«La divinità di Cristo è oggi il vero “articulus stantis et cadentis ecclesiae”, la verità con la quale la Chiesa sta o cade». Sant'Atanasio e la fede nella divinità di Cristo. Prima predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa
Riprendiamo sul nostro sito la prima predica della Quaresima 2012 tenuta da p. Raniero Cantalamessa nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano alla presenza di Papa Benedetto XVI il 9/3/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2012)
Indice
- 1. Atanasio, il campione della divinità di Cristo
- 2. L’argomento soteriologico
- 3. Corde creditur!
- 4. “Coraggio, ci sono io!”
- Note al testo
In preparazione all’anno della fede indetto dal Santo Padre Benedetto XVI (12 Ottobre 2012 -24 Novembre 2013), le quattro prediche di Quaresima si propongono di attingere slancio e ridare freschezza al nostro credere, mediante un rinnovato contatto con i “giganti della fede” del passato. Da qui il titolo, tratto dalla lettera agli Ebrei, dato all’intero ciclo: “Ricordatevi dei vostri capi. Imitatene la fede” (Ebr 13,7).
Ci metteremo ogni volta alla scuola di uno dei quattro grandi dottori della Chiesa orientale –Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio Nisseno – per vedere cosa ognuno di essi dice a noi oggi, a proposito del dogma di cui è stato il campione, e cioè, rispettivamente, la divinità di Cristo, lo Spirito Santo, la Trinità, la conoscenza di Dio. In altro momento, a Dio piacendo, faremo la stessa cosa per i grandi dottori della Chiesa occidentale: Agostino, Ambrogio e Leone Magno.
Ciò che vorremmo imparare dai Padri non è tanto come annunciare la fede al mondo, cioè l’evangelizzazione, e neppure come difendere la fede contro gli errori, cioè l’ortodossia; è piuttosto l’approfondimento della propria fede, riscoprire, dietro di essi, la ricchezza, la bellezza e la felicità del credere, passare, come dice Paolo, “di fede in fede” (Rom 1,17), da una fede creduta a una fede vissuta. Sarà proprio un accresciuto “volume” di fede all’interno della Chiesa a costituire poi la forza maggiore nell’annuncio di essa al mondo e la difesa migliore della sua ortodossia.
Il Padre de Lubac ha affermato che non c’è stato mai nella storia un rinnovamento della Chiesa che non sia stato anche un ritorno ai Padri. Non fa eccezione il Concilio Vaticano II di cui ci apprestiamo a ricordare il 50 anniversario. Esso è intessuto di citazioni dei Padri; molti dei suoi protagonisti erano dei Patrologi. Dopo la Scrittura, i Padri costituiscono il secondo “strato” di terreno su cui poggia e da cui trae linfa la teologia, la liturgia, l’esegesi biblica e l’intera spiritualità della Chiesa.
In certe cattedrali gotiche del medio evo si vedono delle statue curiose: dei personaggi dalla statura imponente che reggono, seduti sulle spalle, degli uomini piccoli piccoli. È la rappresentazione sulla pietra di una convinzione che i teologi del tempo formulavano con queste parole: “Noi siamo come nani che siedono sulle spalle dei giganti, di modo che possiamo vedere più cose e più lontano di loro, non per l’acutezza del nostro sguardo o con l’altezza del corpo, ma perché siamo portati più in alto e siamo sollevati ad altezza gigantesca”[1]. I giganti erano naturalmente i Padri della Chiesa. Così avviene anche oggi per noi.
1. Atanasio, il campione della divinità di Cristo
Iniziamo la nostra rassegna con sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, nato nel 295 e morto nel 373. Pochi Padri hanno lasciato un segno così profondo nella storia della Chiesa lui. Viene ricordato per molte cose: per l’influsso che ebbe nella diffusione del monachesimo, grazie alla sua “Vita di Antonio”, per essere stato il primo a rivendicare la libertà della Chiesa anche in uno stato cristiano[2], per la sua amicizia con i vescovi occidentali, favorita dai contatti avuti durante l’esilio che segna un rafforzamento dei vincoli tra Alessandria e Roma...
Ma non è di tutto questo che vogliamo occuparci. Kierkegaard, nel suo Diario, ha un pensiero curioso: “La terminologia dommatica della Chiesa primitiva è come un castello fatato, dove riposano in un sonno profondo i prìncipi e le principesse più leggiadre. Basta soltanto svegliarli, perché balzino in piedi in tutta la loro gloria”[3].
Il dogma che Atanasio ci aiuta a “risvegliare” e far risplendere in tutta la sua gloria è quello della divinità di Cristo; per essa subì sette volte l’esilio. Il vescovo di Alessandria è ben convinto di non essere lo scopritore di questa verità. Tutta la sua opera consisterà, al contrario, nel mostrare che questa è stata sempre la fede della Chiesa; che nuova non è la verità, ma l’eresia contraria. Il suo merito, in questo campo, è stato semmai quello di rimuovere gli ostacoli che avevano impedito fino allora un riconoscimento pieno e senza reticenze della divinità di Cristo nel contesto culturale greco.
Uno di tali ostacoli, forse il principale, era l’abitudine greca di definire l’essenza divina con il termine agennetos, ingenerato. Come proclamare che il Verbo è vero Dio, dal momento che esso è Figlio, cioè generato dal Padre? Era facile per Ario stabilire l’equivalenza: generato = fatto, cioè passare gennetos a genetos, e concludere con la celebre frase che fece esplodere il caso: “Ci fu un tempo in cui non c’era!” (in greco, ancora più lapidariamente: en ote ouk en: c’era quando non c’era). Questo equivaleva a fare di Cristo una creatura, anche se non “come le altre creature”. Atanasio difese a spada tratta il genitus non factus di Nicea, “generato, ma non fatto”. Egli risolve la controversia con la semplice osservazione: “termine agenetos fu inventato dai greci i quali non conoscevano il Figlio”[4].
Un altro ostacolo culturale al pieno riconoscimento della divinità di Cristo, meno avvertito al momento, ma non meno operante, era la dottrina di una divinità intermedia, il deuteros theos, legato alla creazione del mondo materiale. Da Platone in poi, essa era diventata un dato comune a molti sistemi religiosi e filosofici dell’antichità. La tentazione di assimilare il Figlio, “per mezzo del quale erano state create tutte le cose”, a questa entità intermedia era rimasta strisciante nella speculazione cristiana, anche se non nella vita della Chiesa. Ne risultava uno schema tripartito dell’essere: al vertice di tutto, il Padre ingenerato – dopo di lui, il Figlio (e più tardi anche lo Spirito Santo) e infine le creature.
La definizione dell'homoousios, del “genitus non factus”, rimuove per sempre il principale ostacolo dell'ellenismo al riconoscimento della piena divinità di Cristo e opera la catarsi cristiana dell'universo metafisico dei greci. Con tale definizione, una sola linea di demarcazione è tracciata sulla verticale dell'essere e questa linea non divide il Figlio dal Padre, ma il Figlio dalle creature.
Volendo racchiudere in una frase il significato perenne della definizione di Nicea, potremmo formularla così: in ogni epoca e cultura, Cristo deve essere proclamato “Dio”, non in una qualche accezione derivata o secondaria, ma nell'accezione più forte che la parola “Dio” ha in tale cultura.
Atanasio ha fatto, del mantenimento di questa conquista, lo scopo della sua vita. Quando tutti, imperatori, vescovi e teologi, oscillavano tra un rifiuto e un tentativo di accomodamento, egli è rimasto irremovibile. Ci furono momenti in cui la futura fede comune della Chiesa viveva nel cuore di un solo uomo: il suo. Dall’atteggiamento verso di lui si decideva da che parte ognuno stava.
