Il Mosè di Michelangelo, di Timothy Verdon
Riprendiamo sul nostro sito la relazione del prof. Timothy Verdon tenuta in San Pietro in Vincoli il 20/3/2012, per il ciclo Il Rinascimento a Roma, organizzato dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi Il Mosè di Michelangelo e la “tragedia della sepoltura”: la tomba di Giulio II e le sue vicende, dalla basilica di San Pietro in Vaticano a San Pietro in Vincoli, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (14/4/2012)
Il più grande personaggio dell’Antico Testamento è Mosè, che il Prologo al Quarto Vangelo giustappone e quasi equipara al Figlio di Dio, dicendo: “La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). A Mosè Dio “fece udire la sua voce”, dice Siracide, “lo fece entrare nella nube oscura, e gli diede faccia a faccia i comandamenti, legge di vita e d’intelligenza” (Sir 45,5-6a). Il Libro del Deuteronomio, dopo aver narrato la morte del santo legislatore, afferma semplicemente che “non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia” (Dt 34,10).
Ecco il personaggio che Michelangelo scolpì per la tomba di Giuliano della Rovere, eletto papa nel 1503 col nome di Giulio II: la tomba originalmente intesa per la Basilica di San Pietro ma che, dopo la morte del pontefice, fu ripensata per la chiesa romana similmente dedicata al Principe degli Apostoli e che del resto era stata sede titolare di Giuliano della Rovere ancora cardinale - San Pietro in Vincoli. Come tutti sanno, poi, la versione del monumento finalmente realizzata riduce penosamente la grandiosa prima idea dell’artista e del committente, del 1505, e anche la seconda, risalente al 1513.
Per entrare nell’argomento è tuttavia sufficiente ricordare che il Mosè fa parte di una tomba papale del primo Cinquecento. Rientra cioè nella logica delle fastose sepolture pontificie del secondo Quattrocento, di cui la più magnifica era forse la tomba di Sisto IV, modellato e gettato in bronzo da Antonio Pollaiuolo per l’interno della vecchia San Pietro e oggi al tesoro della Basilica. Sisto IV – Francesco della Rovere - era lo zio di Giuliano, e i due appaiono insieme nel celebre affresco di Melozzo da Forlì ai Musei Vaticani raffigurante l’affidamento all’umanista Giovanni Platina dell’incarico di bibliotecario vaticano: Sisto IV è sul trono, a destra, Platina in ginocchio a sinistra, e in piedi al centro il porporato vigoroso e deciso è Giuliano della Rovere, Grande Penitenziario di Santa Romana Chiesa.
Il ruolo chiave del Cardinale Nipote alla corte dello zio lo associa anche con gli ambiziosi progetti architettonici e decorativi di Sisto IV, tra cui la costruzione nelle forme attuali della Capella magna del palazzo, nota appunto come la ‘Sistina’. All’interno della nuova cappella di rappresentanza, Sisto fece dipingere un doppio ciclo di affreschi, con scene della vita di Cristo sulla parete nord e di fronte, sulla parete sud, episodi della vita di Mosè. Sisto IV, che si trovava a dover affrontare le pretese dei conciliaristi, i quali si opponevano all’assolutezza dell’autorità attribuita al Successore di Pietro, aveva scritto un trattato intitolato Moises vir Dei in cui, attraverso il legislatore antico, evidenziava il metodo prescelto da Dio per guidare il suo popolo: quello cioè di affidare a alcuni uomini da Lui preparati l’autorità propria, l’autorità divina. Non a caso al centro dell’area riservata per gli illustri invitati alla Messa del Papa, sulla parete sud, vediamo l’affresco di Sandro Botticelli raffigurante Mosè che punisce i ribelli Core, Datan e Abiram, mentre di fronte fu collocato quello di Pietro Perugino con la Consegna delle chiavi, ossia Cristo che in persona affida a san Pietro il potere divino di perdonare i peccati - il vero potere dei papi. Ecco, il tema del potere, associato all’antico legislatore visto come typus Christi, sarà una componente del Mosè che Michelangelo scolpirà per il nipote di Sisto IV.
