Gli italiani e l’Italia: 150 anni (e più) di unità. La I guerra mondiale ed il primo dopoguerra, di Stefano De Luca e Andrea Lonardo
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Presentiamo sul nostro sito la trascrizione dell’introduzione e delle due relazioni tenute da Filippo Lovison e Stefano De Luca in occasione della seconda serata dedicata alla prima guerra mondiale ed al primo dopoguerra nel ciclo Gli italiani e l’Italia: 150 anni (e più) di unità. L’incontro si è tenuto presso il Palazzo Santa Chiara-Teatro dei Comici il 19/5/2011. Vedi su questo stesso sito le relazioni del precedente incontro dedicato all’ottocento (con le relazioni dei proff.ri Robero Regoli e Davide Rondoni) e del successivo incontro dedicato al secondo dopoguerra con le relazioni dei proff.ri Fabio Macioce e Giuseppe Parlato.
Il Centro culturale Gli scritti (3/2/2012)
1/ Introduzione, di Andrea Lonardo
Il I incontro ci ha aiutato a comprendere come l’Unità d’Italia non sarebbe stata possibile a partire da una prospettiva unicamente politica o militare. La relazione del prof. