La responsabilità, contro il rischio zero (dalla rassegna stampa)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /12 /2007 - 14:35 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo dal sito de L’espresso – http://espresso.repubblica.it – l’articolo scritto da Maria Grazia Meda e la scheda che corredava l’articolo scritta da Veronica Salaroli, scritti per il numero del 13 dicembre 2007. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi testi sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Gioventù a rischio zero,
di Maria Grazia Meda


Fumo? Colpa dell'industria del tabacco. Ingrasso? Colpa del fast food. Non studio? Colpa del prof. Psicologi e sociologi lanciano l'allarme. Si sta affermando una cultura dove nessuno si assume più responsabilità.

In America le chiamano 'fat suits', le cause grasse, o del grasso. Più chiaramente: le cause intentate da persone obese contro le catene di fast food. E fanno discutere: non perché l'argomentazione dell'accusa sia un insulto al buon senso, ma perché sono in molti a pensare che le aziende in causa avrebbero dovuto informare meglio i consumatori. E, perché no?, adottare la strategia delle multinazionali del tabacco stampando su ogni hamburger un bel teschio. Insomma, l'obeso considera che la causa della sua patologia non è la propria ingordigia ma l'azienda che non ha fatto tutto il necessario per impedirgli di mangiare.

Assurdo? Piuttosto emblematico di una società che via via si deresponsabilizza, e nel contempo esige di vivere in un mondo a Rischio Zero. Così ci sono ospedali i cui medici rifiutano di fare alcune diagnosi prenatali per paura di non individuare una rara patologia del feto che li condurrebbe dritti in tribunale, o al contrario consigliano l'aborto perché, nel dubbio, preferiscono non correre rischi. E i costruttori di videogiochi cominciano a segnalare sull'imballaggio che troppe ore passate davanti alla consolle possono danneggiare il sistema neurovegetativo, per parare possibili attacchi di genitori che invece di mandare i figli a giocare in giardino li hanno lasciati per ore intere davanti a un computer. Ma la cronaca registra allo stesso tempo che ci sono genitori che si ritengono in diritto di malmenare l'insegnante se il figlio torna a casa con voti insufficienti. Comportamenti ancora marginali, però sintomatici di una nuova 'malattia' sociale, a senso unico: l'individuo vuole essere protetto da tutto senza accettare la corresponsabilità di ciò che gli accade. Ma una società che definisce il proprio orizzonte in termini di rischio zero è una società in crisi.

"È una manifestazione epocale", commenta il filosofo di origine argentina, da anni a Parigi, Miguel Benasayag, autore tra l'altro di 'Utopia e libertà': "Quando la speranza, lo slancio, il desiderio, il nostro potere sono in calo, ci rinchiudiamo in un individualismo narcisista. Che una società aspiri al rischio zero è comprensibile, ma è pericolosamente illusorio: una vita senza rischi è impossibile. E immaginare che lo sia, pur nella sua impossibilità, ha conseguenze nefaste: aumentano la violenza, l'intolleranza, la depressione, la paura". Paura di tutto, senza più alcuna gerarchia né oggettività. Paura che si cristallizza naturalmente sul bene più prezioso della società contemporanea: i suoi figli. Così vediamo emergere comportamenti oggettivamente infondati, espressi in leggi ai limiti dell'assurdo. Qualche esempio? In Francia è ormai obbligatoria la costruzione di un recinto intorno a tutte le piscine private - anche se il proprietario certifica che nessun bambino entrerà mai sulla sua proprietà - e nelle scuole elementari upper class di Los Angeles il regolamento stipula che gli insegnanti non possono spalmare crema solare sugli alunni quando li portano a giocare in cortile, onde evitare qualsiasi contatto fisico ambiguo. La bontà dell'intento è indiscutibile; ma questa iperprotettività nei confronti dei nostri figli, questo volerli proteggere da tutti i rischi possibili e immaginabili, e statisticamente altamente improbabili, è davvero un bene?