Sullo sfondo dell’affresco del Perugino, al centro, direttamente sopra il gruppo principale di Cristo e Pietro, vi è un bellissimo tempio moderno (la cupola sembra quella del Duomo di Firenze, ultimata 50 anni prima). Tra le ambizioni di Sisto IV, come dei papi suoi immediati predecessori, c’era probabilmente quella di intraprendere la ricostruzione della fatiscente basilica vaticana, all’epoca vecchia quasi 1200 anni. Sarà il nipote, Giulio II, a avviare questo progetto nel 1506, dandone commissione a Donato Bramante: una medaglia del periodo, di Cristoforo Caradosso, fa vedere il progetto bramantesco e il committente, Giulio II.
La tomba immaginata dal papa insieme a Michelangelo nel 1505 doveva occupare l’abside della vecchia basilica, iniziata da Niccolò V alla metà del ‘400, ma il progetto di rifare interamente San Pietro portò a un primo ripensamento in cui la sepoltura sarebbe sorta nel titanico nuovo edificio progettato dal Bramante. Questa associazione del monumento con la Basilica Vaticana va tenuta presente, se vogliamo capire le dimensioni del tutto nuove, grandissime, della tomba nonché la sua ricchezza plastica, altrettanto nuova. Si trattava (nel progetto del 1505) di una struttura libera su tutti e quattro i lati, a tre ripiani, con un loculo interno al livello inferiore destinato al sarcofago del pontefice. Figure di ‘Prigioni’ al livello inferiore, e di grandi personaggi biblici od allegorici al primo ripiano, preparavano la piattaforma sommitale con l’effigie di Giulio II posto nel sepolcro da due angeli.
Lo stile del progetto del 1505 fu come confermato dalla riscoperta, nel gennaio del 1506 e presente Michelangelo, del più celebre delle opere antiche allora credute perse: nel triclinio della neroniana Domus Aurea sull’Esquilino, il Laocoonte. Il Buonarroti, che già nel Davide ultimato due anni prima aveva rivelato la passione e la capacità per il nudo maschile, ora aggiunge l’ulteriore dimensione della lotta – fisica, psicologica, spirituale – come suggerisce il suo incompiuto San Matteo per il Duomo fiorentino, commissionato nel 1503 ma verosimilmente elaborato nel 1506. Queste sono le fonti a cui l’artista attingerà per le figure simboliche del livello inferiore della tomba di Giulio II, i cosiddetti ‘Prigioni’, che lottano per liberarsi da una schiavitù il cui senso preciso è variamente spiegato: in chiave neoplatonica, come l’anima nel ‘carcer terreno’ del corpo, o - come afferma il Condivi – come le arti liberali affrancate grazie a Giulio II. In termini puramente visivi, è impressionante la capacità di Michelangelo di tradurre in eloquenti forme attuali le lezioni dei massimi capolavori antichi allora visibili a Roma - del Torso Belvedere, ad esempio, probabilmente già conosciuto durante il primo soggiorno dell’artista nell’Urbe negli ultimi anni del ‘400. La onirica visione della tomba da realizzare come gigantesco trofeo brulicante di eroiche figure in posizioni di suprema tensione era ispirata anche da queste opere ellenistiche ammiratissime nella Roma rinascimentale.
Ma prima di cominciare il lavoro sulla tomba, Michelangelo fu obbligato controvoglia a realizzare un altro dei progetti del papa: l’ultimazione della decorazione ad affresco della cappella fatta costruire dal suo zio, Sisto IV. Ed ecco allora che le componenti di architettura e scultura che il Buonarroti aveva appena elaborato per la tomba vengono tradotte nell’illusione pittorica della volta: al posto delle titaniche statue progettate per gli angoli del primo ripiano della tomba (di cui solo il Mosé verrebbe realizzato), Michelangelo dipinge Profeti e Sibille in affresco; al posto dei Prigioni di marmo, situa Ignudi dipinti agli angoli delle scene narrative.
