«Il dibattito, se lo guardiamo in profondità, ruota intorno alla questione se l’uomo Gesù di Nazaret abbia davvero, oppure non abbia, un rapporto unico con Dio».Le conclusioni del cardinale Camillo Ruini al Convegno «Gesù nostro contemporaneo»
Riprendiamo sul nostro sito le Conclusioni del cardinale Camillo Ruini al Convegno «Gesù nostro contemporaneo» (9-11 febbraio 2012) dell’11 febbraio 2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2012)
Per concludere nel modo migliore questo evento “Gesù nostro contemporaneo” penso convenga collocarlo dentro a un percorso, iniziato con l’altro evento di due anni e due mesi fa, “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”. Li unisce non solo la scelta compiuta dal Comitato per il progetto culturale della CEI, e nemmeno soltanto quel vincolo infinitamente più robusto per il quale Gesù di Nazaret è il rivelatore di Dio – del Padre –, come è scritto alla fine del prologo del Vangelo di Giovanni: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18) e, come ha detto Gesù stesso con le parole riportate da Matteo e Luca, “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27; Lc 10,22). È questo il legame tra Gesù e il Padre che confessiamo nella fede.
Ma vi è anche un altro legame, che nasce dal precedente e che costituisce una sua espressione nella storia e nella cultura: il Dio in cui si crede, o non si crede, il Dio di cui anche oggi si discute, in Occidente e in gran parte del mondo – ad esempio in Russia e in America Latina – è, in sostanza, il Dio che ci ha proposto Gesù di Nazaret. Ed è vero pure l’inverso: se Gesù di Nazaret è importante anche oggi per tanti uomini e donne, è perché essi sono convinti, o almeno sperano, che egli abbia un rapporto speciale, anzi unico, con Dio.
Su Gesù, ormai da 250 anni, viene condotta una gigantesca ricerca storico-critica – la più grande mai condotta su uno specifico evento storico – e si è sviluppato un dibattito storico, filosofico e teologico – culturale nel senso forte del termine – assai acceso e che non accenna ad avere termine. Questo dibattito, se lo guardiamo in profondità, ruota intorno alla questione se l’uomo Gesù di Nazaret abbia davvero, oppure non abbia, un rapporto unico con Dio. Anche sul piano storico e culturale, dunque, le questioni di Dio e di Gesù Cristo sono di fatto inseparabili. Questa è la ragione per la quale, come Comitato per il progetto culturale, abbiamo ritenuto di dedicare a queste questioni due momenti di riflessione che formano, in realtà, un unico percorso.
Tenterò ora di “concludere” questo evento, “Gesù nostro contemporaneo”, che ci ha tenuti qui per quattro mezze giornate. Chiaramente non sono in grado di tirare, già adesso, delle vere conclusioni e nemmeno di fare una sintesi. Cercherò semplicemente di individuare un filo conduttore che possa collegare i suoi molteplici e assai diversi momenti, evidenziando la logica che li tiene insieme e il senso complessivo dell’evento. Farò naturalmente dei riferimenti a ciò che è stato detto nei tanti interventi, ma senza alcuna pretesa di esprimere un parere motivato su di essi.
Il titolo che è stato scelto, “Gesù nostro contemporaneo”, indica i due poli entro i quali si gioca tutto il contenuto dell’evento. Da una parte Gesù di Nazaret, il giudeo vissuto duemila anni fa in Palestina, in tutta la concretezza della sua vicenda storica. Dall’altra questo stesso Gesù, proprio in questa sua concretezza, come colui che è vivo oggi, vive con noi e per noi e può dirsi perciò contemporaneo nostro, come di tutti gli uomini e le donne che verranno dopo di noi, non in un senso sostanzialmente metaforico, per indicare la forza con cui è impresso nel nostro ricordo, o anche il nostro impegno a prendere esempio da lui e a conformare il nostro modo di vivere al suo, bensì in senso proprio e reale.
Ci esponiamo così all’obiezione sollevata già nel 1777 da Gotthold Ephraim Lessing, a giudizio del quale verità storiche non possono diventare una prova di verità eterne e la distanza storica che continuamente si allarga tra Gesù e noi comporta una diminuzione inevitabile della sua rilevanza per noi. Osservazione quest’ultima che sembra di semplice buon senso.
