Bibbia, scuola e catechesi. File audio di un corso tenuto da Andrea Lonardo (I lezione)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /03 /2012 - 23:10 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio la registrazioni della prima lezione tenuta da Andrea Lonardo presso l'Istituto di scienze religiose Ecclesia mater per il corso Bibbia, scuola e catechesi, il 2/3/2012. Per altri files audio vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (14/3/2012)

Ascolto

Download bibbia_scuola_catechesi.mp3.

Riproducendo "bibbia scuola catechesi".



Download: Download

ANTOLOGIA DI TESTI DISTRIBUITA PER LE PRIME DUE LEZIONI

Antologia di testi per il corso Bibbia, scuola e catechesi 2012

distribuito I lezione

Tintoretto, Gesù in mezzo ai dottori

Premessa

Due possibili modi di procedere:

1/ un itinerario progressivo, “a scaletta” (dalle fonti alla “res”)

2/ il centro, il cuore

La via scelta dal Concilio Vaticano II

Dei Verbum 2
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona (Seipsum revelare) e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. 

«È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano», di de Lubac (1938!) (su www.gliscritti.it )

L’essenza del cristianesimo (titolo da L. Feuerbach a von Harnack, a K. Adam, a R. Guardini)

sistema o sintesi? l’armonia e la semplicità del cristianesimo

kerygma, rivelazione., creazione: il rapporto Dio, Cristo, uomo

cfr. Il Kerygma nella teologia e nella catechesi: la riflessione di Hans Urs von Balthasar. Appunti da uno studio di Marco Tibaldi, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )... quale rapporto fra dato biblico ed antropologia? il primo Barth sottolinea il paradosso del kerygma, Bultmann sottolinea all’opposto la significatività antropologica quasi a discapito del dato storico, Balthasar completa l’analisi del kerygma con la dimensione trinitaria

dalle conferenze sulla catechesi tenute il 15 ed il 16 gennaio 1983 a Lione e Parigi dell’allora cardinal Joseph Ratzinger (su www.gliscritti.it )
Di tanto in tanto compare il timore che una troppo forte insistenza su tale aspetto della fede [il Dio creatore] possa compromettere la cristologia. Considerando qualche presentazione della teologia neoscolastica, questo timore potrebbe sembrare giustificato.
Oggi, tuttavia, è il timore inverso che mi sembra giustificato. La emarginazione della dottrina della creazione riduce la nozione di Dio e, di conseguenza, la cristologia. Il fenomeno religioso non trova, allora, altra spiegazione al di fuori dello spazio psicologico e sociologico; il mondo materiale è confinato nel campo di indagine della fisica e della tecnica. Ora, soltanto se l’essere, ivi compresa la materia, è concepito come uscito dalle mani di Dio e conservato nelle mani di Dio, Dio è anche, realmente, nostro Salvatore e nostra Vita, la vera Vita.

non c’è kerygma senza Dio, il Kerygma non è mai solo cristologico! 

Origene, De principiis I,2,6
Revelat [Christus] Patrem, per hoc quod ipse intelligitur.
«Cristo rivela il Padre in quanto egli stesso, il Cristo, viene compreso». 

