Berger, il sociologo ironico che non ama il relativismo, di Massimo Introvigne
Riprendiamo da Avvenire dell’8 /3/2012 un articolo scritto da Massimo Introvigne. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/3/2012)
Una storiella, piuttosto crudele, apre il libro di memorie dell’ottantaduenne Peter Ludwig Berger, uno dei maggiori sociologi contemporanei, Adventures of an Accidental Sociologist: How to Explain the World Without Becoming a Bore (Le avventure di un sociologo per caso. Come spiegare il modo senza diventare noioso, Prometheus, Books, Amherst 2011). Una ragazza riceve dal suo dottore la notizia secondo cui le rimane solo un anno da vivere. «Posso fare qualcosa?», chiede al medico. «Provi a sposare un sociologo», è la risposta. «Mi farà bene alla salute?», incalza la ragazza. E il dottore: «No, ma vedrà che l’anno le sembrerà molto, molto più lungo».
Costellato di altre storie umoristiche – alcune delle quali a spese di una categoria per cui Berger confessa di avere scarsa simpatia, gli economisti, «che sanno tutto – ma non sanno nient’altro» – il volume è la cronaca di una battaglia durata tutta la vita per provare che si può essere sociologi senza essere noiosi. Berger nasce come sociologo della religione. La sua tesi di laurea è sui pentecostali di lingua spagnola a New York e quella di dottorato sulla comunità Baha’i negli Stati Uniti.
La sua carriera universitaria conosce un grande successo con quattro opere degli anni 1960: Invito alla sociologia (1963), La costruzione sociale della realtà (con Thomas Luckmann, 1966), La sacra volta (1967) e Il brusio degli angeli (1969). Nelle prime due Berger presenta la teoria, straordinariamente influente, secondo cui le idee non sono rappresentazioni più o meno fotografiche della realtà ma sono socialmente costruite, culturalmente determinate e politicamente negoziate. Nei due testi del 1967 e del 1969 propone una delle più articolate formulazioni della teoria classica della secolarizzazione, secondo cui la modernità, con l’affermazione della libertà religiosa, determina non la scomparsa ma una perdita di vigore e di centralità della religione.
Senonché, a partire dagli anni 1970, gli entusiasti dei suoi quattro libri più famosi si rivoltano contro di lui. La costruzione sociale della realtà è confusa con le teorie postmoderne del relativismo assoluto di Jacques Derrida (1930-2004), secondo cui non esiste la realtà ma soltanto infinite interpretazioni, mentre Berger – se demistifica il modo in cui nasce l’interpretazione – tiene ferma l’oggettività del reale e non ama i relativisti. Quanto alla secolarizzazione, di fronte alla rinascita dell’islam e al successo di nuove forme di cristianesimo, Berger si convince che si tratta di un’eccezione tipica solo di alcuni Paesi occidentali alla regola secondo cui la religione, in realtà, è perfettamente capace di resistere alla modernità e prosperare. Oggi parla di «de-secolarizzazione», e afferma che le opere degli anni 60 non rappresentano più il suo pensiero attuale.
Più in generale, la riflessione lo ha spinto a mettere in discussione molti miti della sua giovinezza. La sua franca affermazione che il socialismo è fallito, che la prosperità dei popoli è affidata piuttosto a un capitalismo 'dal volto umano', e che il femminismo e l’ideologia di genere hanno prodotto esagerazioni grottesche, hanno finito per mettere Berger ai margini degli ambienti prevalentemente 'liberal' del mondo accademico americano. Nello stesso tempo, a causa delle sue posizioni moderatamente liberali in tema di aborto e omosessualità, non si trova a suo agio neppure tra i conservatori e anche la grande amicizia con il teologo luterano Richard John Neuhaus (1936-2009) non è più stata la stessa dopo la conversione al cattolicesimo di quest’ultimo. Berger, così, è rimasto un solitario, con pochi discepoli diretti.