Da allora in poi la tendenza a relegare Gesù nel passato si è diffusa fino a diventare per gran parte della cultura attuale quasi un’evidenza, anche quando si riconosce il valore e l’attualità del suo esempio di vita e di alcuni suoi insegnamenti. Per chi crede in lui, relegare Gesù nel passato è però impossibile, significherebbe tagliare il legame che unisce la nostra esistenza alla sua.
Perciò Sören Kierkegaard ha dato a Lessing una risposta secca: quella del “salto” della fede, che supera il tempo e ci rende contemporanei di Gesù. Se ci limitiamo a questo, però, corriamo un altro rischio, quello di evadere dalla storia, mentre il cuore della nostra fede sta proprio nell’entrata di Dio nella storia.
L’intenzione che ha animato e tenuto insieme il nostro evento è esattamente quella di rispondere a Lessing senza evadere dalla storia e anche senza sottovalutare la concretezza della distanza storica. Perciò l’evento ha per così dire due facce. Da una parte intende avere un piede ben piantato dentro alla storia, in primo luogo quella che riguarda direttamente Gesù di Nazaret; dall’altra vuol mettere in luce come non tutto si esaurisca nella storia, ma la storia stessa si apra all’eternità.
A Gesù di Nazaret sono state dedicate la relazione di apertura, affidata all’importante biblista tedesco Klaus Berger, e quella finale, che abbiamo appena ascoltato, del Vescovo anglicano e a sua volta biblista Nicholas Thomas Wright. Tema della prima era la vicenda storica del Gesù terreno, ma anche la specificità del suo rapporto con Dio Padre, che già lo pone, per così dire, dalla parte di Dio, e non soltanto da quella del mondo a cui apparteniamo e della sua storia: tematiche che Klaus Berger ha approfondito in maniera suggestiva a partire dal superamento, in Gesù, dell’invisibilità di Dio.
Nella relazione che ha appena terminato, Nicholas Thomas Wright ha invece illustrato con rara efficacia la realtà e il significato della risurrezione di Gesù, chiarendo anche con finezza il tipo speciale e unico di storicità che è proprio di questa risurrezione, la quale inaugura la realtà nuova e inesprimibile del regno di Dio.
Mi permetto di aggiungere qui qualche parola per fornire una minima indicazione riguardo allo stato attuale della ricerca sul Gesù storico, a presentare la quale avremmo forse dovuto dedicare un’altra relazione, da collocare all’inizio dell’evento. Non sono un biblista ma questo tema mi ha sempre appassionato, fin da quando ero giovane. Due anni fa è uscito un piccolo libro di Giuseppe Segalla, docente emerito della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, che è il maggiore studioso italiano dell’argomento. In questo libretto, intitolato La ricerca del Gesù storico ed edito dalla Queriniana, Segalla presenta brevemente le grandi tappe di questa ricerca e soprattutto illustra la sua fase attuale e le tendenze in atto: a lui soprattutto farò riferimento.
La prima grande tappa della ricerca storica su Gesù è quella di stampo liberale, illuministico e romantico, che dura dalle ultime decadi del 700 fino ad Albert Schweitzer, all’inizio del 900. Essa era improntata al tentativo di liberare la figura storica di Gesù dai vincoli e dalle sovrastrutture che sarebbero rappresentate dal dogma ecclesiastico, per riscoprirlo nella sua genuinità, che sarebbe quella del sommo maestro di morale, come la morale era concepita nell’800.
Ma alla fine della ricerca diventa evidente la dimensione escatologica della figura di Gesù, cioè la sua attesa del regno di Dio, in altre parole della salvezza ad opera di Dio, che sta per venire. Così, conclude Schweitzer, Gesù esce dal nostro tempo e ritorna nel suo.
È seguita una fase di scetticismo storico, che tendeva ad escludere la possibilità di conoscere con certezza qualcosa del Gesù storico, ad eccezione della sua esistenza, della sua morte in croce e di poco altro: l’esponente di maggior spicco di questa fase è stato il grande esegeta Rudolf Bultmann, celebre per la sua teoria della demitizzazione e per la sua interpretazione esistenziale del messaggio del Nuovo Testamento.
In una celebre conferenza del 1953 un discepolo di Bultmann, Ernst Käsemann, riaffermava però la necessità e la possibilità dello studio del Gesù della storia e apriva così la nuova, seconda ricerca sul Gesù storico, ricca di risultati ma ancora molto condizionata da precomprensioni derivanti da Bultmann. Questa seconda ricerca, ancora a dominanza germanica, si può dire sia durata fino agli inizi degli anni '80.
L’opera di Ed Parish Sanders, Gesù e il giudaismo, uscita nel 1985, può forse dirsi l’inizio della “terza ricerca”, quella che dura tutt’oggi e che si distingue dalle precedenti soprattutto per aver superato la contrapposizione tra Gesù e il giudaismo e per aver messo invece l’accento sull’appartenenza di Gesù al giudaismo palestinese del suo tempo. La maggiore espressione della terza ricerca sono i quattro grossi volumi di John P. Meier, sacerdote cattolico nordamericano, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, editi dalla Queriniana.
Con la terza ricerca il baricentro passa dall’area germanica a quella anglosassone. Sia nella seconda sia nella terza ricerca coesistono posizioni molto differenziate a proposito sia della possibilità di conoscere con maggiore o minore ampiezza e certezza la figura storica di Gesù, sia del suo emergere o meno dalla sola dimensione umana per collocarsi anche dalla parte di Dio.
Negli anni 2000, soprattutto con le opere del biblista inglese James Dunn, La memoria di Gesù, in tre volumi editi in italiano da Paideia, e dell’americano Richard Bauckham, Gesù e i testimoni oculari, che io sappia non ancora tradotta in italiano, si è aperto però quello che Giuseppe Segalla chiama “il secondo versante della terza ricerca”, caratterizzato dal riconoscimento della sostanziale attendibilità storica delle tradizioni su Gesù conservateci nei Vangeli e risalenti appunto alla memoria della comunità di Gesù e in particolare ai “testimoni oculari” di lui, delle sue parole e delle sue opere. Così la figura storica di Gesù riacquista il suo spessore e la sua concretezza, in maniera nuova e criticamente più consapevole. Segalla conclude il suo libretto sottolineando la necessità di ricuperare meglio anche la storicità del quarto Vangelo, cioè delle tradizioni giovannee, diverse ma non alternative a quelle sinottiche, e di integrarla nella ricerca sul Gesù storico. Il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI ha già dato una risposta sostanziale a questa esigenza.
Chiedo venia se indico ancora, brevemente, quali siano, a mio parere, gli aspetti salienti della figura storica di Gesù di Nazaret. Possiamo distinguerli in alcune grandi categorie, senza dimenticare la loro stretta connessione reciproca.
A una prima categoria appartengono le parole e gli insegnamenti di Gesù, incentrati sulla venuta del regno di Dio, che si segnalano per la loro forza sconvolgente e validità intrinseca, capacità di incidere e di convertire: parole antiche e nuove, ma finalmente “uniche” e attuali nella loro sostanza anche dopo duemila anni. Parole dette “come da uno che ha autorità” (Mc 1,22), in maniera impensabile nel contesto giudaico del suo tempo.
Un’altra categoria è costituita dagli “atti di potenza”, “segni” o “opere” che Gesù ha compiuto: la loro storicità sostanziale (al di là del giudizio sui singoli eventi e sulla tendenza alla loro amplificazione) appare incontestabile e la “terza ricerca” su Gesù è per lo più orientata a riconoscerla come dimensione ineliminabile del Gesù della storia, anche se sulla loro interpretazione continua a pesare in larga misura il presupposto della non conoscibilità di interventi diretti di Dio nella storia.