2. L’argomento soteriologico
Ma più importante che insistere sulla fede di Atanasio nella piena divinità di Cristo, che è cosa nota e pacifica, è sapere cosa lo motiva nella battaglia, da dove gli viene una certezza così assoluta. Non dalla speculazione, ma dalla vita; più precisamente, dalla riflessione sull’esperienza che la Chiesa fa della salvezza in Cristo Gesù.
Atanasio sposta l'interesse della teologia dal cosmo all'uomo, dalla cosmologia alla soteriologia. Ricollegandosi alla tradizione ecclesiastica antecedente a Origene, specie a Ireneo, Atanasio valorizza i risultati elaborati nella lunga battaglia contro lo gnosticismo, che aveva portato a concentrarsi sulla storia della salvezza e della redenzione umana. Cristo non si colloca più, come nell'epoca degli apologisti, tra Dio e il cosmo, ma piuttosto tra Dio e l'uomo. Che Cristo sia Mediatore non significa che egli sta tra Dio e l'uomo (mediazione ontologica, spesso intesa in senso subordinazionista), ma che unisce Dio e l'uomo. In lui Dio si fa uomo e l'uomo si fa dio, cioè viene divinizzato[5].
Su questo sfondo ideale, si colloca l'applicazione che Atanasio fa dell'argomento soteriologico in funzione della dimostrazione della divinità di Cristo. L'argomento soteriologico non nasce con la controversia ariana; esso è presente in tutte le grandi controversie cristologiche antiche, da quella antignostica a quella antimonotelita. Nella sua formulazione classica esso suona: “Quod non est assumptum non est sanatum”, “Ciò che non è assunto non è salvato”[6]. Esso viene adattato a seconda dei casi, in modo da controbattere l’errore del momento, che può essere la negazione della carne umana di Cristo (gnosticismo), o della sua anima umana (apolinnarismo), o della sua volontà libera (monotelismo).
Nell'uso che ne fa Atanasio, esso può essere così formulato: “Ciò che non è assunto da Dio non è salvato”, dove la forza è tutta in quella breve aggiunta “da Dio”. La salvezza esige che l'uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, ma da Dio stesso: “Se il Figlio è una creatura - scrive Atanasio - l'uomo rimarrebbe mortale, non essendo unito a Dio”, e ancora: “L'uomo non sarebbe divinizzato, se il Verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre”[7]. Atanasio ha formulata molti secoli prima di Heidegger, e prendendola con ben altra serietà, l’idea che “solo un Dio ci può salvare”, nur noch ein gott kann uns retten[8].
Le implicazioni soteriologiche che Atanasio trae dall'homoousios di Nicea sono molteplici e profondissime. Definire il Figlio “consostanziale” con il Padre significava collocarlo ad un livello tale, per cui nulla assolutamente poteva rimanere fuori del suo raggio d'azione. Significava anche radicare il significato di Cristo nello stesso fondamento in cui veniva radicato l'essere di Cristo, cioè nel Padre. Gesù Cristo, si viene a dire, non costituisce, nella storia e nell'universo, una seconda presenza additiva rispetto a quella di Dio; al contrario, egli è la presenza e la rilevanza stessa del Padre.
Scrive Atanasio:
“Buono com'è, il Padre, con il suo Verbo che è anche Dio, guida e sostiene il mondo intero, perché la creazione, illuminata dalla sua guida, dalla sua provvidenza e dal suo ordine, possa persistere nell'essere ... L'onnipotente e santissimo Verbo del Padre, penetrando tutte le cose e arrivando ovunque con la sua forza, dà luce ad ogni realtà e tutto contiene ed abbraccia in se stesso. Non c'è essere alcuno che si sottragga al suo dominio. Tutte le cose da lui ricevono interamente la vita e da lui sono mantenute in essa: le creature singole nella loro individualità e l'universo creato nella sua totalità”[9].
