Bibbia, scuola e catechesi (IX lezione). File audio di un corso tenuto da Andrea Lonardo
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio la registrazioni della nona lezione tenuta da Andrea Lonardo presso l'Istituto di scienze religiose Ecclesia mater per il corso Bibbia, scuola e catechesi, il 11/5/2012. Per altri files audio, come per le precedenti lezioni, vedi la sezione Audio e video.
Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2012)
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La dimensione esegetica con esemplificazione in Genesi 1-3
1/ L’uomo, il culmine
2/ L’uomo creatura (cause prime e cause seconde)
3/ L’uomo, il “terrestre”
4/ L’uomo e la sua “anima”
5/ L’uomo e il riposo: il sabato
6/ L’uomo e la donna
7/ L’uomo e il linguaggio
8/ Il peccato di origine
9/ De-mitizzazione in Genesi e linguaggio per immagini: il genere letterario di Genesi
10/ Parlare di Genesi al positivo e non al negativo
11/ Creazione e redenzione: è al singolare che dobbiamo parlare del mistero cristiano
12/ L’iconografia cristiana: la Sistina di Michelangelo (la creazione del sole e della luna e il posteriore; la creazione di Adamo, la creazione di Eva)
-su questo vedi B. Costacurta, Genesi 1-4: creazione, peccato e redenzione, meditazioni della prof.ssa Bruna Costacurta su www.gliscritti.it (Percorsi tematici, Sacra Scrittura)
1/ L’uomo, il culmine
l’uomo creato per se stesso e non in vista di altro!
Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali
[23] PRINCIPIO E FONDAMENTO.
L'uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l'uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l'uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo. Perciò è necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create (in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito), in modo che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l'onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati.
2/ L’uomo creatura (cause prime e cause seconde)
da F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale
«In un qualche angolo remoto dell’universo [...] c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della “storia universale”: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire.
Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente»
-creazione non solo come atto iniziale, ma come mantenere in vita; cfr. Dei Verbum, 3: Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20)
dalle conferenze sulla catechesi tenute il 15 ed il 16 gennaio 1983 a Lione e Parigi dell’allora cardinal Joseph Ratzinger (su www.gliscritti.it )
Di tanto in tanto compare il timore che una troppo forte insistenza su tale aspetto della fede [il Dio creatore] possa compromettere la cristologia. Considerando qualche presentazione della teologia neoscolastica, questo timore potrebbe sembrare giustificato.
Oggi, tuttavia, è il timore inverso che mi sembra giustificato. La emarginazione della dottrina della creazione riduce la nozione di Dio e, di conseguenza, la cristologia. Il fenomeno religioso non trova, allora, altra spiegazione al di fuori dello spazio psicologico e sociologico; il mondo materiale è confinato nel campo di indagine della fisica e della tecnica. Ora, soltanto se l’essere, ivi compresa la materia, è concepito come uscito dalle mani di Dio e conservato nelle mani di Dio, Dio è anche, realmente, nostro Salvatore e nostra Vita, la vera Vita.
da Francesco d’Assisi, Cantico delle creature
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si', mi' Signore, per sor Aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si', mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po' skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
da Giuseppe Angelini, Il figlio, Vita e pensiero, Milano
Il linguaggio corrente del catechismo dice (o diceva, si tratta infatti di formule che oggi solo raramente e a stento vengono ripetute) che Dio stesso crea immediatamente l’anima del bambino; dai genitori sarebbe generato soltanto il corpo. Tale linguaggio certo non soddisfa del tutto; esso dovrebbe essere precisato, onde evitare quella rappresentazione dualistica di anima e corpo che invece facilmente insinua. Più in particolare, occorrerebbe correggere la rappresentazione dell’anima quale “cosa” immateriale e sottile che, creata da Dio in altro luogo, verrebbe poi immediatamente dal cielo al corpo del bambino. E tuttavia il linguaggio del catechismo esprime, nel suo nucleo essenziale, una verità indubitabile: il figlio non è il risultato degli atti dei genitori, né più in generale è il risultato del complesso delle cause mondane che pure concorrono a determinare la sua nascita e a qualificare la sua concreta identità storica.
Neppure il pensiero “laico”, che pure evita di pronunciare il nome di Dio, può evitare di affermare una tesi del genere: il figlio della donna e dell’uomo è persona, è dunque soggetto spirituale degno di infinito rispetto. La sua dignità si impone al riconoscimento dei genitori e in genere di tutti gli uomini; egli è irriducibile agli atti che pure soli ne hanno consentito la nascita. Tanto più è irriducibile alle intenzioni di coloro che pure lo hanno voluto.
da Dominique Lambert, articolo Lemaître, Georges Edouard, in Dizionario enciclopedico di scienza e fede, Urbanian University Press-Città nuova, Città del Vaticano-Roma, 2002, II, pp. 1909-1912
[Per Georges Lemaître, sacerdote belga, cosmologo, professore all’Università Cattolica di Lovanio, 1894-1966,] l’origine dello “spazio-tempo-materia” poteva essere descritta utilizzando la termodinamica e la meccanica quantistica. Egli propone [nel 1931] si possa trattare della disintegrazione di un unico quantum che riunisce in sé tutta “l’energia-materia” dell’universo [...] In effetti, a partire dalla fine degli anni 1940, la visione cosmologica di Lemaître [...] e quelle che integreranno l’idea di una singolarità iniziale, di un Big Bang (come quella di Gamow), non beneficeranno a quell’epoca di una conferma soddisfacente, e furono quindi soppiantate da una teoria rivale: la “teoria dello stato stazionario” di Bondi, Hoyle e Gold. [...] Questa visione del mondo piacque enormemente a quegli scienziati che ritenevano, a torto, che il Big Bang, implicasse necessariamente una scelta metafisica o religiosa in favore di una creazione. Il termine stesso di Big Bang, che non fu mai utilizzato da Lemaître, fu introdotto del resto da Fred Hoyle per designare ironicamente il “fuoco d’artificio iniziale” suggerito dal cosmologo di Lovanio. Le idee di Lemaître, ignorate o criticate da buona parte degli scienziati tra il 1945 e il 1960, balzarono alla ribalta solo con la scoperta di Penzias e Wilson, agli inizi degli anni sessanta, che mettevano in luce l’esistenza di una “radiazione termica di fondo” il cui valore teorico era stato predetto da Dicke e Peebles, osservazione, questa, che risultava essere adesso incompatibile con la teoria dello stato stazionario.