Difficile ma inevitabile e decisiva è poi la questione della coscienza che Gesù ha avuto di se stesso, del suo rapporto con il Padre e della missione che ne scaturiva: coscienza che emerge anzitutto dalla sua preghiera, dalla chiamata dei discepoli e dal tipo di rapporto che egli ha instaurato con loro; in particolare dal modo in cui egli pone se stesso al centro sia di tale rapporto sia del messaggio del regno di Dio, contrariamente alla tesi che ha dominato a lungo nella ricerca storica, secondo la quale il messaggio del regno di Gesù sarebbe stato completamente diverso rispetto alla cristologia post-pasquale degli scritti del Nuovo Testamento.
La questione dell’autocoscienza di Gesù si pone con particolare acutezza in momenti specifici della sua esistenza, come la cena che egli ha consumato con i suoi discepoli prima della sua passione. La tradizione della cena fa parte sicuramente della tradizione più antica, in base ai dati storici niente può esservi di più originale di essa. Soltanto perché risaliva a Gesù stesso, lo “spezzare il pane” ha potuto affermarsi fin dall’inizio in tutte le correnti della comunità post-pasquale. Dalla cena emerge come il Gesù della storia abbia concepito e vissuto la propria morte come decisiva per aprire a noi l’accesso al Dio vivente.
Tutto ciò che si può affermare riguardo a Gesù di Nazaret rimane però in qualche modo “sospeso” davanti alla questione della sua risurrezione dai morti, come già sottolineava con grande forza l’Apostolo Paolo: “se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione e vuota è anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Anche oggi “la fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti”, come ha scritto Benedetto XVI nel secondo volume del Gesù di Nazaret (p. 269). Ma di questo punto decisivo ci ha già parlato ampiamente Nicholas Thomas Wright.
Terminata questa integrazione, posso riprendere il filo delle mie conclusioni. Gran parte dell’evento è stata giustamente dedicata non a quanto è accaduto a Gesù in Palestina bensì alla presenza attuale di Gesù nella storia e nella vita degli uomini. Anche qui si tratta di tenere unite le due facce o le due dimensioni: quella della realtà storica e quella per la quale nella storia è presente, in Gesù Cristo, la salvezza che viene da Dio. Da Gesù è scaturito cioè un grande movimento, una comunità di uomini e donne, che poi, certo, si è divisa e anche frammentata, conservando però una inestirpabile tendenza a ritrovare in lui la propria unità.
Questa comunità ha dato vita a una “storia efficace”, perché è stata e rimane la forza in grado di incidere più in profondità sui modi di pensare e sui comportamenti, sulla cultura e sul vissuto delle persone come dei popoli. Storia efficace ma anche paradossale, perché si svolge secondo la forma della croce-risurrezione, della sconfitta che diventa vittoria: questo paradosso che si rinnova è il segno, o l’indizio, della presenza di Dio.
L’evento ha cercato di analizzare il momento attuale di questa grande storia, nelle sue dimensioni concrete come nel suo impianto di fondo. Quest’ultimo è stato in particolare l’oggetto delle relazioni dei teologi, Pierangelo Sequeri e Piero Coda. Abbiamo visto quindi quanto profondamente Dio, in Gesù Cristo, si è fatto vicino agli uomini, superando quella distanza che la stessa esperienza religiosa, come esperienza del sacro, sembra portare con sé. Abbiamo visto come la prossimità di Dio implichi ed esiga la prossimità e l’amore tra gli uomini: una convinzione, questa, che negli ultimi tempi si è dimostrata “storia efficace” anche al di là del cristianesimo, imponendosi ad altre religioni e culture, almeno come riconoscimento teorico di un criterio superiore al quale dovrebbero essere improntati i rapporti reciproci.
Abbiamo visto, inoltre, il ruolo decisivo che ha l’Eucaristia attraverso la quale la Chiesa, facendo memoria della morte e risurrezione di Gesù, viene resa dalla potenza dello Spirito Santo contemporanea di Gesù, vive in lui e di lui e così realizza e costruisce se stessa. Un aspetto che è rimasto un po’ in ombra nell’evento è proprio il ruolo esercitato dallo Spirito Santo, del quale San Paolo ha scritto queste parole mirabili: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è la libertà” (2Cor 3,17). Esiste cioè un’identificazione dinamica tra Gesù Cristo e lo Spirito Santo, in virtù della quale Gesù si rende presente e contemporaneo mediante l’opera del suo Spirito. E questo Spirito è libero e generatore di libertà o, come è scritto nel Vangelo di Giovanni, “la verità vi farà liberi” (Gv 8,32).
