Quando la Chiesa si rimise in cammino. Occorre entrare nel concetto di rinnovamento per una corretta interpretazione del concilio Vaticano II, di Walter Kasper ed Ecclesiologia lunare, di Kurt Koch
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 27/1/2012 due testi di Walter Kasper e Kurt Koch. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2012)
Nella serata di giovedì 26 gennaio a Roma, nel Centro Pro Unione, viene presentato il libro Chiesa cattolica. Essenza - Realtà - Missione (Brescia, Queriniana, 2012, pagine 584, euro 35,00, Biblioteca di teologia contemporanea 157) del cardinale presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Pubblichiamo alcuni stralci dalle pagine iniziali del volume e, a destra, anticipiamo stralci dell’intervento del cardinale attuale presidente del medesimo Pontificio Consiglio.
1/ Occorre entrare nel concetto di rinnovamento per una corretta interpretazione del concilio Vaticano II, di Walter Kasper
L’esperienza del concilio Vaticano II divenne per me un’esperienza quanto mai incisiva della Chiesa e un permanente saldo punto di riferimento. Quando il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII annunciò il concilio, la sorpresa fu enorme. Seguì un tempo mozzafiato, avvincente e interessante quale i giovani teologi odierni non riescono più a immaginare.
Noi sperimentammo come la veneranda vecchia Chiesa mostrava una nuova vitalità, come spalancava porte e finestre ed entrava in un dialogo al suo interno nonché in dialogo con altre Chiese, altre religioni e con la cultura moderna. Era una Chiesa che si rimetteva in cammino, una Chiesa che non ripudiava e non rinnegava la sua antica tradizione, ma le rimaneva fedele, e che tuttavia raschiava via incrostazioni e cercava così di rendere la tradizione nuova, viva e feconda per il cammino verso il futuro. Sono sempre convinto che i sedici principali documenti del concilio sono, nel loro complesso, la bussola per il cammino della Chiesa nel XXI secolo.
Il concilio Vaticano II è già stato spesso definito come il concilio della Chiesa sopra la Chiesa. La Chiesa, che era in cammino sulle strade della storia da duemila anni, prese nel corso di tale concilio più profondamente coscienza della propria essenza, in virtù della quale era già fino ad allora vissuta e aveva agito. Già nel discorso di apertura, tenuto l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII disse che compito di tale concilio sarebbe stato quello di conservare integralmente e senza falsificazioni il sacro patrimonio della dottrina cristiana e di insegnarlo in modo efficace. Paolo VI disse la stessa cosa il 21 novembre 1964, in occasione della solenne promulgazione della costituzione sulla chiesa Lumen gentium, unitamente al decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio. Egli affermò: «Questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo anche noi. Ciò che era, resta. Ciò che per secoli la Chiesa ha insegnato, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto ora è espresso, ciò che era incerto è chiarito; ciò ch’era mediato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione».
Il fascino e l’entusiasmo del concilio sono nel frattempo svaniti. È cominciato un tempo fatto di sobria considerazione dei fatti, in parte anche di valutazione critica degli eventi conciliari e soprattutto postconciliari. È succeduta una nuova generazione, per la quale il concilio è un evento molto lontano e appartenente a un altro tempo, a un tempo nel quale essa non era ancor nemmeno nata e nei confronti del quale non ha alcun apporto personale, come invece lo aveva la mia generazione.
A questa nuova generazione occorre spiegare faticosamente quanto allora avvenne ed entusiasmarla nei suoi confronti. Per questo ci vuole una solida ermeneutica del concilio. Non bisogna indubbiamente fare del concilio un mito, nel quale ognuno proietta e trova i propri pii desideri. Occorre piuttosto interpretare con accuratezza i testi conciliari secondo le regole universalmente valide dell’ermeneutica teologica. Nel farlo non bisogna separare il cosiddetto reale o presunto spirito del concilio dalla lettera del concilio, ma occorre piuttosto desumere lo spirito del concilio dalla sua storia e dai suoi testi.