1/ Gesù Cristo Verbum Dei

da J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pp. 32-47 
Il panorama della storia delle religioni ci pone di fronte soprattutto a una scelta di fonda tra due vie che io allora – abbastanza inadeguatamente – avevo designato coi termini “mistica” e “monoteismo”. Oggi invece parlerei piuttosto di “mistica dell’in-distinzione” e di “comprensione di Dio come persona”. In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia “Dio”, qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’ “io” e del “tu” – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a e il dissolversi nell’Uno-tutto... Vorrei indicare già qui le fondamentali conclusione sul tema che recentemente ha tirato J. Sudbrack nel suo libro sullo Pseudo-Dionigi Areopagita e sulla storia del suo influsso. Nel misterioso scrittore del VI secolo che si è celato sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita, Sudbrack scorge il più importante costruttore di ponti tra l’Occidente e l’Oriente, tra il personalismo cristiano e la mistica asiatica. Egli formula l’alternativa di fronte alla quale ci troviamo in questo modo: “Si tratta del dissolversi nell’Uni-totalità o della fiducia originaria in un “tu” infinito, in Dio o qualunque altro sia il nome che si possa dare a quest’entità”. Egli analizza questo problema, secondo la via tracciata da Martin Buber. Il grande pensatore ebreo, nel 1909, nella sua opera Confessioni estatiche, aveva favorito una specie di mistica dell’unità. Dopo la sua conversione “la rifiutò così radicalmente da proibire la ristampa del libro”. Nella sua nuova visione, “non la fusione per giungere all’unità, ma l’incontro è l’elemento fondamentale dell’umana esperienza dell’Essere”. Egli era giunto a capire che quando si parla di mistica spesso vengono scambiati due tipi di accadimento: “Il primo è l’unificarsi dell’anima, che rende l’uomo idoneo all’opera dello Spirito. L’altro accadimento è quella imprecisabile modalità dello stesso atto del relazionarsi, in cui si immagina che due diventino uno”. Sundbrack richiama poi l’attenzione sul modo in cui Lévinas nella sua filosofia dell’ “altro” ha approfondito queste vedute di Buber. Lévinas considera il risolversi della molteplicità in una unità che tutto assorbe come uno smarrimento del pensiero e come una forma di esperienza spirituale che non va fino in fondo. Per lui l’ “infinità” di Hegel rappresenta l’esempio atto a dissuadere da una tale visione dell’unità. Bisogna opporsi al fatto che nella filosofia e nella mistica dell’in-distinzione il “volto dell’altro”, la cui libertà non può mai divenire un possesso, si dissolva in una “totalità” senza nome. In realtà, secondo lui, soltanto se si punta con fiducia sul libero “rimanere altro” dell’altro, si sperimenta la vera infinità. All’unità fusionale, con la sua tendenza al dissolvimento, dev’essere contrapposta l’esperienza personale: l’unità dell’amore è superiore all’ineffabile in-distinzione.
Horst Bürkle ha mostrato che non si può rinunciare al concetto di persona, decisivo a livello della pratica della vita sociale. “Lo sviluppo dell’induismo dell’età moderna mostra che, anche per l’odierna immagine indiana dell’uomo, questo modo di intendere la persona è irrinunciabile [...]. Nelle Upanishad, l’esperienza dell’in-distinzione, del tat tvam asi [“questo tu sei”] non è in grado di fondare il valore e la dignità permanenti d’ogni singolo uomo. Valore e dignità che non si possono conciliare con l’idea che la vita terrena sia solo una fase transeunte nel ritmo dei successivi gradi di rinascita. Il valore proprio della persona e la sua dignità non si possono mantenere saldi in quanto stadio transitorio e sotto la condizione della loro variabilità [...]. Le riforme dell’induismo nell’epoca moderna, pertanto, prendono le mosse anche, coerentemente, dal problema della dignità umana. La maniera cristiana d’intendere la persona viene assunta nel contesto complessivo dell’induismo senza essere però fondata nel modo d’intendere Dio”. Non sarebbe difficile mostrare che la concezione del singolo come persona e la tutela del valore e della dignità d’ogni persona non si possono sostenere senza che siano fondati nell’idea di Dio...
Nell’ultimo stadio di tale esperienza, il “mistico” (N.d.C. nel senso critico precedentemente esposto) non dirà più al suo Dio: “io sono tuo”, ma la sua formula sarà: “io sono Te”. La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità. “Il monismo assoluto è il compimento del dualismo, con il quale inizia la coscienza devota”, dice Radhakrishnan. Quest’esperienza interiore di in-distinzione, in cui ogni separazione affonda e diventa velo irreale che cela l’unità col fondamento di tutte le cose, è poi il motivo della conseguente teologia dell’in-distinzione... nella quale tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità. Al tempo stesso risulta chiaro perché, per la religiosità asiatica, la persona non sia un che di ultimo e perciò Dio stesso non sia concepito come persona: la persona, l’ “io” e il “tu” contrapposti, appartiene al mondo della separazione; anche il confine che distingue l’ “io e il “tu” sprofonda, si rivela provvisorio nell’esperienza che fa il mistico dell’Uno-tutto.

da Henri De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, vol. III, trad. it. Jaca Book, Milano 1996; il testo è stato ripreso dal sito www.letterepaoline.it curato da Luigi Walt
In Gesù Cristo, che ne era il fine, l’antica Legge trovava in precedenza la sua unità. Di secolo in secolo, tutto in questa Legge convergeva verso di Lui. È Lui che, della “totalità delle Scritture”, formava già “l’unica Parola di Dio”…
In Lui, i “verba multa” (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre “Verbum unum” (l’unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di “parole umane”; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, “multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est” (numerose sono le parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno)…
Sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. Unità di pienezza. Concentrazione di luce. L’incarnazione del Verbo equivale all’apertura del Libro, la cui molteplicità esteriore lascia ormai percepire il “midollo” unico, questo midollo di cui i fedeli si nutriranno. Ecco che con il fiat (accada) di Maria che risponde all’annunzio dell’angelo, la Parola, fin qui soltanto “udibile alle orecchie”, è diventata “visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile alle spalle”. Più ancora: essa è diventata “mangiabile”.
Niente delle verità antiche, niente degli antichi precetti è andato perduto, ma tutto è passato a uno stato migliore. Tutte le Scritture si riuniscono nelle mani di Gesù come il pane eucaristico, e, portandole, egli porta sé stesso nelle sue mani: “tutta la Bibbia in sostanza, affinché noi ne facciamo un solo boccone...”.
“A più riprese e sotto varie forme” Dio aveva distribuito agli uomini, foglio per foglio, un libro scritto, nel quale una Parola unica era nascosta sotto numerose parole: oggi egli apre loro questo libro, per mostrare loro tutte queste parole riunite nella Parola unica. Filius incarnatus, Verbum incarnatum, Liber maximus (Figlio incarnato, Verbo incarnato, Libro per eccellenza): la pergamena del Libro è ormai la sua carne; ciò che vi è scritto sopra è la sua divinità…
Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. Così la Legge evangelica non è affatto una “lex scripta” (legge scritta).
Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una “religione del Libro”: è la religione della Parola – ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma scritta. Esso è la religione del Verbo, “non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato e vivo”. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. 

