano non è obbligata a convertirsi, ma in caso di separazione o divorzio perde la tutela dei figli e, se resta vedova, non può ereditare dal marito.

4/ I rischi dei matrimoni misti

I casi raccontati in questa pagina sono tutti relativi a persone che hanno deciso di contrarre matrimonio civile. Nel caso del matrimonio religioso, i problemi si moltiplicano. Il Direttorio di pastorale familiare della Cei (1993) invita i sacerdoti a «richiamare i nubendi cattolici sulle difficoltà cui potrebbero andare incontro in ordine alla espressione della loro fede, al rispetto delle reciproche convinzioni, all’educazione dei figli». Nel 2005 la presidenza della Cei intervenne con una nota in cui si chiede prudenza e fermezza: «Le implicazioni esistenziali ed ecclesiali di questa problematica suggeriscono prudenza e fermezza e richiedono una affermata consapevolezza dell’identità cristiana e della visione cattolica sul matrimonio e la famiglia, anche in ragione delle conseguenze che ne derivano sul piano religioso, sociale e del dialogo interreligioso».

Recentemente si è espresso sulla questione monsignor Lino Belotti, vescovo ausiliare di Bergamo e presidente della Commissione Cei per le migrazioni. «Le due culture sono profondamente diverse: i musulmani hanno un diverso intendimento del rapporto tra marito e moglie, dei diritti della donna e della educazione dei figli. Perché noi sacerdoti non dovremmo mettere in guardia chi vuole formare una famiglia mista?».