Il mondo ha bisogno di re-incanto, di Charles Taylor
Riprendiamo da Avvenire dell’1/4/2012 un testo di Charles Taylor. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/4/2012)
L’assioma caro ad una certa sociologia («più modernità, meno religione») si è dimostrato falso e fuorviante. Di qui, negli ultimi anni, sono sorti diversi studi che indagano l’inedito rapporto tra postmodernità e fatto religioso, soprattutto l’esperienza cristiana. Su questo si concentra, con un occhio particolare al confronto con quanti non credono, il filosofo canadese Charles Taylor nel testo che le Edizioni Messaggero di Padova mandano ora in libreria con il titolo Una religione 'disincantata'. Il cristianesimo oltre la modernità (pp. 80, euro 7,50). Il contributo di Taylor, noto per i suoi studi sull’era moderna (Il disagio della modernità , Laterza) e sul rapporto tra laicità e fede (L’età secolare, Feltrinelli), è accompagnato da un intervento di Carmelo Dotolo, docente di teologia all’università Urbaniana di Roma. Un 'duetto' di voci nello spirito del Cortile dei gentili, la collana editoriale in cui il libro compare. Pubblichiamo qui alcuni passaggi del testo di Taylor. (L.Fazz.)
I termini disincanto e re-incanto vengono spesso utilizzati assieme: il primo per indicare le principali caratteristiche del processo che conosciamo con il nome di 'secolarizzazione', il secondo come la presunta negazione del primo, una scelta che può essere sia temuta che desiderata, a seconda del punto di vista di ciascuno di noi. Il processo di disincanto è irreversibile. L’aspirazione al re-incanto (o il temuto pericolo insito in tale minaccia) mira a un processo diverso, che può riprodurre caratteristiche analoghe a quelle del mondo un tempo incantato, senza però ridursi alla semplice restaurazione di quest’ultimo.
Parliamo di 'mondo incantato' per designare quelle caratteristiche di cui si è privato il disincanto. La caratteristica di un mondo siffatto è che esso si presentava ricco di spiriti e di forze morali, e come un mondo, inoltre, in cui queste forze avevano un’influenza sugli esseri umani. Il confine tra l’Io e queste forze era quindi qualcosa di labile. Il processo di disincanto, portato avanti per ragioni di carattere religioso, è consistito nella delegittimazione di tutte le pratiche che avevano a che fare con forze e spiriti in quanto esse, presumibilmente, o negavano la potenza di Dio o si muovevano esplicitamente contro di essa. La questione del re-incanto può essere posta nei seguenti termini: una volta che abbiamo abbandonato il mondo degli spiriti e che non crediamo più nella Grande Catena dell’Essere, quale senso possiamo dare alla nozione secondo cui l’universo che ci circonda è il luogo in cui trovano posto i significati che per gli esseri umani sono 'oggettivi' nel senso che non sono solo semplicemente frutto di una proiezione legata a una scelta soggettiva o a un desiderio contingente?
Ponendo la questione in un altro modo, l’attribuzione di questi significati conta per noi come una valutazione forte. La distinzione a cui alludo tra valutazioni forti e valutazioni deboli deriva da questo. Una valutazione debole è quella che dipende da scelte che potremmo anche non fare, o dalla condivisione di scopi che potremmo anche non accettare. L’attribuzione di un significato all’universo (e alle cose che ne fanno parte) come valutazione forte sta a cavallo del divario tra morale ed estetica. Riguarda forse l’etica in senso ampio, laddove formuliamo giudizi riguardo a ciò in cui consiste una vita buona o veramente umana. Tenendo queste riflessioni come sfondo, guardiamo al dibattito sul disincanto e sul reincanto.
Seguo qui l’eccellente discussione sviluppata da George Levine. Il dibattito prende le mosse dalla rivendicazione ad opera di molte persone, sia atei sia credenti sia persone che stanno nel mezzo, secondo le quali la combinazione fra razionalizzazione di stampo weberiano e scienza postgalileiana, insieme al declino della religione, ci hanno lasciato un mondo privato di ogni significato e di ogni possibilità di consolazione. La situazione degli uomini moderni è considerata così molto diversa rispetto a quella delle persone in tutte le epoche e le culture precedenti. Si può dunque innescare un dibattito su cosa dobbiamo o dovremmo essere obbligati a fare a fronte di tutto ciò: affrontare un mondo vuoto con coraggio e risolutezza, o chiamare in questione il rifiuto della religione, oppure forse trovare nuove fonti da cui attingere significati.
Ma si potrebbe anche interrogare questo quadro 'weberiano'. Ci troviamo davvero in un simile frangente? Qualcuno ha sollevato tale questione. Non facciamo forse esperienza di meraviglia di fronte a un universo vasto e intricato, di fronte alle molteplici forme di vita, allo spettacolo dell’evoluzione delle forme superiori a partire da quelle inferiori? In questo caso, a parte il deciso cambiamento rappresentato dal fatto di avere disincantato il mondo, la teoria scientifica che chiamiamo teoria dell’evoluzione ci ha infatti dato un motivo ulteriore e più profondo di meravigliarci di fronte al mondo. Come scrive Levine, il mondo non ha perso di significato; «È mozzafiato, bello, spaventoso, affascinante, pericoloso, seducente, reale». Il primo di questi epiteti sembrerebbe essere più di ambito estetico che morale. Ma si può anche osservare che questo senso di grandezza e bellezza incoraggia l’amore verso il mondo, che è una delle fonti della generosità. Come vide Kant, l’ispirazione che traiamo dal «cielo stellato sopra di noi» è analoga a ciò che avvertiamo prima della «legge morale dentro di noi».