da Romano Penna, Dialettica tra ricerca e scoperta di Dio nell’epistolario paolino, in Penna Romano, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 593-629 (articolo in cui il prof. Penna si sofferma su 1 Cor 1,20, Dov’è il ricercatore di questo mondo?, e su Rm 10,20=Is 65,1, Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano)
Nell’epistolario, il vocabolario di ricerca (ζητεω, επιζητεω, εκζητεω, συζητεω, ζητησις) non presenta mai «Dio» come oggetto dell’azione di ricerca; anzi, quando i due termini sono accostati è per negare esplicitamente la possibilità o almeno la fruttuosità di una tale ricerca. Certo, il concetto viene espresso pure con un altro e abbondante lessico del ricercare, ma esso riguarda normalmente non più il Dio «naturale», bensì quello «rivelato», «cristiano»; allora, la ricerca qualifica lo stato postbattesimale e pistico del cristiano. La stessa osservazione vale analogamente per il correlativo vocabolario del ritrovamento (ευρισκω, καταλαμβανω, επιτυγχανω ecc.).
(p. 593)
La ricerca di Dio, che pur è una dimensione connaturale all’uomo, fallisce il risultato perché, imprevedibilmente, lo specifico Dio cristiano si colloca al di fuori della sua prospettiva (cfr. Rom 9,16). Egli viene scoperto solo per autorivelazione, non per ricerca. La sua attingibilità è essa stessa un fatto gratuito.
(p. 612)
Nelle lettere paoline ricorre sette volte questa formula [εις αυτον; ad es. «per lui sono tutte le cose» e «noi siamo per lui»]
[...] Lo εις αυτον afferma che l’autorivelazione di Dio presuppone e si innesta proprio su quella nativa capacità, anche se essa da sola resta improduttiva.
Veniamo pertanto a costatare, nel pensiero dell’Apostolo, l’esistenza di un’originale dialettica tra ricerca e scoperta; essa si configura come segue.
Il primo momento che è dato rilevare consiste nello sforzo umano, apparentemente autonomo, di porsi alla ricerca di Dio, della sua natura o della sua volontà; tale movimento, però, si svolge in termini inadeguati rispetto alla «sapienza di Dio misteriosa, nascosta, da lui predeterminata prima dei secoli» (1Cor 2,7); quindi, anche ciò che viene trovato risulta inadeguato sia ai progetti di Dio sia alla vera liberazione dell’uomo.
Il secondo momento (logico, ma anche cronologico) consiste in una autonoma autorivelazione di Dio, il quale, con una insospettata proposta non solo di se stesso quanto anche del proprio piano salvifico (incentrato sulla giustificazione dell’empio mediante la fede nella fecondità del sangue di Cristo), supera e sconfigge l’a priori della ricerca umana facendosi vedere ben più grande dei suoi presupposti e delle sue possibilità sia intellettuali che ascetiche; Dio diventa così, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata (cfr. Rom 10,20).
A un dono siffatto, tuttavia, come terzo momento, consegue non la stasi soddisfatta di chi può cullarsi nella contemplazione passiva di un possesso ormai tranquillamente padroneggiato. La ricerca, infatti, non è interrotta, ma solo prosegue in termini nuovi: davanti al cristiano stanno pur sempre «le profondità di Dio», che il Pneuma battesimale aiuta a indagare (1Cor 2,9-10), con una preoccupazione non di fuga ma di inserzione delle «cose di lassù» nella comune cornice della vita quotidiana (Col 3,1 e contesto). Ogni momento dell’esistenza cristiana, in questo modo, può rappresentare una possibilità di accesso al Dio che, mediante Cristo e nello Spirito, ha sconvolto i nostri modi naturali di tensione verso di lui soltanto per venirci incontro nella sua vera identità di Salvatore storico e gratuito, quale l’uomo da solo avrebbe fallito. Potremmo dire, in un certo senso, che il nativo εις αυτον si tramuta semplicemente nel più preciso e biblico προς τον θεον.
Ma rimane ancora sempre una scoperta da fare, poiché Dio (non solo il Dio naturale ma anche e ancor più il Dio cristiano) è «insondabile e ininvestigabile» (Rom 11,33). Si giustifica quindi ogni cammino anche a tentoni della fede stessa: credere, infatti, tutt’altro che disporre boriosamente di Dio, significa solo collocarsi con umiltà nell’onda del suo mistero. Non per nulla, l’autore paolino di Ef prega «affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi conceda uno Spirito di sapienza e di illuminazione per conoscere… quale sia la traboccante grandezza della sua potenza verso di noi credenti» (1,17.19; cfr. 3,18).
(pp. 628-629).

cfr. il “mysterion” in Paolo: 1Cor 2,1.7; Rom 16,25; Col 1,26.27; 2,2; 4,3; Ef 1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19

dalla Lectio su Giovanni 15 tenuta da Benedetto XVI durante la visita al Pontificio Seminario Romano Maggiore, il 12/2/2010
Il Signore dice: "Non vi chiamo più servi, il servo non sa quello che fa il suo padrone. Vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi". Non più servi, che obbediscono al comando, ma amici che conoscono, che sono uniti nella stessa volontà, nello stesso amore.
La novità quindi è che Dio si è fatto conoscere, che Dio si è mostrato, che Dio non è più il Dio ignoto, cercato, ma non trovato o solo indovinato da lontano. Dio si è fatto vedere: nel volto di Cristo vediamo Dio, Dio si è fatto "conosciuto", e così ci ha fatto amici.
Pensiamo come nella storia dell'umanità, in tutte le religioni arcaiche, si sa che c'è un Dio. Questa è una conoscenza immersa nel cuore dell'uomo, che Dio è uno, gli dèi non sono "il" Dio. Ma questo Dio rimane molto lontano, sembra che non si faccia conoscere, non si faccia amare, non è amico, ma è lontano. Perciò le religioni si occupano poco di questo Dio, la vita concreta si occupa degli spiriti, delle realtà concrete che incontriamo ogni giorno e con le quali dobbiamo fare i calcoli quotidianamente. Dio rimane lontano.
Poi vediamo il grande movimento della filosofia: pensiamo a Platone, Aristotele, che iniziano a intuire come questo Dio è l'agathòn, la bontà stessa, è l'eros che muove il mondo, e tuttavia questo rimane un pensiero umano, è un'idea di Dio che si avvicina alla verità, ma è un'idea nostra e Dio rimane il Dio nascosto.
Poco tempo fa, mi ha scritto un professore di Regensburg, un professore di fisica, che aveva letto con grande ritardo il mio discorso all'Università di Regensburg, per dirmi che non poteva essere d'accordo con la mia logica o poteva esserlo solo in parte. Ha detto: "Certo, mi convince l'idea che la struttura razionale del mondo esiga una ragione creatrice, la quale ha fatto questa razionalità che non si spiega da se stessa". E continuava: "Ma se può esserci un demiurgo - così si esprime -, un demiurgo mi sembra sicuro da quanto Lei dice, non vedo che ci sia un Dio amore, buono, giusto e misericordioso. Posso vedere che ci sia una ragione che precede la razionalità del cosmo, ma il resto no". E così Dio gli rimane nascosto. È una ragione che precede le nostre ragioni, la nostra razionalità, la razionalità dell'essere, ma non c'è un amore eterno, non c'è la grande misericordia che ci dà da vivere.
Ed ecco, in Cristo, Dio si è mostrato nella sua totale verità, ha mostrato che è ragione e amore, che la ragione eterna è amore e così crea. Purtroppo, anche oggi molti vivono lontani da Cristo, non conoscono il suo volto e così l'eterna tentazione del dualismo, che si nasconde anche nella lettera di questo professore, si rinnova sempre, cioè che forse non c'è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male; che il mondo è diviso e sono due realtà ugualmente forti: e che il Dio buono è solo una parte della realtà.
Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un'apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male?
Ma Dio non è più sconosciuto: nel volto del Cristo Crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell'onnipotenza. Per noi uomini potenza, potere è sempre identico alla capacità di distruggere, di far il male. Ma il vero concetto di onnipotenza che appare in Cristo è proprio il contrario: in Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire: qui si mostra la sua vera onnipotenza, che può giungere fino al punto di un amore che soffre per noi. E così vediamo che Lui è il vero Dio e il vero Dio, che è amore, è potere: il potere dell'amore. E noi possiamo affidarci al suo amore onnipotente e vivere in questo, con questo amore onnipotente.
Penso che dobbiamo sempre meditare di nuovo su questa realtà, ringraziare Dio perché si è mostrato, perché lo conosciamo in volto, faccia a faccia; non è più come Mosé che poteva vedere solo il dorso del Signore. Anche questa è un'idea bella, della quale San Gregorio Nisseno dice: "Vedere solo il dorso vuol dire che dobbiamo sempre andare dietro a Cristo". Ma nello stesso tempo Dio ha mostrato con Cristo la sua faccia, il suo volto. Il velo del tempio è squarciato, è aperto, il mistero di Dio è visibile. Il primo comandamento che esclude immagini di Dio, perché esse potrebbero solo sminuirne la realtà, è cambiato, rinnovato, ha un'altra forma. Possiamo adesso, nell'uomo Cristo, vedere il volto di Dio, possiamo avere icone di Cristo e così vedere chi è Dio.
Io penso che chi ha capito questo, chi si è fatto toccare da questo mistero, che Dio si è svelato, si è squarciato il velo del tempio, mostrato il suo volto, trova una fonte di gioia permanente. Possiamo solo dire: "Grazie. Sì, adesso sappiamo chi tu sei, chi è Dio e come rispondere a Lui". E penso che questa gioia di conoscere Dio che si è mostrato, mostrato fino all'intimo del suo essere, implica anche la gioia del comunicare: chi ha capito questo, vive toccato da questa realtà, deve fare come hanno fatto i primi discepoli che vanno dai loro amici e fratelli dicendo: "Abbiamo trovato colui del quale parlano i Profeti. Adesso è presente". La missionarietà non è una cosa esteriormente aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa. Chi ha visto, chi ha incontrato Gesù, deve andare dagli amici e deve dire agli amici: "Lo abbiamo trovato, è Gesù, il Crocifisso per noi".

Distribuito la II lezione

2/ Cristo è il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione 

dalla Dei Verbum 2
Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione.

dalla relazione Gesù di Nazaret: realtà storica e potenza salvifica. Un approccio teologico al libro di Benedetto XVI , di S.Em. il cardinal Camillo Ruini al Clero della Diocesi di Roma, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense, il 6 dicembre 2007
Termino con una considerazione più personale, che riguarda i rapporti tra la nostra conoscenza di Gesù e la nostra conoscenza di Dio. Nella relazione dello scorso anno (N.d.R. Relazione al clero di Roma), dedicata alle strutture del pensiero di Benedetto XVI, osservavo che, in concreto, la via che conduce a Dio è Gesù Cristo: soltanto in lui infatti possiamo conoscere il volto di Dio, il suo atteggiamento verso di noi e il mistero della sua vita intima, e soltanto nella croce del Figlio – manifestazione radicale ed estrema dell’amore di Dio per noi – può trovare una risposta, misteriosa ma convincente, il problema del male e della sofferenza, che è la fonte del dubbio più grave circa l’esistenza di Dio. Vorrei ora percorrere, per così dire, la strada inversa, mostrando che per conoscere davvero Gesù Cristo è necessario fare spazio a Dio. Se infatti Dio non c’è, o comunque non può agire nella storia e manifestarsi personalmente a noi, il Gesù dei Vangeli, in concreto il Gesù reale e storico, perde consistenza e svanisce inevitabilmente: non solo non potrebbe aver operato dei miracoli e tanto meno essere risorto dai morti, ma il suo stesso rapporto intimo, anzi unico con Dio e il suo porsi come colui nel quale si incontra Dio potrebbero essere al massimo una nobile illusione.