Gesù di Nazaret, nella sua vita terrena, ha manifestato in maniera sovrana questa libertà, che è il riflesso della libertà di Dio, e la storia del cristianesimo, pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi fallimenti è stata giustamente qualificata come “storia della libertà”, storia cioè della crescita del genere umano in direzione della libertà. Tocca a noi, oggi, vivere in noi stessi e manifestare al mondo questa medesima libertà che, contrariamente a un pregiudizio diffuso nella cultura attuale, non è coartata ma alimentata dal suo rapporto con la verità. Questa mattina Henning Ottmann ci ha fatto vedere magistralmente come l’escatologia cristiana abbia cambiato il concetto e l’interpretazione della storia: qualcosa del genere è avvenuto e deve continuare ad avvenire per la libertà.
I molteplici aspetti concreti della contemporaneità di Gesù sono stati oggetto delle varie conversazioni o tavole rotonde, testimonianze, proiezioni, mostre cinematografiche. Si è visto così come anche oggi Gesù sia in realtà molto più presente nella vita e nella cultura di quanto noi stessi ne siamo consapevoli. Alcune forme della sua contemporaneità sono emerse con speciale forza. Quella delle opere di fraternità che scaturiscono dal prendere sul serio il nostro legame con lui. Quella, intima e particolarmente diretta, del rapporto personale e vivificante che si stabilisce tra lui e chi sceglie di trascorrere, mediante il silenzio e la preghiera, la vita in sua compagnia. Quella dell’esperienza del dolore, attraverso la quale Gesù penetra dentro di noi e si immedesima con noi, offrendoci una difficile ma straordinaria possibilità di immedesimarci a nostra volta con lui. Quella infine, la più alta di tutte, che si realizza in chi muore martire per la fede in lui.
Nella conversazione sui giovani e Gesù è risuonata una domanda: questa grande presenza di Gesù ha il futuro assicurato, qui in Italia e in Occidente, o invece i giovani, pur amandolo e ammirandolo per tanti aspetti, stanno perdendo la fede in lui, in concreto stanno abituandosi a vivere a prescindere dal Gesù vivo e reale, sostituendolo magari con un Gesù immaginario, fabbricato da una cattiva letteratura o costruito sulla misura dei nostri gusti? A questa domanda non c’è una risposta prestabilita, una risposta, cioè, in grado di prevedere il futuro della fede in Italia e in Occidente. In realtà questo futuro è aperto, aperto alla nostra libertà e prima ancora alla libertà e alla misericordia di Dio.
Esiste però una risposta precisa e vincolante per ogni credente, che non prevede gli esiti ma indica il nostro compito. Questa risposta si riassume in una parola, che è tra le più antiche e originarie del cristianesimo: la parola missione, come ciascuno di voi ha già compreso. Gesù stesso, con la forza dello Spirito Santo, è colui che è mandato dal Padre, colui che si identifica con la missione che il Padre gli ha affidato. E missionari, mandati da Cristo con il dono dello Spirito, sono gli Apostoli, missionaria era tutta la comunità cristiana delle origini. In ogni epoca la Chiesa ha generato grandi missionari. Oggi probabilmente non basta più che alcuni membri della Chiesa vivano la loro fede come missione, in paesi lontani o qui da noi. Gesù rimarrà sempre nostro contemporaneo, perché vive con noi e per noi nell’eterno presente di Dio. Affinché però anche noi viviamo da suoi contemporanei, con lui e per lui, mi sembra necessario che oggi la missione ritorni ad essere quello che è stata all’inizio: una scelta di vita che coinvolge l’intera comunità cristiana e ciascuno dei suoi membri, ciascuno naturalmente secondo le condizioni concrete della sua esistenza. Se contribuirà a questo scopo, il nostro evento avrà portato frutto.