Allevarli nella logica di ciò che i ricercatori inglesi definiscono 'bedroom culture', confinati nella loro cameretta sicura e inviolabile con telefono, computer e una montagna di giocattoli, è davvero il miglior modo per farne un giorno degli adulti realizzati e responsabili? No, risponde categorico Tim Gill, autore di 'No Fear. Growing up in a risk averse society' (ed. Calouste Gulbenkian), il libro fresco di stampa che fa discutere i genitori inglesi. Gill è un ricercatore al di sopra di ogni sospetto: per anni ha lavorato presso il Children Council, l'organo governativo che finanzia e pianifica le attività extrascolastiche degli alunni di Gran Bretagna, e ha una figlia, Rosa, di 9 anni. Insomma, nessun genitore può accusarlo di non conoscere in prima persona le ansie di crescere un figlio. Nel suo libro Gill mette in discussione le nuove forme di controllo parentale: "Oggi pensiamo che per essere un buon genitore dobbiamo controllare ogni mossa dei nostri figli e proteggerli da tutto. E quando accade loro qualcosa, diventa implicito che non abbiamo svolto la nostra missione. Invece un aspetto importante di allevare un figlio è di permettergli di diventare indipendente, di essere in grado di stare con gli altri bambini, di risolvere da solo i conflitti con i coetanei. Certo che i bambini sono vulnerabili, ma questo non giustifica imprigionarli sotto una campana di vetro". Gill sottolinea che non ha la ricetta magica del genitore modello, ma ricorda che in una società dove per esempio la droga è un vero pericolo la soluzione non è chiudere i figli in una stanza ma allevarli insegnando loro a vivere in un mondo nel quale il rischio della droga esiste. E ammonisce: "Il vero rischio è che se non responsabilizziamo oggi i nostri figli, domani saranno degli adulti fragili, insicuri e irresponsabili".

Responsabilità: una nozione che sembra manca crudelmente all'uomo contemporaneo. "In una società individualista coltiviamo l'illusione, errata, che 'il rischio è l'altro'", interviene Benasayag: "Quindi ciò che ci accade è per forza responsabilità dell'altro". Io non c'entro, pensiamo.

"È interessante analizzare le relazioni di potere in merito alla condivisione del rischio", commenta François Ewald, amico e allievo di Michel Foucault, docente al Cnam (Conservatoire national des arts et métiers), per anni anche responsabile della Federazione delle compagnie di assicurazione francesi: "Nella società globalizzata siamo interdipendenti: merci, informazioni, esseri umani circolano liberamente, ma su percorsi connessi tra di loro. Le decisioni e le responsabilità sono atomizzate, lasciando all'individuo un margine d'azione e quindi di responsabilità ridotto. La coscienza di questa dipendenza trasmette all'individuo un senso di impotenza". Per Ewald la differenza della percezione del rischio rispetto al passato è enorme: "Nel XIX secolo il rischio si fondava sul principio di condivisione e di solidarietà: si soffriva insieme. Oggi manca questa nozione di solidarietà: il rischio non si condivide più, è una minaccia dalla quale proteggersi individualmente. È diventato un principio di divisione".

Una logica assurda, con conseguenze devastanti sul vivere insieme: tutto ciò che può rappresentare un rischio per il benessere del singolo va immediatamente bloccato, in tribunale se necessario. Certo, in Europa siamo ancora lontani dalla follia litigiosa americana, dove per esempio in molti college decaloghi pretendono di disciplinare puntigliosamente i rapporti tra studenti maschi e femmine, per evitare grane all'istituto. E forse nessuno emulerà mai l'exploit di Stella Liebeck, la cliente di McDonald's che, dopo essersi rovesciata addosso una tazza di caffè bollente, ha fatto causa al gruppo perché il caffè era troppo caldo, e ha vinto. Ma senza andare a casi caricaturali ormai, non solo negli Usa, vari gruppi di obesi pensano seriamente di intentare class action contro alcune catene di fast food. "Il nostro è un mondo schizofrenico: siamo i campioni delle libertà individuali ma abbiamo abdicato alle nostre responsabilità", commenta il penalista Jeffrey M. Rawitz, dello studio legale Jones Day. "La nostra è una società orientata al servizio, siamo tutti clienti potenziali, vogliamo essere accuditi. E se il servizio non soddisfa esigiamo un risarcimento. Ma abbiamo dimenticato che una società a rischio zero è una società di attività zero. Lo vediamo in particolare nel campo chirurgico: tra qualche anno in America potrebbero non esserci più medici ostetrici, perché il costo delle assicurazioni che devono sottoscrivere per praticare il mestiere è troppo elevato. A quel punto, Tim Gill potrà fare a meno di scrivere libri sull'educazione dei figli".

Indovina chi è il colpevole,
di Veronica Salaroli


L'Italia raccontata dalla cronaca? Una Repubblica a responsabilità limitata. Dove autoassolversi è diventato uno sport nazionale. Dalla scuola alla politica.