Questo passaggio obbligato spiega l’impatto della volta, la forza travolgente dell’insieme e delle singole figure. Michelangelo, anche se dipingeva, pensava in scultura. Cioè, nonostante i toni solari e le sfumature cromatiche rivelate dal restauro degli anni 1990, i valori dominanti della volta rimangono plastici - scultorei e tridimensionali, perché il pittore pensava sempre al monumento scultoreo della tomba di Giulio II. Il dramma umano che in Raffaello verrà espresso dalla coralità del movimento, e in Bramante dalla progressione di spazi e volumi, in Michelangelo è concentrato nei sublimi, eroici corpi ‘scolpiti’ nella volta della cappella papale. La lezione di grandi sculture antiche allora tornate alla luce – insieme al Laocoonte anche il Torso Belvedere - viene trasposta da un uso letterale, come sarebbe stata nella tomba, all’evocazione fortemente poetica degli affreschi della volta. E, obbligato a dipingere le storie bibliche volute da Giulio II, Michelangelo perfeziona uno stile in cui il corpo umano diventa esso stesso istoria - ‘racconto’ tridimensionale che coinvolge (anche corporeamente) chi lo guarda.
Ciò significa però che le statue finalmente scolpite per la tomba, a partire dal 1513, rispecchiano l’esperienza della volta della Sistina, e lo stesso Mosè non fa che realizzare in marmo un’idea nata, sì, per la scultura ma elaborata nella pittura. La straordinaria libertà con cui, negli affreschi degli anni 1508-1512 Michelangelo esplora le possibilità di movimento corporeo, in base ai suoi studi non solo approfonditi ma, viene da dire, trasfigurati, dei capolavori antichi visibili in Vaticano, darà una forza espressiva altrimenti inimmaginabile alle sculture che realizzerà per la tomba a partire dal 1513. La schiena muscolata del Prigione attivo oggi al Louvre, ad esempio, elabora sia quella della Sibilla Delfica della Sistina, vista anche nel disegno preparatorio del Metropolitan Museum, sia la schiena di uno dei bellissimi Ignudi della volta. Un altro degli Ignudi, trasognato nella sua eroica muscolarità, diventerà il modello dell’altro Prigione parigino, trattandosi in ambo i casi di interpretazioni del Laocoonte, il cui mancante braccio destro Michelangelo intuiva dovesse originalmente essere nella posizione che vediamo nelle due opere.
Questo processo ha particolare importanza per il Mosè, la più importante delle figure della tomba scolpite e l’unica dei quattro (poi due) personaggi del primo ripiano a essere realizzato. L’indimenticabile volto del “profeta…che il Signore conosceva faccia a faccia” nasce infatti negli affreschi della Sistina come il volto del Dio che nessun uomo può vedere e restar vivo (Es 33,20): nasce cioè nella ‘terribilità’ di Yahweh che crea i grandi lumi, il sole e la luna. Mosè gli aveva chiesto: “Mostrami la tua gloria” (Es 33,18), e allora – senza far vedere il suo volto – “il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: ‘Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà…’” (Es 34,5-6).
Ecco, il volto del Mosè michelangelesco riflette quest’intima conoscenza che trasforma l’uomo in Dio. Infatti, di Mosè il libro dell’Esodo afferma che, anche se non aveva visto con i suoi occhi tutta la gloria di Dio, quando scese dal Monte Sinai “la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Lui” (Es 34,29). E’ in questo stato di trasfigurazione infatti che il Legislatore comunica “ciò che il Signore gli aveva ordinato sul Monte Sinai”, e “quando ebbe finito di parlare loro, si pose un velo sul viso. Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando non fosse uscito” (Es 34,32b-34a). Ecco, Michelangelo - dopo aver immaginato (nella Sistina) il volto divino - nel Mosè immagina il volto umano reso raggiante dall’intimo contatto con Dio.