Occorre tuttavia fare una precisazione importante. La divinità di Cristo non è un “postulato” pratico, come è, per Kant, l’esistenza stessa di Dio[10]. Non è un postulato, ma la spiegazione di un “dato”. Sarebbe un postulato, e dunque una deduzione umana teologica, se si partisse da una certa idea di salvezza e se ne deducesse la divinità di Cristo come l’unica capace di operare tale salvezza; è invece la spiegazione di un dato se si parte, come fa Atanasio, da una esperienza di salvezza e si dimostra come essa non potrebbe esistere se Cristo non fosse Dio. Non è sulla salvezza che si fonda la divinità di Cristo, ma è sulla divinità di Cristo che si fonda la salvezza.
3. Corde creditur!
Ma è tempo di venire a noi e cercare di vedere cosa possiamo imparare oggi dall’epica battaglia sostenuta a suo tempo da Atanasio. La divinità di Cristo è oggi il vero “articulus stantis et cadentis ecclesiae”, la verità con la quale la Chiesa sta o cade. Se in altri tempi, quando la divinità di Cristo era pacificamente ammessa da tutti i cristiani, si poteva pensare che tale “articolo” fosse la “giustificazione gratuita per fede”, ora non è più così. Possiamo dire che il problema vitale per l’uomo d’oggi sia stabilire in che modo viene giustificato il peccatore, quando neppure si crede più di avere bisogno di una giustificazione, o si è convinti di trovarla in se stessi? “Io stesso oggi mi accuso – fa gridare dal palco a uno dei suoi personaggi Sartre - e solo io posso anche assolvermi, io l’uomo. Se Dio esiste l’uomo è nulla”[11].
La divinità di Cristo è la pietra angolare che sorregge i due misteri principali della fede cristiana; la Trinità e l'incarnazione. Essi sono come due porte che si aprono e si chiudono insieme. Scartata quella pietra, tutto l'edificio della fede cristiana crolla su se stesso: se il Figlio non è Dio, da chi è formata la Trinità?
Lo aveva già denunciato, con chiarezza, sant' Atanasio, scrivendo contro gli ariani:
“Se il Verbo non esiste insieme con il Padre da tutta l'eternità, allora non esiste una Trinità eterna, ma prima ci fu l'unità e poi, con il passare del tempo, per aggiunta, ha cominciato ad esserci la Trinità”[12].
(Un’idea - questa della Trinità che si forma “per aggiunta” - che è tornata a essere proposta, in anni non lontani, da qualche teologo che ha applicato alla Trinità lo schema dialettico del divenire di Hegel!). Ben prima di Atanasio, san Giovanni aveva stabilito questo legame tra i due misteri: “Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre” (l Gv 2,23). Le due cose stanno o cadono insieme, ma se cadono insieme, allora dovremmo dire mestamente con Paolo che noi cristiani “siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).
Dobbiamo lasciarci investire in pieno viso da quella domanda così rispettosa, ma così diretta di Gesù: “Ma voi, chi credete che io sia?”, e da quella ancora più personale: “Credi tu?” Credi veramente? Credi con tutto il cuore? San Paolo dice che “con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10). In passato, la professione della retta fede, cioè il secondo momento di questo processo, ha preso a volte tanto rilievo da lasciare nell'ombra quel primo momento che è il più importante e che si svolge nelle profondità recondite del cuore. “ È dalle radici del cuore che sale la fede”, esclama sant’Agostino[13].
Bisogna forse demolire in noi credenti, e in noi uomini di Chiesa, la falsa persuasione di credere già, di stare a posto per quanto riguarda la fede. Bisogna provocare il dubbio - non, s'intende, su Gesù, ma su di noi - per poterci mettere poi alla ricerca di una fede più autentica. Chissà che non sia un bene, per un po' di tempo, non volere dimostrare niente a nessuno, ma interiorizzare la fede, riscoprire le sue radici nel cuore!