3/ La storia della salvezza

Dei Verbum 3. Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.
Cristo completa la Rivelazione
4. Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini », « parla le parole di Dio » (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).

La storia della salvezza nella catechesi. Rileggendo Sofia Cavalletti, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )
Le pagine di Heschel sulla differenza tra spazio e tempo sono ormai un classico. La creatura umana può dominare lo spazio, sia muovendosi in esso, sia occupandolo; in contrapposizione a questo,
il tempo è «al di là della nostra portata, al di là del nostro potere. È contemporaneamente vicino e lontano, intrinseco a ogni nostra esperienza, eppure trascendente»[1].
Nel suo volume Il potenziale religioso dei bambini tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di una esperienza, così Sofia Cavalletti, ripropone nella catechesi le puntuali osservazioni di A. Heschel[2]. La storia della salvezza è così posta immediatamente nell’ordine della grazia ed, insieme, con essa è reso comprensibile il dramma dell’esistenza umana.
La Cavalletti sottolinea così che la catechesi è chiamata a mostrare come la storia della salvezza rende la vita dell’uomo intellegibile, quella vita che altrimenti non avrebbe capo e coda[3]:
Il messaggio biblico dicevamo – è particolarmente legato al tempo, e al tempo nella concretezza degli eventi della storia. È proprio il senso storico che distingue Israele dagli altri popoli dell’antichità. Per senso storico intendiamo la percezione del concatenamento degli eventi, e quindi di un pensiero che soggiace ad essi; il senso storico è «una forma speciale del pensiero causale, applicato a una successione di eventi politici di una certa estensione»[4]. In Israele non troviamo una filosofia della storia, ma «una intelligenza della storia»[5], cioè una penetrazione sapienziale in essa, una capacità di scrutarne i dati in profondità, per scoprirvi un livello che va oltre i dati. Il profeta, che è l’esponente della spiritualità ebraica, è interprete della storia[6].
E la storia della salvezza opera questa unificazione della storia proprio a partire dalla rivelazione del Dio unico[7]:
La storia biblica conserva la necessaria globalità perché in essa gli avvenimenti sono legati insieme dalla costante presenza del Dio unico; è il Dio uno che fa «una» la storia. Le generazioni si susseguono; ma oltre la moltitudine di personaggi maggiori e minori che popolano in folla la scena d’Israele, c’è in essa sempre la presenza costante del Signore della storia. Egli è già presente all’origine di essa e anche prima, perché è l’artefice della creazione, e l’accompagna nel suo fortunoso svolgersi, proiettando la sua presenza alla conclusione di essa.
La Cavalletti sottolinea come la “storia della salvezza” acquisisce significato ancor più oggi quando taluni vorrebbero misconoscere le cosiddette “grandi narrazioni” per ritenere plausibili solo micro-narrazioni di frammenti di vita personale. La catechesi è chiamata a custodire tutta l’ampiezza della prospettiva biblica[8]:
Il messaggio biblico è un messaggio di speranza. Non si tratta di un progressismo consolatorio, né di un ottimismo preconcetto, che il pensiero post-moderno rifiuta. Lyotard si domanda se oggi sia più possibile «organizzare la folla degli avvenimenti che ci vengono dal mondo, umano e non umano, mettendoli sotto l’Idea di una storia universale dell’umanità»[9]. Vattimo lo nega; per lui «il rendersi conto dell’universalità della storia ha reso impossibile la storia universale»[10]. Perché noi lo affermiamo? Il messaggio biblico si basa su una sapienza, che è così grande da essere considerata rivelata, e su un avvenimento: la risurrezione di Cristo. In lui la vittoria sul male e sulla morte è già una realtà del nostro mondo; ma è limitata alla sua persona. Il progetto di Dio riguarda l’universo. Noi viviamo nel tempo dell’attesa e della speranza.
La catechesi del Buon pastore, ideata dalla Cavalletti, non si sofferma così innanzitutto sui singoli episodi della storia biblica, ma prima ancora sulla sua vastità e sulla sua unità[11]:
La Bibbia [...] ci permette di parlare dei singoli eventi senza che questi perdano di tensione, a condizione di non perdere d’occhio, nelle singole narrazioni, la globalità della storia in cui esse si realizzano. A nostro avviso la narrazione delle singole bellissime storie bibliche va fatta in riferimento costante al tempo colto nella sua globalità come pure nelle scansioni fondamentali di passato, presente e futuro. È su questa base globale che potranno poi porsi tutte le successive considerazioni sui vari aspetti della storia e sui singoli eventi.
La prima considerazione verterà dunque sulla vastità della storia biblica, vastità che va insieme al suo carattere unitario.
Il racconto iniziale si appoggia su un materiale che tende a colpire l’immaginazione, guidando alla presa di coscienza della lunghezza della storia
