Il Volto che interroga l’uomo e la sua arte, di Massimo Camisasca

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /02 /2012 - 20:58 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo da Avvenire del 22/1/2012 un articolo scritto da Massimo Camisasca. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2012)

Quando nel 1989 è morta Silvana Mangano, sul «Corriere della Sera» è apparso un articolo di Saverio Vertone intitolato “Il volto”. Ricordo di aver ritagliato quell’articolo e penso di averlo ancora, da qualche parte. Ho sempre pensato che Silvana Mangano avesse un volto particolare, di una bellezza che è andata maturando con gli anni. Quando penso al suo volto non mi riferisco all’attrice dei film degli anni Cinquanta, la Silvana Mangano sensuale di Riso amaro, ma agli ultimi anni della sua vita, all’attrice scelta da Luchino Visconti per Morte a Venezia, o da Nikita Mikhalkov per Oci Ciornie.

Ci sono, in ogni persona, dei particolari che sono suoi e soltanto suoi. Non c’è un volto uguale a un altro. Anche i gemelli omozigoti, i cosiddetti identici, non rimangono tali per tutta la vita. Non c’è un’impronta digitale, un’iride dell’occhio, una scrittura uguale a un’altra. Mi ha sempre colpito questa irripetibilità dell’individuo. Ma più ancora mi ha impressionato il fatto che ciò che è proprio di ogni persona costituisce anche il suo ponte verso gli altri. L’occhio, la scrittura, il volto. Come le mani. Sono finestre aperte sugli altri, strade di relazione. Ciò che ci accomuna e anche ciò che ci distingue. Un’incredibile irripetibilità che, tuttavia, ci protende verso gli altri.

Quando una persona se ne va, si allontana da noi nella morte, che cosa dimentichiamo per prima? La sua voce o il suo volto? Don Giussani aveva un viso irregolare che appariva sempre nuovo a seconda dell’angolatura da cui lo si guardava, un viso che esprimeva i diversi umori dei diversi momenti della giornata. Un volto che è molto cambiato lungo gli anni della sua esistenza. Affilato, rivelava la sua creatività, il suo carattere sbarazzino, la sua furbizia dei trenta e quarant’anni. Poi si e fatto più tondo, più pacato. Infine e stato scavato dall’età e dalla malattia. Ma il centro del suo volto erano gli occhi, che scrutavano chi aveva davanti e scendevano nelle profondità dell’altro.

Regolare era il volto di Karol Wojtyla, un volto forte di sportivo, espressivo di attore, un viso che ascoltava e accoglieva. Infinite le rughe sul volto di madre Teresa di Calcutta, come quelle sulla faccia di don Bosco nella vecchiaia. Tante rughe come i figli e le figlie delle loro vite, come le fatiche e le preoccupazioni di chi ha fatto nascere una nuova famiglia nel mondo.

Quando parlo del volto degli uomini mi viene in mente l’incontro che ebbi con Emmanuel Levinas. Penso sia stato il filosofo del Novecento che più di ogni altro ha scavato il mistero del volto. Per lui esso è il segno dell’offerta di noi stessi agli altri; è la porta attraverso cui l’altro può iniziare a conoscere qualcosa di me. Ma è anche il segno del nostro essere umano, indifeso di fronte al mondo.

Secondo Lévinas attraverso il volto noi diciamo la nostra volontà di non offendere l’altro o, meglio, di offrirgli la nostra alleanza affinché non muoia. Nel 1984 lo intervistai proprio su questo tema per il mensile “30 Giorni”. Durante questo colloquio, rimasto inedito, mi disse: «Il volto è l’idea centrale della mia filosofia. Esso porta in sé un duplice carattere. È anzitutto la parte di noi più aperta, più libera: il volto dell’altro può in questo senso rappresentare per me la tentazione di uccidere, di diventare assassino. Dal volto, dunque, proviene il comandamento: tu non mi ucciderai. Questa è la prima cosa su cui ho insistito parecchie volte. Ma oggi insisto su un altro aspetto. Il volto dell’uomo si trova di fronte alla morte. Quando guardo l’altro, lo vedo mirare la morte nella dirittura del suo volto. [...] Sulla fronte dell’altro non c’è scritto solo: tu non mi ucciderai, ma anche: tu non mi lascerai morire solo. Questo obbligo è l’origine della vera socialità».