Gesù chiese a Pietro tre volte: “ Mi ami tu? “. Sapeva che la prima e la seconda volta, la risposta era uscita troppo in fretta, per essere quella vera. Finalmente, alla terza volta, Pietro capì. Anche la domanda sulla fede ci deve essere posta così; per tre volte, con insistenza, finché anche noi non ci rendiamo conto ed entriamo nella verità: “ Credi tu? credi tu? credi veramente? “. Forse alla fine ci verrà da rispondere: “No, Signore, io non credo davvero con tutto il cuore e con tutta l’anima. Aumenta la mia fede! “.
Atanasio ci ricorda però anche un’altra verità importante: che la fede nella divinità di Cristo non è possibile, se non si fa anche l’esperienza della salvezza operata da Cristo. Senza questa, la divinità di Cristo diventa facilmente un’idea, una tesi, e si sa che a un’idea si può sempre opporre un’altra idea, e a una tesi, un’altra tesi. Solo a una vita –dicevano i Padri del deserto – non c’è nulla che si possa opporre.
L’esperienza della salvezza si fa leggendo la parola di Dio (e prendendola per quello che è, parola di Dio!), amministrando e ricevendo i sacramenti, soprattutto l’Eucaristia, luogo privilegiato della presenza del Risorto, esercitando i carismi, mantenendo un contatto con la vita della comunità credente, pregando. Evagrio, nel IV secolo, ha formulato la celebre equazione: "Se sei teologo, pregherai veramente e se preghi veramente sarai teologo"[14].
Atanasio impedì che la ricerca teologica rimanesse prigioniera della speculazione filosofica delle varie “scuole” e diventasse invece approfondimento del dato rivelato nella linea della Tradizione. Un eminente storico protestante ha riconosciuto ad Atanasio un merito singolare in questo campo: “Grazie a lui – ha scritto - la fede in Cristo è rimasta rigorosa fede in Dio e, conforme alla sua natura, nettamente distinta da tutte le altre forme – pagane, filosofiche, idealistiche – di fede… Con lui, la Chiesa è ridivenuta istituzione di salvezza, cioè, nel senso rigoroso del termine, ‘Chiesa’, il cui contenuto proprio e determinante è costituito dalla predicazione del Cristo”[15].
Tutto questo ci interpella oggi in maniera particolare, dopo che la teologia si è definita come una “scienza” ed è professata in ambienti accademici, molto più sganciati dalla vita della comunità credente di quanto lo fosse, al tempo di Atanasio, la scuola teologica, detta Didaskaleion, fiorita in Alessandria ad opera di Clemente e di Origene. La scienza esige dallo studioso che “domini” la sua materia e che sia “neutrale” di fronte all’oggetto della propria scienza; ma come “dominare” uno che poco prima hai adorato come il tuo Dio? Come rimanere neutrale di fronte all’oggetto, quando questo oggetto è Cristo? Fu uno dei motivi che mi spinsero, a un certo punto della mia vita, ad abbandonare l’insegnamento accademico per dedicarmi a tempo pieno al ministero della parola. Ricordo il pensiero che affiorava in me, dopo aver partecipato a congressi o dibattiti teologici e biblici, soprattutto all’estero: “Poiché il mondo universitario ha voltato le spalle a Gesù Cristo, io volterò le spalle al mondo universitario”.
La soluzione a questo problema non è certo quella di abolire gli studi accademici di teologia. La situazione italiana ci fa vedere gli effetti negativi prodotti dall’assenza di facoltà di teologia nelle università statali. La cultura cattolica e religiosa in genere è respinta in un ghetto; nelle librerie laiche non si trova un libro religioso, a meno che non sia su qualche tema esoterico o di moda. Il dialogo tra teologia e sapere umano, scientifico e filosofico, è svolto “a distanza”, e non è la stessa cosa. Parlando in ambienti universitari, io dico spesso di non seguire il mio esempio (che resta una scelta personale), ma di valorizzare al massimo il privilegio di cui godono, cercando semmai di affiancare allo studio e all’insegnamento anche qualche attività pastorale compatibile con esso.