[12]: una striscia, lunga oltre 50 metri, viene svolta insieme ai bambini, dicendo che in essa ogni filo rappresenta oltre mille anni. Un filo non è nemmeno un millimetro; quanti fili ci saranno in tutta la storia? Quanti milioni di anni passano fra le nostre mani, mentre svolgiamo la striscia? Il racconto che accompagna questa presentazione parte dalla creazione e dal lunghissimo tempo in cui essa viene realizzata, prima che nel mondo ci sia la presenza della creatura umana. Quando questa appare trova il suo ambiente vitale già pronto; c’è nel mondo tutto quello che può essergli necessario per viverci. Queste sono constatazioni che emergono dall’osservazione stessa della realtà. Da esse può sorgere spontanea la domanda: chi può aver preparato tutto questo per me?
La Bibbia fornisce la risposta a questo interrogativo: è Dio che ha creato il mondo, l’uomo e la donna. La Bibbia dà il nome all’artefice della realtà che ci circonda. Tutto è stato fatto per la creatura umana e per questo essa arriva ultima nell’opera della creazione, come l’invitato al banchetto arriva quando la mensa è stata posta e imbandita.
Dall’inizio Dio accompagna l’umanità, che, una generazione dopo l’altra, viene a popolare la storia nel suo svolgersi per tappe successive, fino ad entrare egli stesso nella vicenda umana, nella persona di Gesù Cristo. È il momento che chiamiamo redenzione
[13].
La presenza costante di Dio dà un senso alla storia e la guida verso una meta: quella di accogliere in pienezza la pienezza di Dio, «Dio tutto in tutto». È quel momento che chiamiamo parusia.
Ritroviamo le scansioni fondamentali del tempo – passato, presente e futuro – tenute insieme dalla presenza costante di Dio. Alla percezione di esse – esperienza umana fondamentale – il messaggio biblico aggiunge la presenza di una Persona: quella del Dio della storia. Non siamo soli nel fluire del tempo; c’è Dio che guida la storia con sapienza e amore. La storia si presenta così unitaria e acquista significato: oggi riceviamo l’eredità del passato e conosciamo il traguardo verso cui ci muoviamo. L’incognita del futuro si riempie di speranza.
Da questo passaggio emerge la centralità dei tre grandi capisaldi della storia biblica: la creazione, la redenzione che si realizza con l’incarnazione e la parusia. La storia tutta diviene significativa e non è più il regno del caso e della morte di tutto.
Proprio questo sguardo ampio come la storia intera permette al bambino di accogliere la propria piccolezza, senza perdere fiducia, anzi maturando la grande speranza[14]
Queste considerazioni si svolgono in un continuo gioco tra piccolo e grande ed educano a prendere il giusto atteggiamento nella realtà. Si dà allora uno strano paradosso: più piccoli ci si sente e più grande è la gioia. La piccolezza diventa in certo modo il «metro» per misurare la grandezza dell’amore di Dio.
La piccolezza della creatura, lungi dall’essere coscienza mortificante, dà ali allo spirito, aprendo la persona alla relazione nello stupore e nella gratitudine, in un inno di gioia e di lode.
La Cavalletti sottolinea che questa visione unitaria che nasce dall’orizzonte biblico è pienamente confacente alle necessità di un’educazione piena[15]:
A nostro avviso ogni opera educativa per essere costruttiva deve essere unitaria, condurre cioè a un punto di convergenza da cui tutto prende significato. Il frammentario non educa nel profondo. Il punto di convergenza però deve essere tale da far spaziare lo sguardo verso l’illimitato.
In particolare, proprio la “storia della salvezza” spalanca al bambino orizzonti grandi e non miseri ed ottusi. La Cavalletti si richiama qui alla sua grande ispiratrice pedagogica, Maria Montessori[16]:
Queste riflessioni dei bambini sembrano essere espressione di quello che la Montessori chiama «educazione dilatatrice»[17], un’educazione cioè che fa affacciare il bambino a finestre aperte verso l’infinito e l’attrae verso orizzonti sconfinati. L’educazione deve essere tale sul piano conoscitivo, per poterlo essere anche sul piano morale dei comportamenti. «Ingrandire il mondo», ella dice, abbattere ogni barriera che possa impedire la respirazione dell’essere umano nella pienezza delle sue capacità; dare a chi è l’immagine di Dio il cibo che gli corrisponde, perché possa esplicare tutte le sue potenzialità. È quanto già i medioevali chiamavano extensio animi ad magna.
Il bambino, infatti, come sottolinea tutto il lavoro della Cavalletti, si nutre e gode di un orizzonte di fede. Esso non si sovrappone a lui come una dura imposizione esterna, bensì gli è connaturale poiché anch’egli è uomo[18]:
È nostra convinzione, basata sull’osservazione delle reazioni dei fanciulli, che la teologia essenziale è il cibo che il bambino e il fanciullo cercano, per appagare la loro esigenza di trovare il loro posto nella realtà.
E ancora[19]:
La sete del fanciullo, non meno di quella del bambino, è teologica. La sete dell’essere umano è teologica. 