Mi capita spesso di osservare i volti della gente, soprattutto quando sono seduto in treno, in metropolitana o in aereo. Sulla fronte degli uomini e delle donne che incrocio è possibile scoprire, come tracciate dal tempo, le domande, le esperienze esaltanti e laceranti della vita. Le nostre rughe parlano, come parlano le nostre bocche atteggiate a sorrisi, a espressioni enigmatiche, a delusione, ad amarezza. A serenità, a esaltazione. Il volto è la visibilità del cuore. Per questo è uno dei temi poetici più affascinanti. Quando penso ai miei amici, mi viene alla mente un’espressione di Dostoevskij: «Il tuo volto è stato come un richiamo per la mia memoria, come una profezia».

Israele non poteva nominare Dio. Per questo diceva: «Voglio cercare il tuo volto» (Sal 27,8). Con l’espressione “il volto” si indicava il tempio di Gerusalemme. Questa frase significava dunque “voglio andare a Gerusalemme”, che era il luogo dove sommamente Dio si manifestava. La massima pena che poteva capitare a Israele era che il Signore si nascondesse, sottraendosi al dialogo con lui.

La tradizione giudaico-cristiana parla del volto secondo due accenti. Da una parte mette in luce la necessità, per Dio, di nascondersi, di difendere se stesso davanti alla superficialità dell’uomo, alla sua ingerenza e violenza. Dall’altra, illustra il profondo desiderio che Dio ha di comunicare il proprio volto, fino a diventare volto di carne. Per questo, ogni relazione dell’uomo con l’infinito deve fondarsi sul rispetto, sull’adorazione, sul silenzio. Ma anche sul desiderio, sull’apertura, sulla disponibilità.

Nascondere il volto è uno dei drammi del nostro tempo. Nasce da una volontà di negarsi all’altro. Per paura. C’è anche, però, la volontà di offrirsi soltanto come cosa. Il volto è ciò che fa di noi una persona, un essere, la cui identità nasce da una relazione e desidera accrescersi e maturare attraverso relazioni. La profondità dei volti mi rivela che la realtà più interessante sulla terra sono gli uomini. Il viaggio più affascinante che si può fare è nel loro cuore. Ogni essere umano è un infinito o, secondo i filosofi italiani del Quattrocento, un microcosmo nel macrocosmo. Ma anche Tommaso d’Aquino lo aveva intuito, scrivendo che l’uomo è quodammodo omnia, «in un certo senso tutto». Non c’è perciò avventura più avvincente dell’entrare nel percorso segreto della vita dell’altro.

Naturalmente nella misura in cui l’altro lo vuole permettere, aprendosi liberamente. Mentre l’antropologia greca ci ha abituati a pensare alla nostra persona divisa tra anima e corpo, quella biblica ci immerge in uno sguardo più vero. L’uomo non ha un corpo e un’anima. È un corpo e un’anima. Corporeità, mente e spirito sono dimensioni della personalità. C’è, dunque, una stretta connessione tra interiorità ed esteriorità dell’uomo.

Il volto rivela qualcosa di più profondo della mera esteriorità, rivela il cuore. I latini definivano il volto con la parola os. Con lo stesso termine designavano la bocca, ma anche il porto. Volevano sottolineare la profondità, l’apertura verso l’infinito che esso rappresenta. Noi oggi sappiamo che nel volto c’è un invito alla comunione, un grido di necessità e di desiderio verso la presenza dell’altro.