3/ L’uomo, il “terrestre”
4/ L’uomo e la sua “anima”
da Archivi del Nord di M.Yourcenar (Einaudi, Torino, 1997, pp. 9-13)
Ma già compare, un po’ ovunque, l’uomo. L’uomo ancora sparso, furtivo, talora disturbato dalle ultime spinte dei ghiacciai incombenti, e che ha lasciato ben poche tracce in quella terra senza caverne e senza rocce. [...]
Un bruto certamente, l’uomo della pietra spaccata e della pietra levigata, poiché quel bruto è ancora in noi, ma quel Prometeo selvaggio ha inventato il fuoco, la cottura degli alimenti, il bastone spalmato di resina che illumina la notte. Meglio di noi ha saputo distinguere le piante commestibili da quelle che uccidono, e da quelle che invece di nutrire provocano strani sogni. Ha osservato che il sole d’estate tramonta più a nord, che certi astri girano in tondo attorno allo zenith e si muovono in processione regolare lungo lo zodiaco, mentre altri vanno e vengono, mossi da impulsi capricciosi che si ripetono dopo un certo numero di lunazioni o di stagioni; ha utilizzato queste conoscenze nei suoi viaggi diurni o notturni. Quei bruti hanno senza dubbio inventato il canto, compagno di lavoro, di piacere e di sofferenza fino all’epoca nostra, in cui l’uomo ha quasi completamente disimparato a cantare. Contemplando i ritmi grandiosi che essi esprimevano ai loro affreschi, ci sembra di poter indovinare le melopee delle loro preghiere o delle loro magie. L’analisi dei terreni in cui seppellivano i loro morti rivela che essi li coricavano su tappeti di fiori dai disegni complicati, forse non molto diversi da quelli che al tempo della mia infanzia le vecchie stendevano sul percorso delle processioni. Quei Pisanello o quei Degas della preistoria hanno conosciuto lo strano impulso dell’artista che consiste nel sovrapporre ai brulicanti aspetti del mondo reale una folla di raffigurazioni nate dal suo spirito, dal suo occhio e dalle sue mani.
Dopo appena un secolo di ricerche dei nostri etnologi cominciamo a sapere che esistono una mistica e una saggezza primitive, e che gli sciamani si avventurano su strade attraverso la notte. A causa della nostra superbia, che di continuo nega agli uomini del passato percezioni simili alle nostre, rifiutiamo di vedere negli affreschi delle caverne qualcosa di più che i frutti di una magia utilitaria: i rapporti fra l’uomo e la bestia da una parte, fra l’uomo e la sua arte dall’altra, sono più complessi e conducono più lontano. [...] Quelle genti ci somigliano: posti di fronte a loro, riconosceremmo nei loro tratti tutte le sfumature che vanno dalla stupidità al genio, dalla bruttezza alla beltà. L’uomo di Tollsund, contemporaneo dell’età del ferro danese, mummificato con la corda al collo in uno stagno dove i cittadini benpensanti dell’epoca gettavano, pare, i loro traditori veri o presunti, i loro disertori, i loro effeminati, in offerta a non si sa quale dea, ha uno dei visi più intelligenti che sia dato vedere: quel giustiziato ha certo guardato molto dall’alto quelli che lo giudicavano.
L’allora prof. di teologia C. Ruini, scrisse due articoli sulla rivista “Rassegna di teologia” sul tema dell’anima e sulla necessità di utilizzare questo termine, affermando, in sintesi, che l’anima non è un tema opinabile, a motivo della questione della vita eterna che permane già ora, in attesa della resurrezione finale, nei nostri morti.
da J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, 1974
Possedere un anima spirituale vuol dire precisamente essere tassativamente voluti, individualmente conosciuti ed amati da Dio; avere un anima spirituale significa essere creatura chiamata da Dio ad un perenne dialogo con lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli... (Ciò) viene espresso mediante un linguaggio più spiccatamente storico ed attuale mediante la frase essere un interlocutore di Dio... L’immortalità dell’uomo si fonda sulla di lui dialogica polarizzazione su Dio, il cui amore è l’unica forza capace di accordare la vita eterna... Non è possibile in definitiva fare una netta distinzione fra naturale e soprannaturale.
dall’intervento di Benedetto XVI nella Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell'ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, del 23 settembre 2011
L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybrisdel potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, “perde” sempre di più la vita.
La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui. Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno. Naturalmente di questa testimonianza fondamentale per Dio fa parte, in modo assolutamente centrale, la testimonianza per Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che è vissuto insieme con noi, ha patito per noi, è morto per noi e, nella risurrezione, ha spalancato la porta della morte. Cari amici, fortifichiamoci in questa fede! Aiutiamoci a vicenda a viverla!
dall’intervista rilasciata da Benedetto XVI a Radio Vaticana ed a tre televisioni tedesche il 13 agosto 2006
Abbiamo il nostro compito di mettere meglio in rilievo ciò che noi vogliamo di positivo. E questo dobbiamo anzitutto farlo nel dialogo con le culture e con le religioni, poiché il continente africano, l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. E’ importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. E reciprocamente è importante che il nostro mondo laicista si renda conto che proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente, ma occorre una razionalità più ampia, che vede Dio in armonia con la ragione, dobbiamo mostrare che la fede cristiana che si è sviluppata in Europa è anche un mezzo per far confluire ragione e cultura e per tenerle insieme in un’unità comprensiva anche dell’agire. In questo senso credo che abbiamo un grande compito, di mostrare cioè che questa Parola, che noi possediamo, non appartiene – per così dire – ai ciarpami della storia, ma è necessaria proprio oggi.
da «L’uomo supera infinitamente l’uomo». Breve riflessione sul transumano, di Fabrice Hadjadj (anche su www.gliscritti.it)
L’essere umano è l’animale che si meraviglia di esistere. Siamo delle scimmie evolute, dei primati giunti al culmine della perfezione? Dubito che sia così. Perché il culmine della perfezione per il primate sta nell’agilità suprema con la quale spostarsi dal ramo o nella facilità assoluta di procurarsi delle banane. Essa non sta in questa capacità di meravigliarsi, in questa facoltà che vi lascia gli occhi sgranati, stupefatti, indifesi di fronte alla vertigine di essere vivi. Essa non sta in questa inclinazione alla contemplazione che, ad esempio, vi fa provare una tale meraviglia di fronte al manto striato della tigre che vi dimenticate di proteggervi contro i suoi graffi.