- il concetto di oikonomia

Il concetto di “economia”, di disegno divino, in Paolo e nei padri della Chiesa: la creazione e la storia come “casa” di Dio. Appunti in forma di recensione ad un articolo di Giulio Maspero, di Andrea Lonardo (da www.gliscritti.it )
Questa economia (oeconomia) della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi...
(DV2). L’espressione economia, οικονομια, è centrale nel linguaggio teologico, come ci manifesta il Concilio Vaticano II[1]. Benedetto XVI ne ha sinteticamente espresso il senso e la ricchezza in un passaggio della sua catechesi sull’inno con il quale si apre la lettera agli Efesini[2]:
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.
Siamo, dunque, di fronte a un grandioso affresco della storia della creazione e della salvezza.

E’ subito evidente come con questa espressione si vuole indicare l’unità del disegno divino. Ne fa parte la creazione, il peccato non è in grado di interromperlo, l’incarnazione lo porta a compimento, aprendolo alla parousia. E’ il vero disegno, il vero senso che sostiene il mondo. Senza questa unità, niente avrebbe significato – perché si dà un senso solo nel rapporto fra una realtà particolare ed il tutto della realtà! Ogni singolarità e, soprattutto, ogni vita umana trova in questo disegno il proprio senso, la propria vocazione e missione, il proprio futuro. La stessa unità della Bibbia discende da questa unità di oikonomia e non avrebbe modo di essere al di fuori di essa.
Se veniamo alle ricorrenze bibliche del termine nella Scrittura possiamo seguire una evoluzione dell’utilizzo del vocabolo dall’ambito dell’amministrazione affidata da un superiore ad un suo sottoposto all’ambito dell’ “amministrazione” divina dell’intero creato e dell’uomo, perché tutto raggiunga la comunione con Dio in Cristo.
Il termine oikonomia indica nel greco ellenistico, così come ci testimonia anche il greco della LXX, innanzitutto l’ “amministrazione”. Il termine ricorre due volte nella versione greca di Is22,19.21, nei versetti contro Sebnà: “Ti toglierò l’economia (l’amministrazione)”. Nello stesso senso primario compare nelle parabole, in Lc 16,2.3.4: “Rendi conto della tua amministrazione”.
Nel linguaggio paolino, il termine esprime ancora questa amministrazione affidata ad un uomo, ma questa volta ancora più esplicitamente che nel vangelo di Luca, all’interno di un esplicito progetto divino:
Se non lo faccio di mia iniziativa è un incarico (oikonomian) che mi è stato affidato (1Cor9,17).
Penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia (oikonomian tes charitos) di Dio a me affidato a vostro beneficio (Ef3,2).
Di essa (della chiesa corpo di Cristo) sono diventato ministro secondo la missione (oikonomian) affidatami da Dio presso di voi (Col1,25).

Ma – e qui si rivela la profondità dell’espressione - il ministro di Paolo è parte (appartiene!) di un disegno ben più grande della sua stessa vita di apostolo. C’è un disegno, una oikonomia, che abbraccia ogni cosa creata e nulla lascia fuori di sé! Dio ha pensato questo orizzonte, se ne è compiaciuto, lo ha iniziato e lo ha portato a compimento, nella pienezza dei tempi. Lo ha realizzato e lo realizzerà, finché sarà “tutto in tutti”[3]. Qui appare tutta la ricchezza dell’espressione e della sua realtà teologica. Così, ancora nell’epistolario paolino:
Per realizzarlo nella pienezza dei tempi, il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra
(Lett. per il disegno, oikonomian, della pienezza dei tempi, ricapitolare in Cristo...) (Ef1,10).
Far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento (oikonomia) del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio (Ef3,9).
Non badare più a favole e genealogie interminabili che servono più a vane discussioni che al disegno (oikonomian) divino manifestato nella fede (1Tm1,4).

Un recente articolo di Giulio Maspero[4], tracciando l’evoluzione del termine oikonomia, ci aiuta a penetrare ancora di più nella ricchezza teologica di questa visione.
Maspero si sofferma, innanzitutto, sull’etimologia del termine[5]:
Il pensiero cristiano, di fronte alla radicale novità degli eventi salvifici, fu costretto a creare una nuova terminologia, rielaborando concetti e vocaboli già esistenti: in particolare, la dimensione storica della salvezza cristiana fu espressa attraverso la famiglia semantica legata ad οικονομια[6].
La sua radice è composta a partire da: οικος o οικια e da νεμειν: i sostantivi si riferiscono principalmente alla dimora, alla casa, sia come edificio che come focolare. Per estensione significa anche la famiglia in senso allargato, schiavi inclusi, ed il casato da cui si discende. Il verbo assume il significato fondamentale di dispensare, distribuire, e quindi anche quello di pagare, amministrare o abitare. Le cariche politiche potevano essere designate in tale modo. Nel corso del tempo, si aggiunsero i significati tecnici di disposizione di un testo letterario o di un discorso, insieme a quello di adattamento alle circostanze e calcolo in ambito morale. Questo processo spinse J.Reumann a scrivere: “Così, da Senofonte fino all’epoca romana, questa parola, nel suo senso fondamentale di amministrazione della casa, ha continuamente suggerito alla mente del popolo un modo di fare scaltro e sottile, e perfino tra i filosofi, compreso Filone, che l’identificava con una delle virtù del saggio, essa ebbe spesso il senso di espediente”.

L’analisi degli autori greci pre-cristiani porta Maspero ad individuare un senso fondamentale del termine, un senso cosmologico ed, infine, un senso narrativo ed a concludere così per quel che riguarda la riflessione precedente al cristianesimo[7]:
In sintesi, l'analisi degli usi della terminologia in esame negli autori non cristiani dimostra l'interazione dei tre sensi principali: il significato di governo della casa, dei beni e dello stato è il principale ed il più originario, ma quasi immediatamente passa all’ambito cosmologico. Se già nel senso primigenio i termini in studio avevano un significato positivo, questo risalta nel dominio cosmologico. Ultimo cronologicamente, il senso retorico-narrativo riafferma, insieme alle accezioni cosmologiche, la connessione dell’ οικονομια e delle espressioni ad esso collegate, con lo scopo, con la visione d’insieme e con la struttura organica. In questo senso essi acquistano un valore particolarmente interessante nel contesto narrativo ed esegetico. L’arte dell’οικονομια e dell’οικονομειν è dunque quella di governare e organizzare le parti in funzione del tutto, rispettando il contesto e secondo lo scopo ultimo dell’azione. E ciò si applica allo stato-famiglia, all’universo e alla composizione oratoria o narrativa.
Maspero passa poi a riflettere sulla novità dell’utilizzo biblico del termine, con particolare riferimento agli scritti paolini ed afferma[8]:
L'economia cristiana è allora economia del dono, della grazia (οικονομια της χαριτος): amministrazione del mistero dell'amore divino per l’uomo e per il creato, cooperazione con Lui per realizzare il Suo disegno eterno. La fedeltà trova il suo fondamento nella filiazione.
E’, infatti, la lettera agli Efesini che rivela all’uomo che il soggetto e l’autore dell’ οικονομια è Dio stesso e che l’ οικονομια manifesta l’unione del mistero dell’Eterno e del tempo. Il concetto di οικονομια unisce dunque per Paolo la presenza del Figlio di Dio nel mondo e gli eventi salvifici della sua vita terrena, che egli testimonia come apostolo, con il disegno del Padre e Creatore su tutta la storia. L’οικονομια unisce creazione e redenzione nel Figlio di Dio fatto uomo.