I testi del concilio vanno compresi alla luce della sua storia e alla luce delle spesso controverse discussioni svoltesi nel suo corso. Poi bisogna interpretare ogni singola formulazione in seno al complesso di tutti i testi conciliari e tener conto, nel farlo, della gerarchia intrinseca dei diversi documenti conciliari. Non da ultimo occorre interpretare i testi conciliari alla luce delle fonti, a cui lo stesso concilio era vincolato e da cui attinse copiosamente.
Infine per un’adeguata ermeneutica conciliare è importante tener conto della ricezione che le affermazioni conciliari hanno trovato nella dottrina e nella vita della Chiesa dopo il concilio. Rettamente intesa la ricezione non è un’adozione meccanica, ma un processo ecclesiale vivo guidato dallo Spirito Santo, che si svolge nella dottrina così come in tutta la vita della Chiesa.
Nel periodo postconciliare l’esperienza di tutta la storia del concilio ha trovato il suo seguito. Alla controversia attorno alla definizione segue sempre la controversia attorno alla sua ricezione. Già durante il concilio Vaticano II si erano formate due fazioni, che furono presto dette «conservatrice» e, rispettivamente, «progressista».
Questi termini ebbero inizialmente un significato diverso da quello che avrebbero
assunto dopo il concilio. Quelli che allora furono detti progressisti erano infatti in realtà dei conservatori, che volevano riaffermare la tradizione grande e più antica della sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, mentre quelli che allora furono detti conservatori erano unilateralmente fissati sulla tradizione post-tridentina degli ultimi secoli.
Per tener conto delle giustificate istanze di ambedue le parti e per raggiungere, in corrispondenza a una buona tradizione conciliare, il consenso più ampio possibile, furono necessarie in molti casi delle formule di compromesso, pure questo un fenomeno niente affatto nuovo per chiunque conosca la storia dei concili.
Spesso le discussioni, che si svolsero durante il concilio, vengono portate avanti con altri mezzi nella controversia sull’interpretazione del concilio. E così troviamo delle interpretazioni «progressiste», che si richiamano al concilio per sostenere delle posizioni «neomoderniste», che il concilio non ha scientemente fatto proprie a motivo del suo radicamento nella tradizione, e troviamo delle posizioni tradizionaliste, che mettono a volte completamente o parzialmente in discussione il concilio o lo interpretano nel senso di posizioni preconciliari del XVIII e XIX secolo, che il concilio volle precisamente superare.
Nel frattempo Benedetto XVI ha impresso un impulso importante all’ermeneutica conciliare. A un’ermeneutica della rottura egli contrappone un’ermeneutica della continuità e della riforma, ed esorta a interpretare il concilio nel contesto di tutta la tradizione e come un anello della lunga catena di quest’ultima.
In effetti non è possibile considerare il Vaticano II come una rottura e come l’inizio di una nuova Chiesa. Ciò contraddirebbe la sua autointelligenza e il suo radicamento consapevole e voluto nella tradizione. Che non sia possibile intendere la continuità nel senso del concilio come semplice ripetizione o spiegazione puramente logica o organica di affermazioni precedenti e l’ermeneutica della riforma come applicazione semplice e pratica, lo si desume dal modo in cui lo stesso concilio concepì la tradizione, in seno alla quale esso stava.
Se vogliamo comprendere la continuità accompagnata da un rinnovamento, allora l’ermeneutica del concilio Vaticano II deve partire dall’idea dello sviluppo dei grandi maestri della scuola di Tubinga e dalla dottrina dello sviluppo di John Henry Newman. Tale idea parte dal fatto che la Chiesa è la stessa in tutti i secoli e in tutti i concili. Però si tratta di una tradizione viva, il che non significa una tradizione arbitraria.
Newman poté mostrare nel suo celebre Essay on the Development of Christian Doctrine (1845), sulla scorta di molti esempi concreti desunti dalla tradizione ecclesiale più antica,
che anche in passato c’erano stati, pur con tutta la continuità dei principi, sviluppi complicati e complessi e che la continuità include sia nuove definizioni, sia anche la loro ricezione creativa e una loro diversa inculturazione.