Alcuni dicono che l’affermazione dell’uomo, nel corso dell’evoluzione, sarebbe dovuta alla sua maggiore capacità di adattarsi al mondo. Eppure l’uomo sembra, al tempo stesso, un grande disadattato: invece di vivere pacificamente secondo l’istinto, cerca un senso, decifra il mondo come se fosse una foresta di simboli, desidera un al di là, un al di là non necessariamente come un altro mondo, ma come un modo di penetrare nel segreto di questo mondo, di intenderlo nel suo mistero, di bere alla sua fonte.
Noi tutti, quindi, ministri o agenti di polizia, ci sentiamo come dei passeggeri o dei passanti. Non solamente perché siamo mortali, ma anche perché nella nostra stessa vita desideriamo un superamento, non necessariamente un superamento verso un altrove (perché questo non sarebbe che turismo, e il turismo, nella spiritualità, è più frequente di quanto si immagini). Noi desideriamo piuttosto un superamento nell’intensità del nostro modo di essere qui e ora, gli uni verso gli altri, cercando infine di essere, gli uni con gli altri, senza ipocrisia, in una verità e in una amicizia profonda (confessiamolo, grattando un po’ la vernice del decoro: siamo ancora lontani da questa verità e da questa amicizia, perché queste presupporrebbero che la caduta di tutte la maschere e la messa a nudo del nostro spirito). [...] Quando si pretende di fondare l’umanesimo sull’uomo stesso accade la medesima cosa che si verifica quando si pretende di erigere un edificio senza alcun appoggio esteriore: l’edificio crolla. Per elevare un palazzo, c’è bisogno di un terreno. Affinché l’uomo si elevi, ha bisogno di un Cielo. Per Cielo intendo una speranza. Gli altri animali si generano attraverso l’istinto. L’uomo ha bisogno di ragioni per dare la vita. Senza queste ragioni, senza una speranza, certamente egli non si suiciderà – perché vi è in lui questa forza d’inerzia che lo spinge a continuare la sua corsa, come un solido nello spazio vuoto –, ma quantomeno non donerà più la vita, perché non vede la ragione di fare figli, se tutto è destinato alla putrefazione. La speranza non è una ciliegia sulla torta, essa deve dichiararsi alla nostra stessa carne, al nostro stesso sesso. Gli Ebrei lo sanno bene: è nel loro sesso che essi trovano il segno dell’Alleanza con l’Eterno, perché, se io non credo in questa Alleanza, per quale ragione continuare l’avventura umana, per quale ragione ostinarsi ad alimentare il carnaio? Ecco ciò che caratterizza l’uomo tra tutti gli animali: egli deve elevarsi verso il Cielo prima di poter dormire con la sua donna.
È in questo – molto semplicemente – che l’uomo supera infinitamente l’uomo. Egli cerca le ragioni per vivere al di là di se stesso. Egli aspira a una gioia che non possiede ancora veramente e di cui attende il compimento in qualche cosa – diciamolo – di «soprannaturale». Noi possiamo riprendere qui un verbo inventato da Dante, e dire che l’uomo è fatto per «trasumanarsi».
da C.S. Lewis, Le Cronache di Narnia
«Infine il leone tacque e prese a camminare avanti e indietro in mezzo agli animali. Di tanto in tanto (la cosa sorprese non poco Digory) si avvicinava a due di essi, sempre due alla volta, un esemplare maschio e un esemplare femmina, e strusciava il suo naso contro il loro. Scelse due castori fra i castori, due leopardi fra i leopardi, un cervo maschio e un cervo femmina fra i cervi, e altri animali, tralasciando però alcune specie. Le coppie che aveva toccato con il naso lasciarono il loro gruppo all’istante e lo seguirono. Infine si fermò e tutti gli animali che aveva prescelto formarono un grande cerchio intorno a lui, mentre gli altri cominciarono a disperdersi in lontananza».
Aslan infonde negli animali parlanti uno “spirito di vita” ed essi diventano coscienti di sé:
«Molti animali si sedettero sulle zampe posteriori e moltissimi, quasi volessero ascoltare meglio, piegarono leggermente la testa su un lato. Il leone apri la bocca, ma non emise alcun suono. Respirò invece profondamente, un respiro lungo, quasi tiepido, che sembrò scuotere tutte le creature lì riunite come il vento scuote un filare di alberi. Lassù, lontano, dietro la cortina del cielo azzurro, le stelle cantarono di nuovo. Una musica complessa, pura, quasi fredda. Poi un lampo di fuoco comparve, simile a una saetta. Opera del leone, oppure partorito dal cielo: questo non fu dato saperlo. Il lampo non incenerì nessuno, ma il sangue dei bambini fremette ed essi udirono la voce più fiera che avessero mai sentito. - Narnia, Narnia, Narnia, svegliati. Ama. Pensa. Parla. Che gli alberi camminino. Che gli animali parlino. Che le acque siano sacre».
Alla parola di Dio risponde la voce dell’uomo, creato per il dialogo con l’Infinito, creato dalla Parola, unico essere capace di corrispondere con parole alla Parola:
«Quella era la voce del leone. I bambini avevano sempre saputo che prima o poi il leone avrebbe parlato, ma quando sentirono la sua voce provarono un’emozione fortissima.
Dal folto degli alberi fecero capolino dèi e dee dei boschi, accompagnati da fauni, satiri e gnomi. Dalle acque emerse il dio del fiume, con le naiadi sue figlie.
E tutte le creature e tutti gli animali, con voci diverse, alte o basse, cupe o chiare, salutarono con queste parole: - Salute, o Aslan. Abbiamo udito e ti obbediamo. Noi siamo svegli. Noi amiamo. Noi pensiamo. Noi parliamo. Noi sappiamo.
- Veramente io vorrei saperne di più - disse una voce nasale in tono gentile. E i bambini sobbalzarono, visto che era stato il cavallo del cocchiere a parlare.
- Bravo Fragolino! - esclamò Polly. - Sono proprio contenta che tu sia stato prescelto per diventare un animale parlante. - E il cocchiere, che si trovava accanto ai ragazzi, aggiunse: - Che mi venga un colpo! Però l’ho sempre detto che quel cavallo ha un sacco di buon senso!».