Sia l’uno che l’altro volto poi alludono al Vicarius Christi che, pur nelle problematiche di un rapporto difficile, per Michelangelo rappresentava Dio e la sua legge: Giulio II. Sia il Dio Padre della Sistina, cioè, che il Mosè dovevano essere riconoscibili ai contemporanei come ideali raffigurazioni del pontefice che, con energia e forza sovrumani se non soprannaturali aveva dato inizio al più drammatico progetto costruttivo dei tempi moderni: la nuova Basilica Vaticana, per la quale – almeno per un breve periodo – la tomba del papa era destinata. Il giorno 18 aprile del 1506 – sabato nell’ottava di Pasqua di quell’anno, il giorno dopo la sdegnosa partenza per Firenze di Michelangelo, a cui Giulio II non voleva più dare il denaro per i marmi della tomba – il papa scese in una fossa di fondamenta profonda 7,45 m per porre la prima pietra del primo pilone della basilica bramantesca, e meno di un anno dopo s’incominciò a demolire l’antica basilica per avviare i piloni di sant’Andrea e san Longino. La basilica poi era la componente principale di un progetto più vasto, che prevedeva le sovrapposte gallerie di collegamento del nucleo antico dei palazzi pontifici (accanto a San Pietro) con la palazzina del Belvedere, mezzo chilometro più a nord; la pianta di Roma di Etienne Dupérac ne suggerisce l’imponenza di questa titanica impresa, nonché il clima di sovrumana creatività che, ancora nel secondo Cinquecento, l’enorme cantiere comunicava. Al punto culminante del percorso palatino – al cuore della palazzina del Belvedere – c’era poi lo spazio che raccoglieva le grandi sculture antiche venute alla luce: il cortile del Belvedere che vediamo in un dipinto di Hendrik van Kleef, ai Musei Reali di Belle Arti di Brussels, con davvero un ‘bel vedere’ sulla pianura fluviale e i vicini colli. Qui l’Apollo, qui il Torso, qui soprattutto l’insuperabile Laocoonte che avrebbero ispirato le più ardite figure della volta sistina – il Giona dipinto al capo della Cappella, ad esempio, sopra l’altare papale, che Adolfo Venturi chiamò “questo colosso, questo pietrificato vortice”, vedendone una “statua a tutto tondo, sradicato di schianto dalla parete [..., una] prodigiosa scultura dipinta, che un urto formidabile smuove dalla sua base e sembra stia per ruinare nel vuoto, come gigante macigno dall'orlo di un ciglione alpestre".
Il Giona è l’ultima delle figure di profeti e sibille a essere dipinte, ed ecco, dobbiamo ricollocare il Mosè, che Michelangelo deve aver ideato non più di due anni dopo, tra il 1513-14, in questo contesto subliminale: nell’atmosfera cioè dell’assoluto, dei capolavori antichi nel cortile prospiciente il cielo, la campagna e la nuova basilica che sorgeva sullo sfondo dell’antica urbe imperiale. Giulio II era morto il 20 febbraio del 1513 lasciando 10.000 ducati per i lavori della sua tomba. Nel mese di maggio fu redatto un nuovo contratto con gli eredi di papa Giulio: per una tomba sempre colossale – con 40 statue – ma non più libera su tutti i lati, bensì emergente dalla parete. Le figure dei grandi leader del Popolo di Dio, Mosè e san Paolo, erano sempre previste al livello del primo ripiano, e quindi con una visuale ‘di sotto in su’ oggi difficilmente immaginabile. Nel 1516 viene stipulato un terzo contratto con i Della Rovere, per una tomba parietale grande più o meno la metà del progetto del 1513, ed è su questa versione ridotta che, tra altre commissioni, il Buonarroti continuerà a lavorare sporadicamente fino agli anni 1530, quando viene presa la decisione di collocare il monumento in San Pietro in Vincoli.