Se consideri le colpe, e quindi le responsabilità, noi italiani non sappiamo neanche di cosa si sta parlando. Riusciamo da sempre a schivarle con collaudati meccanismi e abbiamo trasformato un difetto in una virtù. Ce lo meritiamo Alberto Sordi, come urlava indignato Nanni Moretti in Ecce Bombo, perché davvero siamo Alberto Sordi. I bisnonni erano tutti garibaldini, i nonni partigiani, i genitori mai a trovarne uno democristiano, i figli sono quasi tutti pentiti (di essere stati terroristi, yuppie, paninari, comunisti o fascisti...). Poi tutti a stupirsi se i figli dei figli,
cioè i nostri ragazzi, pensano che non sia colpa loro. Se vanno male a scuola, se filmano con il telefonino un down mentre qualcuno lo umilia, se fanno i bulli. "La responsabilità oggi", sostiene il filosofo Umberto Galimberti,"non è assente, ma è presente solo come responsabilità di fronte al superiore, che è altra cosa della responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni. E limitando l'agire a quello che nella cultura tecnologica si chiama button pushing (premere il bottone), la tecnica sottrae all'etica il principio della responsabilità personale, che è il terreno su cui tutte le etiche tradizionali sono cresciute".

La cronaca lo testimonia ogni giorno. Il ragazzo picchia i compagni di classe? È poco amato. I genitori non si occupano dei figli? Lavorano troppo, tornano a casa stanchi. L'insegnante non insegna e non controlla? Lo pagano poco, e poi la società non apprezza il suo lavoro. Il segretario di partito è corrotto? È il prezzo della politica. L'industriale offre soldi in cambio di un appalto? È il sistema, non potrebbe fare altro. Ci sono troppi immigrati clandestini? Colpa della geografia, abbiamo troppe coste. Commettono troppi reati? Per forza, non trovano che lavori precari. Si potrebbe continuare: abbiamo anche molte leggi, che dividono così bene colpe e responsabilità fra tutti, in modo che alla fine nessuno sia colpevole. "Il giudice che si attiene alla lettera della legge senza considerare le situazioni di volta in volta diverse in cui ha luogo il reato", dice ancora Galimberti, "il professore che si attiene ai programmi ministeriali, l'impiegato che si attiene alle norme stabilite dall'organizzazione, il burocrate alle procedure. Tutti costoro non si considerano responsabili delle proprie azioni, ma limitano l'ambito della loro responsabilità all'autorità che prescrive le azioni, collocandosi in una zona di neutralità per non dire di irresponsabilità etica". Naturalmente questo modo di vivere, anzi di convivere, non ci piace e un po' ci spaventa. Perché problemi ce ne crea. Sono i nostri figli a farci paura. La loro innocente assenza di etica, di pazienza, di equilibrio. Loro vogliono diventare famosi, tanto per cominciare nella loro classe. E la fama non è buona o cattiva, è soltanto fama, poco importa come si raggiunge.

C'è chi lo fa umiliando il professore o i compagni, chi picchiando. Nessuno studiando: anzi, un ragazzo si è ucciso perché i suoi compagni gli davano del secchione. "Ognuno di noi sperimenta su se stesso, e più ancora sui figli, l'enorme difficoltà di introdurre un contrappeso etico", sostiene Michele Serra. "È saltato il meccanismo che regola il rapporto fra i diritti e i doveri. Meglio: fra i desideri e il loro limite". Poi, improvvisamente, il pendolo si sposta pericolosamente dall'altra parte. "Oscilliamo, incerti e preoccupati, fra rigurgiti punitivi che sentiamo necessari", dice ancora Serra, "e il dubbio che la punizione, anche se giusta, sia la goffa e occasionale ricucitura di uno sbrego enorme e irreparabile, e che la diga nel frattempo sia già crollata". Così per una settimana ci indigniamo. Un gruppo di tifosi violenti provoca incidenti e danni? Chiudiamo le curve di tutti gli stadi. Un rumeno uccide una donna per rubarle una borsetta? Basta, mandiamoli tutti a casa, e i Comuni approvano ordinanze, naturalmente inapplicabili, in base alle quali si può stare su una panchina a dormire solo se si ha un lavoro e una residenza. Ogni tanto chiediamo pene esemplari, che lavino gli altri nostri peccati e le nostre omissioni. Perché siamo un paese senza colpe, ma qualche volta abbiamo bisogno di un colpevole.