Aslan manifesta che tutta l’opera del creato è stata fatta in vista gli animali parlanti. Più ancora fa dono agli uomini della coscienza di sé. Più ancora, fa loro dono di se stesso:
«- O nobili creature, io vi faccio dono di voi stessi - annunciò la voce severa ma lieta di Aslan. - Da ora e per sempre la terra di Narnia vi apparterrà. Ecco, io vi consegno le foreste, i frutti, i fiumi. Vi dono le stelle, vi dono me stesso».
Al sorgere della relazione e dell’amore, corrisponde anche la capacità di ridere delle situazione! Esiste il riso perché si può promettere e non mantenere, perché burla e giustizia vanno di pari passo con la parola:
«Anche le bestie mute che non ho prescelto vi appartengono. Trattatele con gentilezza e con amore, ma non ricadete mai nei loro costumi, a meno che non vogliate cessare di essere animali parlanti. Perché voi siete stati scelti fra loro, e fra loro potete ritornare. Vi esorto a non farlo!
- No, Aslan, non lo faremo, non lo faremo - gridarono tutti all’unisono. Poi una cornacchia impertinente aggiunse: - E ci puoi giurare. - Intanto tutti avevano finito di osannare Aslan, e cosi quelle parole rimbombarono come una grancassa nel silenzio assoluto. Forse vi siete trovati anche voi in una situazione simile, magari a una festa, dove gli ospiti, quando meno te lo aspetti... Comunque, tornando a noi, la povera cornacchia era cosi imbarazzata che nascose immediatamente il capo sotto l’ala, come se stesse dormendo. Allora tutti gli altri animali cominciarono ad emettere degli strani suoni, che era poi il loro modo di ridere, anche se ovviamente nessuno di noi ha mai sentito una cosa simile nel nostro mondo. Dopo un po’ tutte le creature cercarono di darsi un contegno, ma Aslan disse: - Ridete pure e non abbiate timore. Ora che non siete più muti e privi d’intelletto, non avete più bisogno di essere seri. Perché la burla, cosi come la giustizia, va di pari passo con la parola!
Cosi, finalmente, si sciolsero le righe e gli animali cominciarono ad allontanarsi per conto loro. E nell'aria si poteva respirare una tale felicità che la cornacchia si fece coraggio e andò a posarsi fra le orecchie di Fragolino, dicendo: - Aslan! Aslan! Sono stata la prima a fare una burla? Lo sapranno tutti che sono stata io a fare la prima burla?
- No, piccola amica - rispose il leone - tu non hai fatto la prima burla. Tu sei la prima burla. - Allora tutti scoppiarono a ridere di nuovo, più forte di prima. Anche la cornacchia si unì a quelle risa, per nulla offesa dalla risposta di Aslan, e rise forte finché Fragolino scosse la testa, facendole perdere l'equilibrio. Stava per cadere a terra quando si ricordò di aver ricevuto in dotazione un bel paio di ali, e le aprì in tempo».
5/ L’uomo e il riposo: il sabato
da Isidor Grunfeld, Lo Shabbath
Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche esserne schiavi. È detto nel Talmud che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa come due rocchetti di filo, sino a quando il Creatore ordinò: "Basta".
L'attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché deliberatamente Egli cessò la Sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore, che liberamente controlla e limita la creazione da Lui attuata secondo la Sua volontà.
Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L'ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath, nel modo prescritto dalla Torah, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio.
E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell'uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L'uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso.
Osservando lo Shabbath, l'ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso.
da Achad Ha-am, Al parashat derakim, III, c. 30 (citato in Le livre du chabbat. Recueil de textes de la letterature juive, a cura di A. Pallière- M. Liber, Paris 1974, p. 61; Achad Ha-Am= “uno del popolo” è pseudonimo di Asher Hirsch Ginsberg, 1856-1927)
Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele.
da Y. Vainstein, The Cycle of the Jewish Year. A Study of the festivals and of Selections from the Liturgy, Jerusalem, 1980, p. 89
Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato.
da Chajjim Nachman Bialik (1873-1934), Epistole (Iggherot), 5 voll.1938-39
Senza lo Shabbat, né Israel, né Erez Israel, né la cultura ebraica possono sopravvivere
da Dies Domini di Giovanni Paolo II
46. Quando, durante la persecuzione di Diocleziano, le loro assemblee furono interdette con la più grande severità, furono molti i coraggiosi che sfidarono l'editto imperiale e accettarono la morte pur di non mancare alla Eucaristia domenicale. E il caso di quei martiri di Abitine, in Africa proconsolare, che risposero ai loro accusatori: «È senza alcun timore che abbiamo celebrato la cena del Signore, perché non la si può tralasciare; è la nostra legge»; «Noi non possiamo stare senza la cena del Signore». E una delle martiri confessò: «Sì, sono andata all'assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana».
N.d.R. «Sine dominico non possumus» («senza “la domenica”, senza “la cena del Signore”, non possiamo vivere») gridarono i martiri di Abitene dinanzi ai persecutori che chiedevano loro di rinunciare alla celebrazione eucaristica (l’imperatore Diocleziano scatenò nel 303-304 d. C. una violenta persecuzione; ad Abitene, nell’attuale Tunisia, alcuni cristiani furono sorpresi durante una celebrazione; condotti a Cartagine per esser giudicati, furono condannati a morte).
da J. Vanier, La comunità, luogo del perdono e della festa, Jaca book, Milano, 1980, p. 217
Le società diventate ricche hanno perso il senso della festa perdendo il senso della tradizione. La festa si ricollega ad una tradizione familiare e religiosa. Non appena la festa si allontana dalla tradizione tende a divenire artificiale e occorrono, per attivarla, degli stimolanti come l’alcool. Non è più festa.
La nostra epoca ha il senso del “party”, cioè dell’incontro in cui si beve e si mangia; si organizzano dei balli, ma è spesso una questione di coppia e a volte addirittura una faccenda molto individuale. La nostra epoca ama lo spettacolo, il teatro, il cinema, la televisione, ma ha perso il senso della festa.
Molto spesso oggi abbiamo la gioia senza Dio o Dio senza la gioia. È la conseguenza di tanti anni di giansenismo in cui Dio appariva come l’Onnipotente severo; la gioia si è staccata dal divino.
La festa, al contrario, è la gioia con Dio.
dall'omelia di Benedetto XVI del 9/9/2007, nel Duomo di Santo Stefano di Vienna
Sine dominico non possumus! Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l'insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea.