Qui troviamo quello che per una persona religiosa sarebbe facilmente identificabile come un senso di mistero. I materialisti spesso vogliono ripudiare tutto questo; la scienza nel suo progresso non riconosce alcun mistero, soltanto enigmi temporanei. Ma, ciononostante, la percezione che la nostra vita dotata di pensiero e sensazioni affonda le proprie radici in un sistema di tale inimmaginabile profondità, che la coscienza possa emergere da tutto questo, suscita timore e paura anche in loro.
Si può riscontrare un parallelismo in una delle strategie di attacco sferrate da Friedrich Nietzsche nei confronti del cristianesimo: i cristiani parlano di 'carità', di 'amore', di porgere l’altra guancia. Ma nei fatti questa si rivela essere una menzogna, perché tutti noi siamo in realtà mossi dalla volontà di potenza. Il comportamento dei cristiani è infatti motivato dal desiderio di redimere coloro che hanno avuto la meglio nella corsa al potere. Ora, dal punto di vista dei cristiani fare tutto il possibile, spingendosi oltre nell’amore che si dà gratuitamente, ha senso perché ciò può essere una tappa del processo di trasformazione che ci rende più simili a Cristo e a Dio. Se questa prospettiva nel suo complesso è fonte di delusione, se siamo tutti inevitabilmente e ugualmente mossi dalla volontà di potenza, allora questa aspirazione è vana; l’intera visione collassa. È solo uno stravolgimento ironico l’argomento di Nietzsche in cui egli mostra che l’'amore' qui prende le mosse dal suo contrario, dal ressentiment e dall’odio.
Il nostro stupore nei confronti dell’oscurità della nostra genesi, e il conflitto che possiamo avvertire attorno a questo problema, viene colto in maniera efficace da uno scrittore contemporaneo. Douglas Hofstadter riconosce che alcune persone provano istintivamente orrore all’idea di qualunque 'giustificazione' dell’anima. Non so perché alcune persone provino questo rigetto mentre altre, come me, trovino nel riduzionismo un credo ultimo. Forse la mia formazione permanente nel campo della fisica, e della scienza in generale, mi ha trasmesso un profondo timore nel vedere come gli oggetti o le esperienze per noi più consistenti e familiari svaniscano appena ci si approccia alla scala infinitesimale, nei meandri di un etere stranamente privo di sostanza, in una miriade di effimere e vorticose spirali di attività matematiche quasi incomprensibili. Questo in me evoca un timore cosmico. Per me, il riduzionismo non 'giustifica'; anzi, aggiunge mistero.
L’argomento riguardo alla spiegazione riduzionista è il seguente: possiamo dare un’adeguata spiegazione dei fenomeni che descriviamo con un linguaggio 'alto' (ad esempio le persone che provano un senso di meraviglia nei confronti dell’universo) interamente in termini di linguaggio 'basso' (quello della scienza post-galileiana)?
Naturalmente alcuni filosofi vorrebbero negare qualunque differenza dal punto di vista ontologico tra gli uomini e le macchine. L’unica differenza tra gli uomini, da una parte, e le macchine, dall’altra, che sembrano mostrare un comportamento diretto a uno scopo, come i missili teleguidati e i computer, a parte una differenza a livello di complessità, sta nella posizione che noi assumiamo nei confronti dello scopo stesso. Come osservatori possiamo assumere una posizione 'intenzionale' nei confronti sia degli esseri umani che dei missili, o possiamo vederli come meccanismi, che è il linguaggio più efficace per esprimere ciò che essi fanno, ma entrambi si spiegano in base agli stessi principi. Potremmo, allora, attribuire coscienza e percezione di sé a robot più complessi? Perché no, obietta Daniel Dennett. Forse il robot percepisce che si sta sforzando di portare a termine il proprio compito consapevolmente. Ma a parte la difficoltà di attribuire coscienza e sentimenti a esseri fatti di plastica e di silicone, questa percezione interiore nei robot sarebbe puramente epifenomenica, costruita essa stessa forse come ulteriore prodezza ingegneristica, tuttavia non essenziale alla considerazione di ciò che essi fanno.
Ma le nostre vite interamente permeate dalle valutazioni morali rimangono su un piano intellettuale opposto. Le valutazioni motivano e riflettono una percezione del loro oggetto che può essere più o meno adeguata. È infatti straordinario come alcuni filosofi possano allegramente parlare di una spiegazione riduzionista come di una prospettiva virtualmente certa, visto ciò che sappiamo della vita umana e della sua evoluzione. Una spiegazione su base neurobiologica della consapevolezza dell’azione umana, in termini di quanto siamo 'interconnessi', opererebbe in primo luogo a livello dell’organismo individuale e spiegherebbe le combinazioni sociali in termini di interazioni fra simili organismi.
Ma la cultura umana di fatto si sviluppa all’interno della società. Come ha rilevato Merlin Donald, nessun essere umano da solo inventa il linguaggio, né tantomeno la cultura. All’origine di tutto ciò abbiamo il fatto che l’evoluzione culturale ha portato nuove valutazioni forti, come quelle sulla base delle quali viviamo oggi, come la democrazia e i diritti umani, e abbiamo quasi un’agenda da seguire per tutti quelli che vogliono fornire una spiegazione più circostanziata dell’evoluzione dell’umanità.
Questo è un obiettivo di valore straordinariamente grande, ma non è così ovvio che ci stiamo muovendo per conseguirlo.