In perfetta continuità con le lettere paoline, Ignazio d’Antiochia, nelle sue lettere (ed, in particolare, proprio in quella agli Efesini I,6,1,2-4; I,18,1,2-2; I,20,1,3-5) approfondisce i diversi aspetti del temine[9]:
Invece... proprio la necessità di combattere la gnosi porta Ignazio all’uso di οικονομια, come succederà poi anche con Giustino ed Ireneo: la sua grandezza è proprio l’essere rimasto fedele a Paolo ed ai Vangeli, rifiutando di scindere il disegno divino e la realtà storica dei singoli eventi della vita terrena del Cristo.
Questa linea, che unisce l’affermazione dell’origine divina del disegno di salvezza e la presentazione della materialità e storicità degli eventi della vita di Cristo, caratterizza tutto il primo periodo della patristica. In Atenagora si ripete ancora l’accostamento ignaziano della carne di Cristo con il disegno divino (καν σαρκα θεος κατα θειαν οικονομιαν λαβη). Nel Martyrium Sancti Polycarpi il riferimento è ancora alla carne (την της σαρκος οικονομιαν)[10].

Giustino, similmente, parla dell’oikonomia realizzatasi mediante la Vergine Maria[11], con la nascita di Cristo[12]:
Così per Giustino l’ οικονομια è fondamentalmente la vita terrena di Cristo, dalla sua nascita fino alla sua passione ed alla redenzione dell’uomo, vita terrena che, preparata dall'inizio dei secoli e tipologicamente annunciata nell’Antico Testamento, fonda l’unità dei due Testamenti. Si tratta del disegno del Padre che si realizza in Cristo.
In questo modo alla visione gnostica, che separava i due Testamenti ed interpretava i misteri solo allegoricamente, Giustino contrappone proprio l’οικονομια, che è l’unico progetto del Padre, realizzato nella storia in Cristo e culminato nella Sua passione e morte, con la vittoria sul demonio e la salvezza di ogni uomo, che cerchi la Verità e compia il Bene.

Infine, Maspero, analizza il pensiero di Ireneo di Lione, del quale afferma[13]:
È essenziale notare l’importanza della dimensione trinitaria, in quanto Ireneo è anche il primo ad applicare il termine οικονομος allo Spirito Santo, affermando che unico è il ‘dispensatore’, che governa tutte le cose. Probabilmente i primi Padri erano restii nell'applicare questo termine a Dio, poiché spesso, come si è visto, l'amministrazione era affidata ad un servo ed il senso classico era ancora preponderante, come, d’altronde, nei LXX e nei Vangeli. Ma la concezione dell’ οικονομια paolina permette la maturazione della categoria profondamente positiva che si manifesta nell’opera di Ireneo, sostenuta dalla mediazione linguistica del senso cosmologico e retorico-narrativo della terminologia stessa.
Questa mediazione consente ad Ireneo di raggiungere, alle soglie del III secolo, un mirabile equilibro tra realtà dell’evento concreto e unità del disegno divino, suggellando nel suo concetto di οικονομια l’affermazione della dimensione autenticamente storica della salvezza cristiana.
L’importanza del ricorso al senso retorico-narrativo della terminologia in esame è particolarmente rilevante, in quanto permette ad Ireneo di distinguere perfettamente la storia da Dio, a differenza di Tertulliano, Ippolito e Taziano, che cercano di esprimere il mistero stesso trinitario in termini di οικονομια, appoggiandosi principalmente all’accezione fisiologica del vocabolo[14] stesso. Il confronto con la gnosi, invece, obbliga Ireneo a storicizzare l’ οικονομια, fondandone l'unità e la dimensione salvifica nella sua inclusione tra l’αρχη ed il τελος trinitari[15].

Al termine del suo studio Maspero conclude[16]:
Il termine οικονομια giunge, quindi, ad esprimere, in modo sintetico, sia la dimensione storica della salvezza che la dimensione salvifica della storia. Le tre principali accezioni precristiane interagiscono, infatti, fra loro, rendendo possibile il passaggio dall’ambito della gestione della casa, alla concezione del cosmo stesso come una casa retta da un ordine provvidente, per giungere al culmine cristiano del riconoscimento della storia stessa come casa di Dio. Ciò si fonda sullo stesso linguaggio del Nuovo Testamento, nel quale il Figlio si fa servo, per compiere fedelmente il disegno del Padre, dispensando la salvezza ad ogni uomo ed in ogni epoca, mediante i misteri della sua vita terrena, verso i quali tutta la storia converge.
Affrontare il concetto di οικονομια dal punto di vista dello sviluppo semantico a partire dai tre usi originari tutt’altro che negativi, permette di osservare come, in ambito cristiano, essi si fondono mirabilmente per esprimere il mistero dell’Incarnazione del Figlio. Se la concezione provvidenziale si riconduce immediatamente all’accezione cosmologica, la dimensione propriamente soteriologica, particolarmente sottolineata da Ignazio, Giustino ed Ireneo, si ricollega all’accezione retorico-narrativa, poiché in Cristo si rivela il senso del mondo e di tutta la storia: l’amore del Padre.