Il tempo libero necessita di un centro - l'incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di Monaco e Frisinga, il cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: «Dà all'anima la sua domenica, dà alla domenica la sua anima».
da J. Ratzinger, Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.72-73
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
6/ L’uomo e la donna
Midrash Rabbà, al capitolo 8 di Genesi Rabbà (ca. metà V sec.; edizione di Venezia, 1545)
È però scritto: «YHVH... prese una delle sue costole (tzelà)»! (Gen.2:21) Rabbi Shemuel bar Nachman rispose: "Una delle sue costole" significa "uno dei suoi lati", secondo le parole «e per la costola (tzelà) del Tabernacolo» (Esodo 26:20) che il traduttore in aramaico rende con "e per il lato del Tabernacolo".
da D. Lifschitz (a cura di), Uomo e donna immagine di Dio. Il sabato. L’Aggadah su Genesi 2, Ediz. Dehoniane Roma, Roma, 1996, p. 73
La figlia di Rabbi Gamaliel disse: «Se Adamo avesse visto Eva mentre veniva creata, sicuramente l’avrebbe disprezzata». Perciò il Santo, benedetto sia, nella sua grande saggezza, fece cadere un sonno profondo su Adamo, poi modellò il corpo di Eva, diverso da quello di Adamo, dandole la meravigliosa capacità di dare alla luce dei figli.
Eva, la donna destinata a diventare la vera compagna dell’uomo, fu tratta dal corpo di Adamo perché «solo quando uno è unito ad un suo simile, l’unione è indissolubile».
Perciò è detto: «Il Signore Dio plasmò, con la costola che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo».
Perché plasmò dalla costola e non dalla testa? Per evitare che la donna dominasse l’uomo. Perché non dal piede? Per evitare che l’uomo la dominasse. Dalla costola, perché avessero pari dignità.
da Gesù, Hillel, Shammai ed il matrimonio, di Andrea Lonardo
«La scuola di Shammai insegna che il marito non deve divorziare dalla propria moglie a meno che abbia trovato in lei qualcosa di immorale, conformemente al testo che dice: “Avendo trovato in lei qualcosa di vergognoso” (Dt 24,1). La scuola di Hillel opina invece: anche se essa ha bruciato il suo cibo. Rabbi Aqiba dice: Anche se trova un’altra più bella di lei, conformemente al testo che dice “che accada anche se essa non trovi grazia ai suoi occhi” (Dt 24,1)» (Mishnah Ghittin VIII,9-10).
Così la Mishnah, la raccolta dei detti dei rabbini dei primi due secoli d.C. – Mishnah vuol dire, letteralmente “ripetizione”, quindi “insegnamento” - presenta le diverse opinioni sul divorzio al tempo di Gesù.
A partire dalla concessione del divorzio contenuta nella Legge di Mosè ed, in particolare, nel libro del Deuteronomio, le diverse scuole argomentavano sulle condizioni del divorzio stesso.
Per Shammai, rabbino più rigorista, il divorzio era possibile solo se l’uomo scopriva l’adulterio della moglie (“qualcosa di immorale”), mentre Hillel, più lassista, permetteva il divorzio anche se la donna non sapeva cucinare. Ovviamente non era previsto che fosse la moglie a poter divorziare, ma era solo il maschio a poter ottenere di separarsi dalla donna che aveva sposato.
Il Talmud (letteralmente “Studio”), che contiene invece le riflessioni dei rabbini dal III al V secolo e che si presenta come un commento allargato alla Mishnah, spiega ulteriormente che in caso di adulterio il divorzio è necessario e che la donna ripudiata non potrà essere poi ripresa in moglie dal suo precedente marito (bGit 90a/b).
Rabbi Aqiba, il rabbino che aiutò Bar Kokhba nella rivolta contro i romani riconoscendolo come inviato da Dio e che morì per questo martire, famoso anche per la sua storia di amore con la moglie Rachel che lo sostenne per tutta la vita, aveva invece secondo la Mishnah una posizione ancora più duttile, ritenendo possibile il divorzio anche se una donna non trovava più grazia agli occhi del marito (Rabbi Aqiba, vissuto nella prima metà del II secolo è di poco posteriore a Shammai ed Hillel vissuti a cavallo dell’inizio dell’era cristiana).
da A. de Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Mursia, Milano, 1993, p.169.
Legati ai nostri fratelli da un fine comune e situato fuori di noi, solo allora respiriamo, e l'esperienza ci mostra che amare non significa affatto guardarci l'un l'altro ma guardare insieme nella stessa direzione. Non si è compagni che essendo uniti nella stessa cordata, verso la stessa vetta in cui ci si ritrova...
7/ L’uomo e il linguaggio
da Andrzej Jawien - Karol Wojtyla, La Bottega dell'orefice, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1979
(ANDREA)
Le fedi che stanno in vetrina
ci dicono qualcosa con strana fermezza.
Per ora sono solo oggetti di metallo prezioso
ma lo saranno soltanto fin quando
io ne metterò una al dito di Teresa
e lei metterà l'altra al mio.
Da quel momento saranno loro a segnare il nostro destino.
Ci faranno sempre rievocare il passato
come fosse una lezione da ricordare,
ci spalancheranno ogni giorno di nuovo il futuro
allacciandolo con il passato.
E insieme, in ogni momento,
serviranno a unirci invisibilmente
come gli anelli estremi di una catena.
Dunque non siamo entrati subito. Il simbolo prese la parola.
Lo abbiamo capito insieme nello stesso momento.
Guardando le fedi
nuziali ci ha colto una commozione silenziosa.
È questo che ci ha fermato davanti al negozio.
Rimandavamo il momento.
Mi sono accorto solo che Teresa serrò più forte
il mio braccio ... e questo era il nostro oggi:
l'incontro del passato con il futuro.
Ecco noi due spuntati da tanti momenti strani
come dall'abisso di fatti semplici e consueti.
Ecco noi due insieme. Ci uniamo segretamente
grazie a queste due fedi.
Qualcuno alzò la voce dietro le nostre spalle.
(QUALCUNO)
Guarda la bottega dell'orefice. Che arte singolare.
Fare oggetti capaci
di provocare riflessioni sulla sorte umana.
[...]
(ADAMO)
Proprio questo mi costringe a riflettere sull'amore umano. Non esiste nulla che più dell'amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell'amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell'amore — ecco la fonte del dramma.
Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l'amore. Certe volte invece no — l'amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore — come farne un insieme che abbia senso?
8/ Il peccato di origine
da Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J.Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp. 189-197
Il pensiero moderno mette a disposizione, mi sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare. Paolo intende esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male, non contro la carne e il sangue (Ef 6,12). Essa si dirige contro quel «rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco, cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco, che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.
Agostino, Confessioni. Libro VII
Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potente al massimo grado e enormemente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le abbraccia e le riempie. Allora dov'è il male, da dove e per quale via è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? Perché allora temiamo ed evitiamo una cosa inesistente? [...] Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da ciò da cui le fece, perché nella materia c'era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non convertì in bene? Ma anche questo, perché? Era forse impotente l'onnipotente a convertirla e trasformarla tutta, in modo che non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia era eterna, perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo, per spazi infiniti di tempi, e solo dopo tanto tempo decise di trarne qualcosa? O ancora, se gli venne un desiderio improvviso di agire, perché con la sua onnipotenza non agì piuttosto nel senso di annientare la materia e rimanere lui solo, bene integralmente vero, sommo, infinito? O, se non era bene che chi era buono non creasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto eliminare e annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva creare alcun bene senza l'aiuto di una materia non creata da lui?". Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli che mi incalzavano, frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità» (Confessioni VII,5.7).
«Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. Quando volevo o non volevo una cosa ero certissimo di essere io, non un altro, a volere e non volere; e capivo sempre meglio che qui si annidava la causa del mio peccato. Ma mi accorgevo di subire piuttosto che fare ciò che facevo contro volontà e non lo ritenevo una colpa, bensì un castigo mediante cui Tu, come subito ammettevo, mi colpivi, e non ingiustamente, perché ti pensavo giusto. Ma a questo punto mi chiedevo: "Chi mi ha creato? Il mio Dio, vero? che non è soltanto buono, ma la bontà in persona. Da chi mi viene dunque il consenso che do al male e il rifiuto che oppongo al bene? Accade così per farmi scontare giusti castighi? Ma chi ha piantato e innestato in me questa piantagione d'infelicità, se io sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio? E se fossi creatura del diavolo, da dove viene a sua volta il diavolo? Se anch'egli diventò diavolo, da angelo buono che era, per un atto di volontà perversa, questa volontà maligna che doveva renderlo diavolo da dove entrò anche in lui, che era stato creato integralmente angelo da un creatore buono?". Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi fino al baratro di quell'errore dove nessuno più ti loda, se preferisce pensare che sei Tu ad essere sottoposto al male, piuttosto che crederne l'uomo capace» (Confessioni VII,3.5).
Agostino cominciò così a capire che l'uomo è realmente responsabile delle proprie azioni ed anche del male che compie. Si faceva strada in lui l'idea che il male non era necessario, non era coeterno con Dio e Dio non era costretto a subirlo; non riusciva però ancora a trovare una visione dell'origine del male che lo convisse. Solamente la certezza che Dio è il creatore di tutto e che tutto è buono, lo aiutò a incamminarsi verso la soluzione dell'enigma:
«Osservando [...] tutte le altre cose poste al di sotto di te, scoprii che né esistono del tutto, né non esistono del tutto. Esistono, poiché derivano da te; e non esistono, poiché non sono ciò che tu sei, e davvero esiste soltanto ciò che esiste immutabilmente. […] Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero comunque beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; se non fossero beni affatto, non avrebbero nulla in se stessi di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è un danno, il che non può essere, o, come è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. [...] Dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose molto buone» (Confessioni VII,11.17-12.18).
In questo importantissimo brano si vede come Agostino sia giunto finalmente ad apprezzare tutto il creato come opera di Dio: non c'è nessuna cosa creata che sia cattiva e il male non è allora qualcosa che è stato creato già maligno bensì è, piuttosto, una privazione di bene.
Solo il bene è all'origine di tutto e tutto ciò che è creato è bene, ma, a causa del peccato, è possibile perdere il bene: ecco allora che il male è “privazione di bene”!
«In Te [Dio] il male non esiste affatto, e non solo in Te, ma neppure in tutto il tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere l'ordine che vi hai imposto»(Confessioni VII,13.19).
Il male è piuttosto distogliersi da Dio, è assenza di Lui, è, soprattutto, rifiuto di Lui che è la vita, l'essere, il bene:
«Cercai l'essenza dellamalvagità e trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, che si allontana dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose più basse»(Confessioni VII,16.22). In questo ultimo testo si vede ancora una volta chiaramente la visione agostiniana del male. Quando egli afferma che il male è assenza di bene, non ha in mente una semplice mancanza, ma una vera avversione, una vera “distrazione” dal bene: chi si rivolta contro Dio, chi lo esclude, chi toglie la fiducia all'Unico che è affidabile, si ritrova nel non senso, nell'inimicizia, nella morte. Chi nega la carità che nasce da Dio e la speranza che da Lui è fondata, si trova senza amore e senza prospettiva, solo con se stesso.
Ecco che ad Agostino appare tutto l'errore dei manichei che ritenevano invece il male una sostanza parimenti esistente come il bene: «Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto» (Confessioni III,7.12).
Come spiegherà bene G. K. Chesterton, questa visione del male non solo non è pessimistica, ma è anzi la garanzia della bellezza della vita: «Il peccato originale è una visione del mondo. È la visione del mondo non solo più illuminante, ma anche più incoraggiante [...]: abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia. Trova l'origine del male nell'uso sbagliato della volontà, e quindi dichiara che può eventualmente venire corretto utilizzando in maniera propria la volontà» (G. K. Chesterton, Perché sono cattolico (e altri scritti), Torino, Gribaudi 2007, pp. 136-137).
da F. Camon,Occidente. Il diritto di strage, Garzanti, Milano 2003, pp. 121-122
Un pittore aveva bisogno di un modello per disegnare la figura del Cristo nell’Ultima Cena. Gira e rigira, lo trovò in un contadino povero, con uno sguardo mansueto e luminoso. Lo pregò di posare per lui, e quello accettò. Ne venne un Cristo meraviglioso. Il pittore era molto contento. Disegnò anche gli apostoli, tutti tranne Giuda; anche per Giuda ci voleva un modello, perché era troppo importante per quella scena. Gira e rigira, questo modello non lo trovava, finché capita un giorno in un paese di campagna e vede un contadino torvo, bieco, violento, che stava bestemmiando in un casolare e litigando con i familiari. Lo guardò bene e gli parve adatto. Lo pregò di posare per lui, convincendolo con l’impegno che lo avrebbe pagato, e cominciò il ritratto di Giuda. A un certo punto si accorse che l’uomo piangeva. Pieno di stupore, gli chiese: “Perché piangi?”. “Perché”, rispose l’altro, “quel Cristo che avete dipinto la volta scorsa, sono io”. “E cos’hai fatto, dunque, per essere ora così diverso?”. E l’uomo rispose: “Ho peccato”.
dall’intervista di V. Messori a J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo, 1985, p. 79
Dice al proposito: «Se la Provvidenza mi libererà un giorno da questi miei impegni, vorrei dedicarmi proprio a scrivere sul “peccato originale” e sulla necessità di riscoprirne la realtà autentica. In effetti, se non si capisce più che l'uomo è in uno stato di alienazione non solo economica e sociale (dunque un'alienazione non risolvibile con i suoi soli sforzi), non si capisce più la necessità del Cristo redentore. Tutta la struttura della fede è così minacciata. L'incapacità di capire e presentare il “peccato originale” è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale attuali».
Gaudium et Spes, 13
Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre.
da Ortodossia di G.K. Chesterton
Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato - cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto.
Chesterton affermava che la dottrina del peccato originale è «l’unica visione lieta» della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia».
dalla Prefazione di Vladimir Soloviev a I tre dialoghi ed Il racconto dell’Anticristo
È forse il male soltanto un difetto di natura, un'imperfezione che scompare da sé con lo sviluppo del bene oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe sicché per una lotta vittoriosa contro di esso occorre avere un punto di appoggio in un altro ordine di esistenza?
da I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari, 1980, pp. 32-33
La frase: l’uomo è cattivo, non può, dopo ciò che precede, voler dire altra cosa che questo: l’uomo è consapevole della legge morale, ed ha tuttavia adottato per massima di allontanarsi (occasionalmente) da questa legge. La frase: l’uomo è cattivo per natura significa solo che tale qualità viene riferita all’uomo, considerato nella sua specie: non nel senso che la cattiveria possa essere dedotta dal concetto della specie umana (dal concetto d’uomo in generale, poiché allora sarebbe necessaria); ma nel senso che, secondo quel che di lui si sa per esperienza, l’uomo non può essere giudicato diversamente, o, in altre parole, che si può presupporre la tendenza al male come soggettivamente necessaria in ogni uomo, anche nel migliore. Ora, questa tendenza bisogna considerarla essa stessa come moralmente cattiva, e perciò non come una disposizione naturale, ma come qualche cosa che possa essere imputato all’uomo, e bisogna quindi che essa consista in massime dell’arbitrio contrarie alla legge. Ma, d’altronde, queste massime, in ragione appunto della libertà, bisogna che siano ritenute in se stesse contingenti, cosa che, a sua volta, non può accordarsi con l’universalità di questo male se il fondamento supremo soggettivo di tutte le massime non è, in un modo qualsiasi, connaturato con la stessa umanità e quasi radicato in essa. Ammesso tutto ciò, potremo allora chiamare questa tendenza una tendenza naturale al male, e, poiché bisogna pur sempre che essa sia colpevole per se stessa, potremo chiamarla un male radicale, innato nella natura umana (pur essendo, ciò non di meno, prodotto a noi da noi stessi).
Che una tale tendenza depravata sia di necessità radicata nell’uomo, possiamo risparmiarci di dimostrarlo formalmente, data la quantità di esempi palpitanti che, nei fatti degli uomini, l’esperienza ci pone sotto gli occhi.
9/ De-mitizzazione in Genesi e linguaggio per immagini: il genere letterario di Genesi
TavolaI (Epopea di Gilgamesh
Lacuna. La reazione di An è conservata in una tavoletta da Nippur contenente un esercizio scribale di epoca medio-babilonese (XIV-XIII sec.). Il testo integrale della tavola medio-babilonese è in Geo 1999, p. 127
[...] La dea Aruru [...]
diede vita al pensiero di An.
La dea Aruru lavò le sue mani,
prese un grumo di argilla, lo gettò nella piana.
Nella piana lei creò Enkidu, l'eroe,
creatura del silenzio, reso forte da Ninurta.
Tutto il suo corpo è coperto di peli,
la chioma fluente come quella di una donna,
i capelli del suo capo crescono come orzo.
Ma non conosce né la gente né il Paese;
egli è vestito come Sumuqan.
Con le gazzelle egli bruca l'erba,
con il bestiame beve nelle pozze d'acqua.
con le bestie selvagge si disseta d'acqua.
Shamkat lo vide, l'uomo primordiale,
il giovane la cui selvaggia virilità viene dal profondo
della steppa.
Il cacciatore disse: "È lui, o Shamkat, denuda il tuo seno,
allarga le tue gambe perché egli possa penetrarti.
Non lo respingere, abbraccialo forte,
egli ti vedrà e si avvicinerà a te.
Sciogli le tue vesti affinché egli possa giacere sopra di te;
dona a lui, l'uomo primordiale, l'arte della donna.
Allora il suo bestiame, cresciuto con lui nella steppa,
gli diventerà ostile,
mentre egli sazierà le sue brame amorose".
Shamkat denudò il suo seno, aprì le sue gambe
ed egli penetrò in lei.
Essa non lo respinse, lo abbracciò fortemente,
aprì le sue vesti ed egli giacque su di lei.
Essa donò a lui, l'uomo primordiale, l'arte della donna,
ed egli saziò con lei le sue brame amorose.
Per sei giorni e sette notti Enkidu giacque con Shamkat
e la possedette.
Dopo essersi saziato del suo fascino,
volse lo sguardo al suo bestiame:
le gazzelle guardano Enkidu e fuggono,
gli animali della steppa si tengono lontani da lui.
Enkidu era diverso, una volta che il suo corpo
era stato purificato:
le sue gambe, che tenevano il passo delle bestie,
erano diventate rigide;
Enkidu non aveva più forze, non poteva più correre
come prima;
egli però aveva ottenuto l'intelligenza; il suo sapere
era divenuto vasto.
Egli desistette e si accovacciò ai piedi della prostituta.
La prostituta lo guardò attentamente,
e ciò che gli diceva la prostituta egli andava ascoltando
attentamente.
Ella, allora, parlò a lui, a Enkidu:
"Tu sei divenuto buono, o Enkidu, sei diventato simile
a un dio.
10/ Parlare di Genesi al positivo e non al negativo
11/ Creazione e redenzione: è al singolare che dobbiamo parlare del mistero cristiano
«È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano», di de Lubac (1938!) (su www.gliscritti.it )
(cfr. -il centro non dopo una serie di gradini, ma tutto insieme!