Se non si può e non si deve togliere la teologia dagli ambienti accademici, c’è però una cosa che i teologi accademici possono fare ed è di essere abbastanza umili da riconoscere il loro limite. La loro non è la sola, né la più alta, espressione della fede. Il Padre Henri de Lubac ha scritto: “Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. È, al contrario, l’insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta. Questo era vero della prima predicazione cristiana, quella degli apostoli, ed è vero ugualmente della predicazione di coloro che sono ad essi succeduti nella Chiesa: i Padri, i Dottori e i nostri Pastori nell’ora presente”[16]. H. U. von Balthasar, a sua volta, parla della “missione della predicazione nella Chiesa, alla quale è subordinata la stessa missione teologica”[17].
4. “Coraggio, ci sono io!”
Torniamo per concludere alla divinità di Cristo. Essa illumina rischiara l’intera vita cristiana.
Senza la fede nella divinità di Cristo:
Dio è lontano,
Cristo resta nel suo tempo,
il Vangelo è uno dei tanti libri religiosi dell’umanità,
la Chiesa, una semplice istituzione,
l’evangelizzazione, una propaganda,
la liturgia, rievocazione di un passato che non c’è più,
la morale cristiana, un peso tutt’altro che leggero e un giogo tutt’altro che soave.
Ma con la fede nella divinità di Cristo:
Dio è l’Emanuele, il Dio con noi,
Cristo, è il risorto che vive nello Spirito,
il Vangelo, parola definitiva di Dio a tutta l’umanità,
la Chiesa, sacramento universale di salvezza,
l’evangelizzazione, condivisione di un dono,
la liturgia, incontro gioioso con il Risorto,
la vita presente, inizio dell’eternità.
È scritto infatti: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna” (Gv 3, 36). La fede nella divinità di Cristo ci è soprattutto indispensabile in questo momento per mantenere viva la speranza sul futuro della Chiesa e del mondo. Contro gli gnostici che negavano la vera umanità di Cristo, Tertulliano levò, a suo tempo, il grido: “Parce unicae spei totius orbis”, non togliete al mondo la sua unica speranza![18] Noi dobbiamo dirlo oggi a coloro che si rifiutano di credere nella divinità di Cristo.
Agli apostoli, dopo aver sedato la tempesta, Gesù rivolse una parola che ripete oggi ai loro successori : “Coraggio! Sono io, non abbiate paura” (Mc 6,50).
Note al testo
[1] Bernardo di Chartres, in Giovanni di Salisbury, Metalogicon, III, 4 (Corpus Chr. Cont. Med., 98, p.116).
[2] Atanasio, Historia Arianorum, 52,3: “Che ha a che fare l’imperatore con la Chiesa?”
[3] S. Kierkegaard, Diario, II A 110 (Trad.ital. di C. Fabro, Brescia 1962, nr. 196).
[4] Atanasio, De decretis Nicenae synodi, 31.
[5] Cfr. Atanasio, De incarnatione 54, cfr. Ireneo, Adv. haer. V, praef.
[6] Gregorio Nazianzeno, Lettera Cledonio (PG 37, 181).
[7] Atanasio, Contra Arianos II 69 e I 70.
[8] Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Pfullingen 1988.
[9] Atanasio, Contra gentes 41-42.
[10] I. Kant, Critica della ragion pratica, capp. III, VI
[11] J.-P. Sartre, Il diavolo e il buon Dio, X, 4, Gallimard, Parigi 1951, p. 267 s.
[12] Atanasio, Contra Arianos I, 17-18 (PG 26, 48).
[13] Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26,2 (PL 35,1607).
[14] Evagrio, De oratione 61 (PG 79, 1165).
[15] H. von Campenhausen, I Padri greci, Brescia 1967, pp. 103-104.
[16] H. de Lubac, Exégèse médièvale, I, 2, Parigi 1959, p. 670.
[17] H.U. von Balthasar, La preghiera contemplativa, citato ivi da De Lubac.
[18] Tertulliano, De carne Christi, 5, 3 (CC 2, p. 881).