Occorre perciò distinguere la Traditio (con la lettera maiuscola) permanentemente vincolante e tuttavia sempre giovane dalle molte traditiones (con la lettera minuscola), che esprimono l’unica tradizione in un modo storicamente condizionato, ma che la possono anche offuscare e deformare (si pensi, per esempio, alle tradizioni antiebraiche e a quelle ostili nei confronti del corpo o misogine).
In questo senso il concilio ha più volte interrotto traditiones storicamente condizionate per far di nuovo brillare l’unica Traditio permanente e vincolante. Riforma non significa perciò solo ritorno all’origine o a una forma precedente della tradizione considerata come autentica, ma significa anche rinnovamento, affinché l’antico, l’originario e il permanentemente valido non sembri vecchio, ma si affermi di nuovo nella sua novità e torni nuovamente a brillare.
Giovanni XXIII espresse questa istanza con il noto termine «aggiornamento», termine difficile da tradurre e spesso abusato. Esso non significa adattamento all’oggi, ma significa rendere presente ciò che è stato tramandato nella novità dell’oggi. Tale «rinnovamento» è qualcosa di diverso da una innovazione. Nel termine rinnovamento viene piuttosto espressa la concezione biblica del «nuovo», cioè di una novità escatologica gratuita, non deducibile, inconsunta e continuamente sorprendente.
Il vangelo non è mai semplicemente ciò che si conosce da antica data, ma il nuovo eterno. Bisognerebbe perciò concepire l’ermeneutica della riforma come un’ermeneutica
del rinnovamento e parlare di un’ermeneutica del rinnovamento. Il rinnovamento non è opera nostra, ma è l’opera dello Spirito Santo, che ci ricorda tutto (Giovanni, 14, 26) e ci introduce nello stesso tempo in tutta la verità (Giovanni, 16, 13). Il suo rinnovamento non significa semplicemente ripetizione, ma significa attualizzazione del vangelo rivelato una volta per tutte.
2/ Ecclesiologia lunare, di Kurt Koch
Sotto il titolo Chiesa cattolica. Essenza – Realtà - Missione, relativamente semplice e tutt’altro che pretenzioso, il cardinale Kasper espone la sua ampia ecclesiologia. Una grande opera. In ogni capitolo, si nota che questo libro è il risultato di un confronto intenso, non solo accademico ma innanzitutto esistenziale, con la realtà della Chiesa cattolica. Come mostra la prima parte dettagliata, intitolata «Il mio cammino nella Chiesa e con la Chiesa», il cardinale Kasper si è occupato della Chiesa non solo come professore, in maniera accademica, e come vescovo, secondo il suo ministero; la Chiesa ha piuttosto a che vedere con la sua vita stessa e con la sua esperienza esistenziale.
E in fondo, è soltanto con un simile approccio personale che si può affrontare in maniera soddisfacente un trattato scientifico sull’ecclesiologia, come dimostra la storia stessa. L’ecclesiologia è, di fatti, una branca relativamente tardiva nella storia della Chiesa e della teologia. La Chiesa non è in prima linea un oggetto della teologia, ma il soggetto e l’ambito vitale nel quale si realizza anche la teologia.
Si è giunti a una esplicita tematizzazione teologica della Chiesa soltanto in seguito a sviluppi concreti che hanno rimesso in discussione la realtà storica e istituzionale della Chiesa. Il primo di questi è stato, nel tardo medioevo, il movimento conciliarista che ha fatto sì che, per difendersi, l’ecclesiologia si trasformasse soprattutto in una gerarchiologia, fenomeno che si è poi ulteriormente acuito nel corso della storia per l’appassionata controversia con i riformatori. Da quest’impasse l’ecclesiologia è potuta uscire soltanto con il concilio Vaticano II, che ha presentato per la prima volta in maniera ampia e contestualizzata la dottrina cattolica sulla Chiesa, dopo che il concilio Vaticano I si era dovuto interrompere a causa dello scoppio della guerra franco-tedesca, lasciando solo un frammento di ecclesiologia.