Durante la lotta iconoclasta, avvenuta nel mondo bizantino nei secoli VIII e IX, si confrontavano due verità. Da una parte si voleva difendere la trascendenza di Dio rispetto al culto delle immagini che in taluni casi era diventato idolatrico. Dall’altra si voleva difendere un’inestirpabile esigenza dell’uomo: che l’infinito si manifesti nel finito. Possa essere toccato, baciato, abbracciato.

Una difesa dell’Incarnazione. In essa Dio prende il volto di un uomo. Dio ha preferito nascere in un’epoca in cui non c’era ancora una macchina fotografica e neppure un registratore. Gesù di Nazareth non ha scritto nulla. Non abbiamo perciò la sua voce, i suoi testi, il suo volto.

Eppure ha lasciato segni di sé. Per quanto riguarda il suo volto storico, un fiume di storia ci porta dalla Veronica fino alla Sindone, dal volto di Manoppello (vicenda ricchissima ed estremamente avventurosa) fino alle icone orientali, ma anche alle rappresentazioni occidentali. Penso a Duccio di Buoninsegna, a Masaccio, all’Angelico, a Giotto. Si rifanno tutti allo stesso archetipo. Anche Pasolini, nel suo Vangelo secondo Matteo, ci presenta attraverso un attore basco il volto di Gesù della cappella Brancacci.

Fin dall’inizio del mondo l’uomo era stato definito immagine e somiglianza del mistero (cfr. Gn 1, 26). Questa è forse la ragione per cui così grande parte hanno i volti nella nostra vicenda artistica. Contrariamente a quanto si pensa, e a come è stato vissuto in alcune epoche della sua storia, il cristianesimo è la glorificazione dei sensi: «Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono».

Alcuni anni fa sono stato a Tunisi e a Cartagine. Ho visitato stupendi musei che custodiscono mosaici del IV e V secolo dopo Cristo, cristiani e pagani, ma nati tutti dalla comune matrice ellenistica. Vi sono anche le ceramiche dell’Islam di pochi secoli dopo che, sotto forma di piastrelle, adornavano sale e palazzi. Su quest’ultime, nessun volto: solo parole e stilizzazioni di fiori e di alberi. Nei mosaici pagani, scene mitologiche, mostri, ciclopi, divinità. Volti di uomini prestati a favole, «cose che sono sempre e non accadono mai». Solo nei mosaici cristiani c’è l’uomo o la donna, c’è il corpo, il viso, il nome. C’è la storia fatta di quotidianità, in cui accadono eventi particolari collegati con un destino eterno.

Isaia parla di un uomo dei dolori, che ben conosce il soffrire, il cui volto è sputacchiato, deriso, in cui non è stata trovata alcuna bellezza (Is 53, 2-3). Mentre nell’arte greca c’era spazio solo per la bellezza senza ombre e in quella romana c’era posto solo per la vittoria, l’arte cristiana non ha paura di raffigurare un pastore, i volti di semplici uomini e donne in preghiera, come possiamo trovare nelle catacombe. I visi degli apostoli (anche quelli scoperti nel 2008, nelle catacombe di santa Tecla a Roma) sono comuni, circondati certo di amore e venerazione, ma che non perdono nulla della loro umanità.

Così la realtà dell’amore e della bellezza si incontra con quella del dolore e del sangue. Dopo la luminosità dei mosaici di Ravenna, dopo Cimabue, l’Angelico, dopo tutti gli autori che sopra ho ricordato, arriviamo a Michelangelo e alla sua drammaticità in cui i corpi ora vengono esaltati, ora si disfano. E poi a Caravaggio, dove gli sguardi, le mani, i volti assumono un’importanza totale inseriti in un gioco di luci e di ombre, metafora delle tensioni stesse dell’esistenza. Si aprono le strade verso Rembrandt, Velázquez, El Greco; verso Rouault e il suo Cristo clown, quasi un’anticipazione di Fellini; e Bacon, il bestemmiatore, che forse, senza neanche saperlo, ci avvicina a quel volto sputacchiato di cui ci parlava Isaia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA