1/ Nell'archivio del terrore. Le immagini dei condannati a morte negli anni delle purghe staliniane, di Lucetta Scaraffia 2/ Col Terrore negli occhi, di Anna Foa
1/ Nell'archivio del terrore. Le immagini dei condannati a morte negli anni delle purghe staliniane, di Lucetta Scaraffia
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 27/4/2012 un articolo scritto da Lucetta Scaraffia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/4/2012)
Il 26 aprile è uscito nelle librerie italiane il volume La vita in uno sguardo. Le vittime del Grande Terrore staliniano (Torino, Lindau, 2012, pagine 240, euro 24) che riporta le foto segnaletiche dei condannati a morte negli anni della dittatura staliniana fatte poco prima della fucilazione. Pubblichiamo brevi stralci dei saggi scritti dalle due curatrici e di quello che chiude il libro.
La prima volta che ho visto le foto qui pubblicate ero a Mosca, nella sede di Memorial, reduce da una visita alle fosse di Butovo, dove le persone qui ritratte sono state fucilate e sepolte. Proprio per questo, quindi, ero preparata a coglierne la profonda carica drammatica e non solo a comprendere il loro valore di testimonianza. Le foto, copie fatte negli archivi della Lubjanka, erano riposte in un contenitore di legno da archivio, da cui sbucavano questi volti, che rivestivano di carne e sangue il ricordo delle fosse comuni che avevo visto sui luoghi delle fucilazioni di massa.
Sono rimasta subito colpita dall'estrema differenza con cui ciascuna persona ritratta si comportava di fronte a una situazione per tutti identica: la fotografia che veniva fatta per identificarli al momento della fucilazione.
Questa differenza rivela che ogni essere umano entra in modo diverso in rapporto con quello che Tzvetan Todorov ha chiamato "l'estremo" e che, in questo caso, è il male che li condanna a morte. Un male le cui tracce i carnefici avrebbero voluto cancellare per sempre dalla storia. I volti delle vittime, invece, per una felice serie di circostanze arrivati fino a noi, esprimono stupore, dolore, disperazione, sfinimento, impotenza, qualche volta anche sfida, odio, con l'occhio rivolto a chi, in quel momento, per loro rappresenta il male. Un male inspiegabile ma ineluttabile, e proprio per questo assoluto.
Sul male inflitto nel Novecento esiste una ricca documentazione fotografica, e qualche volta anche filmica: si pensi alle foto scattate nei lager nazisti dagli Alleati, che hanno per sempre fermato nella nostra memoria questa tragedia, o dai carnefici stessi, fieri di testimoniare magari a Hitler le sevizie a cui sottoponevano i prigionieri. Ma si tratta pur sempre di istantanee, o di filmati, non di ritratti.
Quasi inesistenti invece le foto dei lager sovietici, dove non sono entrati liberatori, e quindi l'occhio esterno non ha registrato il dramma nel momento in cui stava per finire. Sui lager sovietici abbiamo in realtà importantissime testimonianze letterarie, ma il fatto che non ci siano foto, in una cultura come la nostra così centrata sull'immagine, ha contribuito a rendere la loro realtà meno presente nella memoria collettiva, e quindi a indebolirne la portata storica: "Un evento diventa reale - scrive Susan Sontag - perché viene fotografato".
Tenendo da anni gli esami di storia contemporanea all'università La Sapienza di Roma, ho potuto verificare come per la maggior parte degli studenti le due forme di terrore - quello nazista e quello comunista - non siano da considerare comparabili: il peggiore, naturalmente, e di gran lunga, è considerato quello nazista, e non già per l'unicità dell'Olocausto, ma per l'unicità della documentazione visiva. Guardare i volti effigiati nelle pagine di questo libro, quindi, vuol dire anche prendere atto, concretamente, delle stragi perpetrate da Stalin, e accettare di essere coinvolti emotivamente in questo massacro, così come lo siamo per i campi nazisti.
Come ha scritto un importante burocrate dello Stato sovietico che ha denunciato gli orrori comunisti, Aleksandr Jakovlev: "I documenti non subiscono mai nessuna distruzione; solo gli esseri umani spariscono. Sono questi documenti macchiati di sangue che si accatastano sulla mia scrivania. Essi provengono dagli archivi del presidente della Russia e da quelli della Lubjanka, il quartier generale del Kgb. Se solamente questi dossier potessero bruciare e questi uomini e queste donne tornare in vita! Ma essi non torneranno mai in vita". Pubblicare questi ritratti non significa riportarli in vita, ma almeno farli entrare nella storia, testimoniare una fede nel potere terapeutico della memoria, credere cioè che la memoria possa servire come rimedio al male, non solo prolungandone il ricordo ma addirittura facendo sì che queste stragi non siano più replicate.
Molti infatti invocano la memoria come rimedio efficace per guarirci dal male, ma tale certezza è incrinata da più di un dubbio. Lo studioso che ha affrontato con maggiore profondità questo problema è senza dubbio Todorov, il quale ha scritto: "La lotta oggi si svolge nella fedeltà alla memoria, nel nostro giudizio sul passato, negli insegnamenti che ne ricaviamo". È proprio questa la ragione per cui ammiriamo il coraggio e la tenacia di una istituzione votata alla memoria come appunto Memorial, e di tanti altri gruppi e singoli, come Lidija Golovkova, che hanno conservato queste immagini permettendone il ricordo. E sappiamo che per farlo deve costantemente vincere le resistenze della società russa contemporanea, dove prevale il rifiuto di ricordare un passato pesante e imbarazzante.
Ma, come giustamente ricorda Todorov, la resistenza più subdola e massiccia a tale genere di memoria viene in realtà da tutti noi, che abbiamo fretta di allontanarci da queste storie terribili, con la scusa che conosciamo già perfettamente quello che è accaduto.
Guardare negli occhi le vittime del massacro staliniano ci impedisce di allontanarne da noi la pesante eredità: i loro volti ci ricordano che erano esseri umani come noi, con le nostre fragilità e le nostre paure. E che sono stati sterminati. Accettando di guardarli, non possiamo più nasconderci la portata del dolore che il totalitarismo comunista ha provocato e, più in generale, non possiamo sfuggire alla riflessione sul male nel Novecento. Al fatto cioè che, anche se ci sono sempre stati violenze e dolore, tutto induce a credere che nel Novecento si sia assistito in Europa a una manifestazione del male mai vista in precedenza, e non ci si può esentare dal cercare le ragioni di questa caduta.
Siamo costretti a continuare a interrogarci sulle ragioni che hanno reso possibile l'avvento del male, perché solo riconoscendole possiamo sperare che cose così non succedano più. I volti ritratti in queste fotografie ci spingono a farlo. Perché la semplice evocazione della memoria non basta. Può giocare anche brutti scherzi, può addirittura attutire le coscienze.
Tzvetan Todorov, in un saggio intitolato proprio La memoria come rimedio al male, segnala come sia in realtà pericoloso il totale consenso che di solito si accompagna - almeno nei Paesi occidentali - a queste evocazioni. "E se la sterilità degli appelli alla memoria fosse dovuta alla costante identificazione di "noi" negli eroi o nelle vittime e nell'allontanamento dei malfattori da "noi"?" egli scrive, sicuro che "il ricordo non è l'arma migliore" perché "l'impotenza delle vittime può condurci alle lacrime ma non ci insegna come agire".
Lo scrittore bulgaro giustamente ci mette in guardia dalla vana speranza di raggiungere una condizione definitivamente libera dal male, perché "la memoria del passato sarà sterile se ci serviamo di essa per innalzare un muro invalicabile tra il male e noi, se ci identifichiamo unicamente negli eroi irreprensibili e nelle vittime innocenti, respingendo chi ha compiuto il male fuori dalle frontiere dell'umanità".
Dal momento che il male non è eliminabile, l'unica speranza è "tentare di comprenderlo, contenerlo, dominarlo, riconoscendo che è presente anche in noi".
(©L'Osservatore Romano 27 aprile 2012)
2/Col Terrore negli occhi, di Anna Foa
Riprendiamo da Avvenire del 28/4/2012 una recensione di Anna Foa al volume di Marta Dell’Asta – Lucetta Scaraffia, La vita in uno sguardo. Le vittime del Grande Terrore staliniano, edito da Lindau. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2012)
Centocinquanta foto segnaletiche di oppositori fucilati fra il 1937 e il 1938, provenienti dagli archivi della polizia segreta sovietica, una piccola parte dei 20765 profili già ricostruiti, a loro volta una parte soltanto di coloro che giacciono a tutt’oggi nelle fosse comuni di Butovo, alla periferia di Mosca: queste le immagini fotografiche che troviamo in questo libro, accompagnate, per ogni immagine, da una scheda con il nome, le date di nascita e di morte, la collocazione sociale e politica.
Quando nel 1937 iniziò in Urss il «Grande Terrore», il numero delle esecuzioni capitali, già molto alto fin dagli anni Venti, crebbe enormemente, spingendo l’Nkvd (il Ministero degli Interni, da cui dipendevano le polizie segrete) ad attrezzare allo scopo delle aree periferiche: una di queste fu la zona di Butovo. Non sappiamo il numero di quanti vi furono assassinati, forse molte decine di migliaia di persone.
I condannati erano fucilati sul bordo di fosse comuni, dove poi venivano gettati. Prima di essere uccisi, venivano fotografati di fronte e di profilo, vere e proprie foto segnaletiche destinate a provare la loro identità al momento dell’esecuzione, come prescriveva la legge. Alcuni di loro sono stati riabilitati nella prima ondata di riabilitazioni, sotto Kruscev, in particolare tra il 1956 e il 1960, altri solo dopo il 1989, altri, fucilati come 'criminali comuni', non sono stati riabilitati affatto.
Ma anche dopo le riabilitazioni dell’età krusceviana, restavano avvolti nel segreto i luoghi delle fucilazioni, le fosse comuni non erano state individuate, il segreto di cui il regime sovietico aveva coperto i suoi massacri restava inviolato. È intorno al 1990 che emerge l’esistenza delle fosse comuni a Butovo, anche in seguito alle ricerche portate avanti dall’associazione Memorial, creata alla fine degli anni Ottanta per dare un nome alle vittime e perpetuarne la memoria. Nel 1995 l’intera zona fu consegnata alla Chiesa ortodossa, dato il gran numero di sacerdoti che vi avevano trovato la morte.
Nel 1997 vi sono stati scavi che hanno portato all’individuazione di tredici grandi fosse comuni, nel 2001 la zona è stata dichiarata 'monumento d’importanza nazionale'. Degli oltre ventimila fucilati di cui si è ricostruita la storia, meno del 10% erano donne, il 70% russi, l’85% non iscritti al partito. C’erano fra loro persone condannate a causa della loro nazionalità, tra cui molti tedeschi, lettoni, polacchi, ebrei, ucraini, cinesi e 26 italiani; altri a causa del loro ceto sociale, altri perché invalidi o mendicanti.
Un gruppo assai ampio è quello dei preti ortodossi, alcuni dei quali recentemente canonizzati come martiri, e fra loro sette vescovi. A Butovo fu anche fucilato Bela Kun, il leader della rivoluzione ungherese del 1919. La storia di questo luogo di morte, ampiamente delineata nei saggi di Marta Dell’Asta e di Lidija Golovkova che accompagnano le fotografie, non esaurisce però l’interesse di questo volume, e nemmeno basta a comprendere l’emozione intensa che esso suscita.
Ad essere in primo piano, come il titolo del libro stesso ci suggerisce e come sottolinea Lucetta Scaraffia nella sua introduzione, è lo sguardo di questi 150 condannati a morte, nella ultima loro immagine che ci restituisce non solo l’identità ma il loro modo di affrontare la morte. Un modo diverso l’uno dall’altro, che esprime «stupore, dolore, disperazione, sfinimento, impotenza, qualche volta anche sfida, odio, con l’occhio rivolto a chi, in quel momento, per loro rappresenta il male».
Una morte che non è riuscita tuttavia a togliere a colui che veniva fotografato la sua dignità e la sua libertà. La fotografia si segnala così non soltanto come una testimonianza puntuale degli eventi che hanno caratterizzato gli esiti estremi dei totalitarismi del Novecento, ma anche – come ci rammenta Oddone Camerana nel saggio apposto in appendice a queste immagini – come una via per giungere ad una loro più intima comprensione, per restituire un nome e una dignità di persona a coloro che erano destinati dai perpetratori ad essere, tanto nelle camere a gas di Auschwitz come nelle fosse comuni di Butovo, solo dei numeri.