-si può arrivare a dire che Gesù è la rivelazione piena di Dio dopo una serie lunghissima di passaggi, lo si può dire subito e tornarci continuamente su
-Romano Guardini: cosa è il cristianesimo... la weltanschauung
-semplicità, che non è semplicismo!
-unità! non c’è kerygma senza Dio, il Kerygma non è mai solo cristologico!)
Origene, De principiis I,2,6
Revelat [Christus] Patrem, per hoc quod ipse intelligitur.
«Cristo rivela il Padre in quanto egli stesso, il Cristo, viene compreso».
R. Latourelle, Dei Verbum. Commento, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, p. 285.
Il disegno divino, espresso in termini di relazioni interpersonali, include i tre principali misteri del cristianesimo: Trinità, incarnazione, grazia.
F. Varillon, Bellezza del mondo e sofferenza umana.Colloqui con Charles Ehlinger, Bayard, Paris, p. 115
La divinizzazione della persona non è possibile che tramite l’Incarnazione, e l’Incarnazione non è possibile se Dio non è Trinità. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, deve ricondursi a questo. Dunque che si parli di peccato o di virtù cristiane, che si commenti questa o quella scena dell’Evangelo, questo essenziale è sempre sullo sfondo»
cfr. Dio è amore (1 Gv)
Paolo VI sulla rivelazione: Dio si rivela come amore e quindi non è mai una pura informazione. Egli chiede di essere corrisposto nell’amore, egli chiede amore. La rivelazione coinvolge chi la riceve!
I Simboli di fede non sono la spiegazione che viene dall’esterno [della Scrittura] ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura (J. Ratzinger).
12/ L’iconografia cristiana: la Sistina di Michelangelo (la creazione del sole e della luna e il posteriore; la creazione di Adamo, la creazione di Eva)
da Trittico romano, di Karol Wojtyla
Mi trovo sul limine della Sistina -
Forse tutto ciò era più facile interpretare nel linguaggio della "Genesi" -
Ma il Libro aspetta l'immagine.- E' giusto. Aspettava
un suo Michelangelo.
Perché Colui che creava, "vedeva" - vide, che "ciò era buono".
"Vedeva", ed allora il Libro aspettava il frutto della "visione".
O uomo che vedi anche tu, vieni -
Sto invocandovi "vedenti" di tutti i tempi.
Sto invocandoti, Michelangelo!
Nel Vaticano è posta una cappella, che aspetta il frutto della tua visione!
La visione aspetta l'immagine.
Da quando il Verbo si fece carne, la visione, da allora, aspetta.
Stiamo sulla soglia del Libro.
Questo è il Libro delle Origini - Genesis.
Qui, in questa cappella lo ha descritto Michelangelo,
non con le parole, ma con una ricchezza
affluente dei colori.
Entriamo, per rileggerlo,
passando dallo stupore allo stupore.
"Dio foggiò l'uomo a Sua immagine e somiglianza,
lo creò maschio e femmina -
e Dio vide, che ciò era buono assai,
l'uno e l'altra erano ignudi e non ne avevano vergogna".
Questo è possibile?
Non chiederlo ai contemporanei, ma chiedi a Michelangelo,
(o forse anche ai presenti!?).
Chiedi alla Sistina.
Così tanto raccontano queste mura! [...]
Perché proprio di quell'unico giorno si è detto:
"Dio vide che ciò che aveva fatto era buono assai"?
Perché, allora, sembra che la storia contraddica tutto questo?
Pure il nostro ventesimo secolo! E non solo il ventesimo!
Però, nessun secolo riuscirà ad offuscare la verità
su immagine e somiglianza. […]
Anche loro, sulla soglia degli eventi,
vedono se stessi in assoluta autenticità:
erano ignudi tutti e due...
Anche loro sono divenuti i partecipanti di questa visione
che il Creatore ha trasmesso su di loro.
Non vogliono forse rimanere tali?
Non vogliono forse riacquistare questa visione di nuovo?
Non vogliono forse, per se stessi, essere autentici e trasparenti -
come già lo sono per Lui?
Se è così, cantano l'inno del ringraziamento,
un Magnificat dell'intimo umano
ed è allora che sentono profondamente
che proprio "in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" -
Proprio in Lui!
E' Lui che gli permette di partecipare a questa bellezza
che aveva ispirato in loro!
E' Lui che gli schiude gli occhi.
[…]
E quando divengono "un corpo solo"
- la più stupenda unione -
dietro il suo orizzonte si schiude
la paternità e la maternità.
E proprio qui, ai piedi di questa stupenda policromia sistina,
si riuniscono i cardinali -
una comunità responsabile per il lascito delle chiavi del Regno.
Giunge proprio qui.
E Michelangelo li avvolge, tuttora, della sua visione.
"In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo..."
La policromia sistina allora propagherà la Parola del Signore:
Tu es Petrus - udì Simone, il figlio di Giona.
"A te consegnerò le chiavi del Regno".
La stirpe, a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi,
si riunisce qui, lasciandosi circondare dalla policromia sistina,
da questa visione che Michelangelo ci ha lasciato -
Era così nell'agosto e poi nell'ottobre, del memorabile
anno dei due conclavi,
e così sarà ancora, quando se ne presenterà l'esigenza
dopo la mia morte.
All'uopo, bisogna che a loro parli la visione di Michelangelo.
"Con-clave": una compartecipata premura del lascito delle chiavi,
delle chiavi del Regno.
Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine,
tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio.
E' dato all'uomo di morire una volta sola e poi il Giudizio!
Una finale trasparenza e luce.
La trasparenza degli eventi -
La trasparenza delle coscienze -
Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni
al popolo -
Non dimenticate:Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius.
13/ Cristo immagine di Dio e l’antropologia teologica
Gaudium et spes 22
In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo.
Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (28) (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore.
Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione.
Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è « l'immagine dell'invisibile Iddio » (Col 1,15) (29) è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato.
Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata (30) per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime.
Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo.
CCC 1701 “Cristo. . ., proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22]. E' in Cristo,“immagine del Dio invisibile” (Col 1,15) [Cf 2Cor 4,4 ] che l'uomo è stato creato ad “immagine e somiglianza” del Creatore. E' in Cristo, Redentore e Salvatore, che l'immagine divina, deformata nell'uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bellezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22].
L’immagine divina è presente in ogni uomo. Risplende nella comunione delle persone, a somiglianza dell’unità delle persone divine tra loro (CCC 1702).