E alle origini fu la famiglia. Sin dai primi secoli cristiani è all’interno del nucleo domestico che si testimonia la conversione, di Fabrizio Bisconti
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 3/6/2012 un articolo scritto da Fabrizio Bisconti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/6/2012)
Il carattere fondante della vita cristiana dei primi secoli vuole che i fedeli vivano, innanzi tutto, la dimensione ecclesiale e comunitaria, senza, comunque, dimenticare il contesto sociale di pertinenza, né, tantomeno, la famiglia, in cui testimoniano quotidianamente la loro conversione. E anzi, la vita coniugale, gli affettuosi rapporti con i familiari e, specialmente, con i figli, il lavoro inteso come obbligo sociale, servono a dimostrare l’adeguamento totale al dettato evangelico, inteso come nuova idea di amore, di pace e di uguaglianza fraterna.
Innovazione e tradizione si intrecciano nel pensiero dei cristiani delle origini, a cominciare dall’ideologia matrimoniale. Clemente Alessandrino, al riguardo, ricorda che «dimostra di essere veramente uomo colui che sceglie di non vivere da solo, ma che, invece, si mette alla prova nel matrimonio, nella procreazione, nella cura domestica, mettendo da parte ogni preoccupazione o dolore e senza mai dimenticare l’amore di Dio» (Protreptico, 7, 12, 70).
Da queste parole si apprende come la famiglia rappresenti la cellula elementare e genetica della societas christiana e, dunque, della ekklesìa, intesa come una seconda comunità, nella quale il cristiano mette in pratica il progetto di crescita etica, che perfeziona i rapporti con il coniuge e i congiunti, percorrendo il cammino spirituale che lo avvicina progressivamente a Dio.
Alla base di questo processo e di questa rinnovata concezione della famiglia, intesa come Chiesa, si colloca il vincolo matrimoniale che - secondo Aristide - deve essere celebrato all’insegna della legittimità, astenendosi da ogni gesto impuro (Apologia, 15, 6), secondo un naturale spirito cristiano, che viene pienamente vissuto, come tutti gli altri uomini, che si sposano e generano figli (Atenagora, Supplica, 33).
Ma il matrimonio cristiano - secondo quanto precisa Ignazio di Antiochia (A Policarpo, 5, 2) - doveva essere celebrato «con il consenso del vescovo, affinché le nozze avvengano secondo il Signore e non secondo la concupiscenza». Il vescovo, dunque, sin dal I secolo, entra a far parte dei protagonisti della celebrazione del matrimonio, senza intaccare la dinamica giuridica e civile del tempo, firmando il documento (tabulae nuptiales) come testimone. Ma, sin dalle origini, gli sposi partecipano della stessa Eucarestia e trovano nella comunità la benedizione della preghiera, guardando alla comunione con il Cristo come al simbolo costitutivo della nuova famiglia, che emula, appunto, l’unione del Cristo con la Chiesa.
Tertulliano, nel II secolo, fotografa questa nuova e più ricca concezione del vincolo matrimoniale: «Come potrò esporre la felicità di quel matrimonio che la Chiesa sigilla, l’eucarestia conferma, la benedizione suggella, che gli angeli annunciano e il Padre approva? Neppure su questa terra — infatti - i figli si sposano, in maniera onesta e giusta, senza il consenso del padre (...) gli sposi sono fratelli l’uno per l’altro e si servono reciprocamente; non deve sussistere nessuna distinzione tra carne e spirito ed, anzi, sono due in una sola carne (...). Insieme pregano, insieme si inginocchiano ed insieme digiunano: l’uno insegna all’altro, l’uno esorta l’altro, l’uno sostiene l’altro. Sono uguali nella Chiesa di Dio, uguali nell’eucarestia, nelle preoccupazioni, nelle persecuzioni, nelle consolazioni. Nessuno ha segreti per l’altro, nessuno evita l’altro, nessuno è di peso per l’altro. Visitano insieme i poveri e li sostengono, con leggerezza, senza scrupoli. Non si fanno il segno della croce di nascosto e cantano, ad alta voce, le lodi al Signore congiuntamente. Cristo li guarda, gioisce e li benedice» (Alla moglie, 2, 8, 6).
Alla base del matrimonio sono l’indissolubilità e la fedeltà, intese non come rigorose leggi, ma come risposta urgente e naturale all’insegnamento di Cristo. E questo legame così forte si estenderà anche ai figli, creando una trama fitta, che caratterizzerà i rapporti familiari. «Chi sono i due o tre riuniti in nome di Cristo, in mezzo ai quali sta il Signore?» si interroga Clemente Alessandrino (Protreptico , 3, 10, 68). «Non sono forse, l’uomo, la donna e il figlio, dal momento che i due sposi sono uniti da Dio?». Se la procreazione è il fine naturale del matrimonio la coppia degli sposi non fa altro che collaborare al piano salvifico divino.
Per questo sono severamente condannati l’aborto, la soppressione dei neonati e il grave fenomeno dell’esposizione dei bambini: «Non ucciderai tuo figlio con l’aborto, né sopprimerai il tuo bambino; ogni essere nato da Dio riceve un’anima, per cui se viene ucciso, sarà vendicato dalla giustizia divina» (Costituzioni apostoliche, 7, 3, 2). I genitori seguiranno, da vicino, la crescita fisica e spirituale dei propri figli e «non abbandoneranno mai la loro mano, insegnando sempre il timore di Dio» (Epistola di Barnaba, 19, 5) e mettendo in pratica il suggerimento paolino «allevate i vostri figli nell’educazione e nella disciplina del Signore » (Efesini, 6, 4).