Tra altre commissioni. In verità la grande tomba sarebbe rimane in qualche modo il modello anche dei progetti che il successore di Giulio II, Leone X de’Medici, impose all’artista. Soprattutto l’idea di realizzare una struttura architettonica di forte impatto come sostegno per le propria scultura continuerà ad affascinare Michelangelo. Era un’ambizione del periodo, possiamo dire, e già nell’arte fiorentina del secondo Quattrocento ne troviamo le prime manifestazioni – nell’aula interamente scolpita della botticelliana Calunnia d’Apelle, ad esempio, come poi nell’aula della Scuola d’Atene di Raffaello, dove le grandi statue evocanti l’antico alludono anche alle figure del Buonarroti per la tomba. La più compiuta realizzazione del concetto è il fastoso involucro avviato dal Bramante per la Santa Casa nella Basilica di Loreto, che da assai lontano permette di immaginare l’effetto della tomba di papa Giulio come Michelangelo lo sognava - ma, dico ancora, da assai lontano.
I due grandi progetti impostigli da Leone X – per la facciata della chiesa parrocchiale dei Medici a Firenze, San Lorenzo, e poi, al posto di questo, per la cappella sepolcrale dei familiari del pontefice nella stessa chiesa (la cosiddetta Sacrestia Nuova) - daranno a Michelangelo ulteriori occasioni di elaborare questa idea, formulata prima per la tomba di Giulio II nella versione del 1505, sperimentata in forma pittorica nella volta della Sistina, ripensata nel 1513 e ancora nel 1516, per essere infine abbandonata col definitivo ritorno a Roma dell’artista nel 1534. La facciata di San Lorenzo, di cui rimane il modello ligneo del 1517 a Casa Buonarroti a Firenze, doveva servire da supporto per grandi sculture e rilievi, mai realizzati e neppure disegnati, per quanto sappiamo, e l’interno della Sacrestia Nuova similmente abbina eleganti supporti architettonici con colossali figure plastiche (dovevano originalmente essere quasi il doppio, di numero), così permettendo a Michelangelo di dar finalmente forma alla sua visione dell’incompiuta tomba di Giulio II.
Ma si sa che il cuore del grande maestro non era in questi progetti dinastici dei Medici, e quando, per l’effigie del fratello minore di Leone X, Giuliano (sposato dal pontefice a una principessa francese e così trasformato in ‘duca di Nemours’), egli ricorre alla formula compositiva elaborata 10 anni prima per il Mosè, il risultato è curiosamente impersonale: elegante ma senza la forza sia creativa che comunicativa del Mosè.
Il Mosè è infatti la suprema creazione plastica di Michelangelo e tra le massime espressioni della sua spiritualità, il coraggioso tentativo di far contemplare il volto stesso di Dio in un volto umano. Noi lo vediamo male oggi, nella ridottissima edizione finale, perché l’antico Legislatore siede troppo in basso, troppo vicino a noi, e gli mancano i compagni originalmente immaginati: il mai realizzato San Paolo, che avrebbe qualificato in termini cristiani le doti di mistica conoscenza e di forza legislativa che il Mosè celebra, e soprattutto i Prigioni del livello inferiore, che nella ‘lettura’ del monumento’ dovevano accompagnare il nostro sguardo nell’ascesa verso il raggiante volto dell’uomo a cui Yahweh s’era avvicinato, rivelando il suo nome. Oggi, vedendo solo Mosè vediamo la lontana fine di un processo il cui inizio doveva sembrare più vicino, anzi nella nostra mente e nel nostro cuore: il desio che eleva il cuore umano a Dio, l’anelito al divino che nobilita l’uomo anche se lo fa soffrire, anche se lo crocifigge.
Vede Dio infatti solo chi, affrontando la lotta dell’esistenza, risponde alla sua bellezza, purificando il proprio cuore.