Anche alla luce di quanto sopra esposto, si capisce facilmente perché, nella presentazione che il cardinale Kasper fa dell’ecclesiologia cattolica, il pensiero ecclesiologico del concilio Vaticano II compaia un po’ come un filo conduttore. Ciò traspare soprattutto dal fatto che il suo approccio ecclesiologico prende sul serio il titolo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Infatti, secondo l’ecclesiologia conciliare, Lumen gentium non è la Chiesa, ma è Cristo, luce dei popoli, e la Chiesa è solo il suo riflesso, ovvero è il segno e lo strumento di Dio, che si è rivelato in maniera definitiva in Gesù Cristo.
La Chiesa, pertanto, non deve voler essere sole, ma deve rallegrarsi di essere luna, di ricevere tutta la sua luce dal sole e di farla risplendere dentro la notte. Come la luna non ha luce in sé, ma riflette quella luce che le viene dal sole, così anche la Chiesa può trasmettere e far risplendere nella notte dell’umanità solo quella luce che ha ricevuto da Cristo. Il libro del cardinale Kasper sulla Chiesa cattolica è al servizio del coerente dispiegarsi di un’ecclesiologia lunare.
In questa enfasi posta sulla dimensione teocentrica della teologia, soprattutto della teologia della Chiesa e della sua pratica, risiede l’obiettivo principale del libro del cardinale Kasper, come lui stesso dice: «Questo libro non vuole presentare una nuova ecclesiologia cattolica, ma un’ecclesiologia cattolica rinnovata nel senso del concilio Vaticano II. Per farlo presenterà la questione della Chiesa nella luce della questione di Dio e del messaggio del regno di Dio, onde inquadrare in questo modo la Chiesa sia biblicamente sia esistenzialmente» (pp. 64-65). Un ampio paragrafo illumina specialmente «l’orizzonte della storia universale e della storia della salvezza» in riguardo alla Chiesa e all’ecclesiologia.
Alla luce della questione di Dio, il cardinale Kasper fornisce una definizione dell’essenza della Chiesa strettamente legata alla teologia trinitaria, presentando la Chiesa come popolo di Dio, come corpo e sposa di Cristo e come tempio dello Spirito Santo. Egli si concentra poi sulle proprietà essenziali della Chiesa: la sua unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità.
Poiché questi aspetti fondamentali, a causa delle divisioni storiche della Chiesa, sono diventati oggetto di accese controversie, è soprattutto in questo capitolo che il cardinale Kasper coglie l’occasione per delineare nel dettaglio le questioni principali affrontate nelle discussioni ecumeniche e per esporre la situazione attuale del dialogo ecumenico.
La difficoltà maggiore di quest’ultimo è ravvisata nel fatto che le varie Chiese e comunità ecclesiali hanno modi diversi di intendere l’ecclesiologia e, di conseguenza, anche una diversa idea di quella che deve essere l’unità della Chiesa, cosicché l’obiettivo
del movimento ecumenico è diventato sempre più vago negli ultimi decenni. Pertanto, il principale problema ecumenico non risiede semplicemente nella questione dei ministeri ecclesiali, ma nella questione dei ministeri ecclesiali all’interno del più ampio contesto ecclesiologico.
Comprendere l’ecclesiologia alla luce della questione di Dio significa percepire l’urgente necessità di un rinnovamento teologico-spirituale della Chiesa. Tale rinnovamento si rivela molto più adeguato ai tempi di tutte quelle riforme esteriori e strutturali che oggi, davanti al cosiddetto ristagno delle riforme, vengono dibattute e richieste. Sia il rinnovamento spirituale che la riforma della Chiesa sono presentati dal cardinale Kasper alla luce dell’idea-guida teologica della communio, con la quale il Sinodo dei vescovi del 1985, al quale ha lavorato il cardinale Kasper come segretario, ha riassunto, venti anni dopo la conclusione del concilio Vaticano II, il suo orientamento fondamentale e ne ha approfondito la dottrina sulla Chiesa soprattutto come ecclesiologia di comunione.
Communio è un termine strettamente teologico e indica soprattutto la partecipazione alla communio trinitaria; la Chiesa va intesa dunque come icona della Trinità e la communio ecclesiale si fonda sui due sacramenti basilari del battesimo e dell’eucaristia.