L’attenzione delle prime comunità cristiane, che considerano la famiglia come un pilastro portante della società cristiana, si volge anche verso quei fratelli che, per il lutto, vivono una condizione di solitudine. È per questi che la comunità - in certi casi - si sostituisce alla famiglia. Se Clemente Romano sprona «a rendere il suo diritto all’orfano e giustizia alla vedova» (Epistola I ai Corinzi, 8, 4), Ignazio di Antiochia addita coloro che «né si curano della vedova, né dell’orfano» (Agli Smirnesi, 6, 2).
La preghiera comune sostanzia l’amore e la pace familiare, secondo quanto ricorda il Crisostomo: «Fate insieme le vostre preghiere. Che ciascuno si rechi in chiesa e che il marito chieda alla moglie ciò che vi è stato detto e letto e lei faccia altrettanto con il marito quando torna a casa» (Omelia sull’epistola agli Efesini, 20, 9).
Le rappresentazioni pittoriche catacombali o scolpite sui sarcofagi hanno tramandato i volti di intere famiglie raffigurate nel momento suggestivo della preghiera. Così, nel cimitero romano dell’ex vigna Chiaraviglio, nel complesso di San Sebastiano sulla via Appia, è rappresentato il gruppo familiare incoronato dal Cristo in un colorato affresco della fine del IV secolo; così nelle catacombe di San Gennaro a Napoli, nell’inoltrato VI secolo, i coniugi Theotecnus e Hilaritas, assieme alla figlia Nonnosa, sono “fotografati”, in abiti preziosi, mentre pregano, tra quattro candele accese.
Anche gli epitaffi entrano nel merito dei rapporti familiari, a cominciare dalla menzione del matrimonio, inteso come un vivere insieme, un’unione e una sorte comune fortemente vissuta, come si legge in uno struggente ricordo della moglie da parte del coniuge: Dulcis in aeternum mihimet iunctissime coniux (Inscriptiones Christianae Urbis Romae [Icur], V, 14.076b).
Nel matrimonio cristiano non c’è posto per dissapori, liti, collere, gelosie,ma tutto procede all’insegna della buona concordia e della somma carità, tanto che negli epitaffi la moglie viene affettuosamente ricordata come dolce e cara, ma anche casta, fedele, come si apprende da un suggestivo titolo funerario: Coniunx Albana quae mihi semper casta pudica (Icur, I, 1.496). Anche la moglie, nei confronti del marito, usa termini elogiativi e commoventi, tanto da definirlo misericordioso e di conforto per tutti: Qui cum esset fuit solacius misericors omnibus notus (Icur, II, 4.165).
Qualche iscrizione funeraria fa esplicito cenno alla vita familiare, riferendosi specialmente all’educazione impartita dai genitori e, in particolare, dalla madre: Instituit natos vitam servare serenam / dum docet exemplis semper amare Deum (Icur, I, 3.902a, 9-10). Commovente, a questo riguardo, risulta l’epitaffio dedicato dal marito alla sua signora «Virginia grazie alle cui buone fatiche risplendono i miei figli. Da lei ho avuto in undici anni dieci figli. Ella visse trenta anni, ma avrebbe meritato di viverne cento» (Icur, III, 9.244).
Ancora più struggenti i ricordi dei bambini defunti da parte dei genitori addolorati. I piccoli sono definiti dolci, innocenti, buoni, tanto che uno è pianto in quanto Infanti mellitae ac dulcissimae (Icur, I, 3.528). Per i più grandi, si fa riferimento alla loro intelligenza e alla loro cultura precoce, come nel caso di «Dalmatius, di grande ingegno e sapienza. Il padre non poté godere del ragazzo neppure per sette anni. Conosceva il greco e, senza che nessuno glielo avesse insegnato, il latino» (Icur, I, 1.978).
Ancora più emblematico il destino di «Boetius, un giovane poeta di undici anni, che, per il grave e severo comportamento, sembrava un anziano. Non amò il lusso, le mode, colloquiava con i sapienti, amava ardentemente la poesia» (Icur, II, 4.187).
Ma le iscrizioni funerarie ci parlano anche degli altri membri della famiglia, come i nonni che, spesso, dedicavano, loro malgrado, i titoli ai loro giovani nipoti defunti, ma è più ricorrente constatare che i nonni ricevono l’epitaffio dai nipoti che ricordano gli anziani come pii e dolcissimi.
Le testimonianze letterarie, iconografiche ed epigrafiche ci parlano del nucleo familiare come un microcosmo che riflette, in prima battuta, l’intera comunità e, più in generale, la societas christiana. I legami familiari stabiliscono una trama ispirata alla concordia, alla solidarietà, all’affetto, talora dolcissimo e commovente.
E questa trama è intessuta di quell’amore per il Cristo che è il vero regista, lo sceneggiatore sapiente di una vita consacrata, senza affanni e senza liti e colma di quella preghiera ininterrotta, che permeava la vita e i rapporti dei fratelli della prima ora.