Aborto e infanticidio nella Roma di Plinio il Giovane. Dalla logica della "patria potestas" ai diritti del più indifeso riconosciuti dall'avvento del cristianesimo, di Giulia Piccaluga
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 12-13/3/2012 un articolo di Giulia Piccaluga. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2012)
Una lettera di Plinio il Giovane (Ad familiares, VIII, 110) databile all'anno 107 e indirizzata al nonno della sua terza moglie, Calpurnio Fabato, informa costui di un doloroso evento verificatosi in famiglia. La diciassettenne Calpurnia, da lui, ormai quarantenne, sposata già da alcuni anni, ha purtroppo abortito, e per sua colpa: non essendosi accorta di essere incinta non ha preso le precauzioni d'uso in questi casi - sembra che si sia messa a saltare alla corda con le schiave! - e così ha perso il bambino privando in tal modo il marito del figlio tanto atteso e il nonno del nipote altrettanto sperato.
Unica nota positiva in questo disastro è che la ragazza, avendo comunque dimostrato di essere in grado di concepire, farebbe comunque presagire futuri discendenti per entrambe le casate, di cui lei e il consorte sono ormai i soli eredi. Analoghe lamentele Plinio invia, nella lettera successiva, anche alla zia paterna della sposa che le fece da madre: Calpurnia si è comportata in modo sventato e puerile, ed è colpa sua se l'erede è andato perduto. C'è solo da sperare che la durissima lezione ricevuta - è stata a lungo in punto di morte, e, comunque, la sua salute ne risentirà permanentemente - le possa servire per il futuro (ibidem, VIII, 111).
Stupisce il lettore dei nostri tempi, in entrambe le missive, il tono seccato e risentito con cui si esprime nei confronti della giovanissima moglie un uomo peraltro notoriamente lodato per l'equilibrio e la mitezza del carattere sempre benevolo, solito essere indulgente nei confronti del prossimo, generoso al punto di fornire di tasca sua la dote alle figlie degli amici indigenti e di agevolare la carriera di molti giovani privi di mezzi. Eppure in varie circostanze si è dichiarato più che soddisfatto di questa sua consorte che, tutta presa dall'ammirazione per la produzione letteraria del marito, che legge e rilegge senza sosta, che arriva a spiarne non vista, da dietro una tenda, i successi nelle pubbliche esibizioni, che addirittura ne canta le composizioni poetiche accompagnandosi con la cetra (ibidem, IV, 19)!
Tuttavia, se inquadrato sullo sfondo delle esigenze sociali dell'epoca, il comportamento di Plinio risulta più che plausibile: occorre fornire discendenti a entrambe le casate che altrimenti si estinguerebbero; occorre che ci siano eredi, e di sesso maschile, per portare avanti i sacra privata, a meno di non dover ricorrere a complicate adozioni; occorre soprattutto, al momento, che Plinio risulti fornito di figli onde rafforzare la propria posizione sociale. Non solo nella civiltà romana, ma in tutte le culture arcaiche la condizione di chi non ha figli è quanto mai marginale e precaria, se non materialmente, almeno a livello morale.
Si pensi, tanto per fare un esempio attingendolo alla letteratura apocrifa, all'avvilimento di Gioacchino, futuro padre di Maria, e al genitore di Giovanni Battista, obbligati a mettersi in coda nella fila di quanti recano le offerte al Signore!
A Roma, in base alla lex Iulia dell'anno 18 prima dell'era cristiana e alla lex Papia Poppaea dell'anno 9, l'esistenza di figli, soprattutto quella di tre figli viventi, garantiva ai genitori importanti privilegi sul piano giuridico, politico e sociale: la madre acquistava il diritto di fare testamento, il padre otteneva speciali avanzamenti nella carriera senatoria. Ovviamente, per tale strumentalizzazione occorrevano figli nati da una moglie legittima, di condizione libera: eventuale prole generata con una schiava era e restava di condizione servile ancora in epoca più che cristianizzata (Codice Teodosiano, IV, 8, 7) potendo essere utilizzata esclusivamente al fine di accrescere il patrimonio familiare consistente, anche, in schiavi.
Niente di strano, dunque, che Plinio, che al proprio cursus honorum ci teneva alquanto, fosse così irritato per l'accaduto che lo privava di un suo preciso diritto, e del quale la responsabilità faceva ricadere duramente sulla moglie, che col suo comportamento da lui stigmatizzato come puerilmente insulso lo aveva privato di una sua spettanza. Non si dimentichi, infatti, che nell'ambito della patria potestas i figli, nati e nascituri, erano assoluta ed esclusiva proprietà del padre che ne poteva disporre a piacere e insindacabilmente.
Infatti, lo stesso individuo che, all'occorrenza, decideva di far esporre un neonato di troppo - semplicemente evitando di sollevarlo da terra e avviandolo così alla morte, oppure, se qualcuno l'avesse raccolto, a un'"esistenza di schiavitù o di prostituzione" - parallelamente ben poteva colpevolizzare la moglie che, abortendo, lo aveva privato di una sua potenziale proprietà.