Una particolare dimensione della realtà di communio della Chiesa il cardinale Kasper la individua nell’atteggiamento dialogico che contraddistingue la vita della Chiesa. Una Chiesa dialogica è impegnata oggi in una varietà di conversazioni e le porta avanti non solo all’interno, in modo comunicativo e partecipativo, ma anche all’esterno nel dialogo con il Popolo di Dio dell’antica alleanza, nel dialogo ecumenico, nel dialogo con le religioni e nel dialogo con il mondo contemporaneo.
Poiché un vero dialogo non comporta la rinuncia alla propria identità, ma, al contrario, il maturare nella propria identità attraverso l’incontro con l’altro e quindi non ha niente a che vedere con il soggettivismo, il relativismo e il sincretismo, prefiggendosi piuttosto la ricerca della verità, la dimensione dialogica e la dimensione missionaria della Chiesa non si contrappongono, ma sono l’una indispensabile per l’altra.
L’enfasi posta sulla dimensione missionaria della Chiesa, di cui oggi si parla soprattutto con il termine di nuova evangelizzazione, ha, per il cardinale Kasper, anche lo scopo di rispondere alla pressante e urgente domanda su dove condurrà il cammino della Chiesa. A tale questione è dedicato il capitolo conclusivo, piccolo, ma sostanzioso e ricco di spunti. Come un medico può suggerire una terapia sensata solo se prima tenta di avere un’anamnesi completa e si pronuncia su una diagnosi precisa, così anche il cardinale Kasper parte da una diagnosi concreta, che consiste nel riconoscere oggi una crisi nella Chiesa cattolica avente svariate e complesse sfaccettature. Nel far ciò, egli non si limita a riportare i fenomeni più evidenti, ma si interroga sulle cause più profonde, che egli vede rispecchiate «nel fatto che un’epoca della storia della Chiesa sta per terminare, senza che siano già chiaramente visibili nuovi orizzonti in cui essa continuerà ad andare avanti» (p. 525).
Per il cardinale Kasper, dunque, la figura di Chiesa pienamente radicata nel popolo (Volkskirche), che sicuramente ha avuto il suo grande peso nella storia e ha apportato il suo grande contributo, ma che volge al termine di fronte alla situazione pluralista di oggi, non può essere una figura della Chiesa orientata al futuro nel terzo millennio.
In questo senso, la Chiesa deve imparare oggi ad abbandonare anche atteggiamenti dati finora per scontati, ma che non sono più orientati verso il futuro. Un tale commiato potrà avvenire con successo solo se avremo coraggio e se sapremo collegargli un nuovo inizio. E la nuova svolta potrà aver luogo soltanto se tre realtà convergeranno e agiranno insieme, ovvero «un rinnovamento spirituale alimentato dalle fonti, una solida riflessione teologica e una mentalità ecclesiale» (p. 529).
Questi tre atteggiamenti di fondo sono rintracciabili passo per passo nel libro del cardinale Kasper, che rimane, pur nel suo realismo e nella sua descrizione non edulcorata dei problemi, un libro pieno di speranza. Il cardinale Kasper sa che il rinnovamento spirituale della Chiesa, di cui oggi abbiamo tanto bisogno, sarà «possibile solo mediante una nuova Pentecoste». Come è avvenuto allora, quando i discepoli si sono riuniti insieme alle donne che avevano seguito Gesù e hanno pregato incessantemente e unanimamente per la venuta dello Spirito Santo, così anche oggi una nuova Pentecoste potrà essere preparata soltanto tramite una preghiera intensa, poiché «la Chiesa del futuro sarà soprattutto una Chiesa di oranti» (p. 550). Di fatti, la preghiera è il luogo dove ha origine quella gioia per Dio che il libro veterotestamentario di Neemia definisce come «la nostra forza».
Solo da questa gioia per Dio può crescere anche la gioia per la Chiesa, che non è quel tipo di gioia che noi stessi ci procuriamo e che quindi ha raramente consistenza. La
gioia vissuta nella fede cristiana è quella gioia che, in ultima analisi, può donarci soltanto lo Spirito. Tale gioia è il segno distintivo di ogni realtà cristiana al punto che possiamo dire: là dove c’è mancanza di gioia e depressa irritabilità, lo Spirito di Gesù non è sicuramente all’opera.