Abbandonando ora Plinio e le sue smanie per una paternità che la sorte gli negherà per sempre, anche se l'imperatore gli conferirà comunque quello ius trium liberorum che tanto gli premeva (Ad familiares, X, 2), ricaviamo tuttavia dall'episodio quella che era, in ogni caso, la posizione della cultura romana in rapporto all'interruzione di gravidanza: il problema si poneva solo se riferito a una donna sposata, in quanto il nascituro - in sé e per sé inteso come parte integrante delle viscere materne (Digesto, 25, 4, 1) - apparteneva di diritto al marito di lei e rappresentava un bene che gli era dovuto. Era pertanto l'aborto della matrona a dover essere eventualmente punito dalla legge, ma non perché distruzione di un'esistenza in fieri, bensì quale defraudazione di un possesso maritale.
Non ci si illuda al pensiero che in un mondo ancora tanto patriarcale da relegare in una posizione comunque minoritaria le donne anche se di alta posizione sociale, l'essere, il nascituro, comunque in balia della madre e delle sue esigenze, potesse costituire per costei un punto di forza e, quindi, un motivo di rivalsa nei confronti di un sistema politico e sociale non sempre propenso a tutelarne i diritti. Una tradizione sacra raccontava, a proposto del duplice sacrificio (per bambini e bambine) da celebrarsi in occasione della festa di Carmenta, dea legata alla sfera della procreazione e, in specie, del parto, alla quale le donne si rivolgevano per evitare il pericolo di uno sgravio col neonato in posizione podalica, ricordava come "un tempo", irritate perché il Senato aveva osato privarle del diritto di essere trasportate su appositi veicoli, le matrone avessero cominciato ad abortire in massa per protesta nei confronti dei loro mariti, rei di aver preso tale decisione: il Senato, pur castigandole, avrebbe ripristinato il privilegio negato imponendo tuttavia il sacrificio espiatorio di cui sopra (Ovidio, Fasti, I, 619-627).
Ovviamente accadimenti del genere si sarebbero potuti verificare solo nella massima flessibilità della dimensione mitica, ma non nella realtà storica, nella quale, pur essendo sempre possibile che le donne decidessero di abortire per i motivi più svariati, tuttavia la legge vigilava costantemente al riguardo, tanto da istituire addirittura il ruolo giuridico dei custodes e curatores ventris. Costoro, nei casi particolari di gravidanza gabellata (onde introdurre un elemento estraneo nel patrimonio genealogico del coniuge), oppure negata (al fine di privare, abortendo, il marito di una sua proprietà, essenziale, per esempio, a fini testamentari) da parte di una matrona eventualmente prossima a un divorzio, o appena colpita da vedovanza o comunque tesa a danneggiare il consorte, erano incaricati dallo Stato di sorvegliarla sino al parto e durante lo svolgimento di questo (Digesto, 25, 4, 1-4), controllandola alla luce di non meno di tre lumi (ibidem, 25, 4, 1, 25).
La situazione cambierà gradualmente con l'avvento del cristianesimo e il propagarsi dei nuovi valori. L'atteggiamento di Cristo nei confronti dell'infanzia - quanto mai rivoluzionario in un mondo in cui i bambini numerosissimi, di difficile sopravvivenza date le condizioni igienico-sanitarie di allora, e dunque scarsamente tenuti di conto se non nel caso in cui la loro esistenza servisse, come si è visto or ora, a tutelare giuridicamente la posizione dei genitori, mentre neppure si garantiva loro il diritto di avere dei funerali e di disporre di una tomba in caso di morte prima dei dieci anni d'età - mutando radicalmente la valutazione morale, e quindi sociale dell'infanzia, non potrà non condizionare, ammorbidendola e trasformandola, anche quella del feto in gestazione.
Questo non sarà più considerato quale parte integrante del corpo della madre, e dunque lasciato in balia del suo arbitrio, ma, valutato in sé e per sé nella sua proiezione futura, apparirà a tutti gli effetti, potenzialmente, come essere umano, e perciò detentore di anima immortale, e quindi degno di essere tutelato nella sua integrità e rispettato nei suoi diritti.
Il codice di Giustiniano, infatti, registra tale radicale cambiamento di prospettive comminando, per il procurato aborto, una serie di pene esemplari: l'esilio in insula e la confisca parziale dei beni per la donna che abbia agito su se stessa; analogo castigo per chi, di condizione elevata, abbia commesso il delitto su altri, mentre, se di nascita modesta, la condanna in metallum; la pena capitale, comunque, incombe su entrambi nel caso che la donna non sopravviva (Digesto, 48, 19, 38, 5).
(©L'Osservatore Romano 12-13 marzo 2012)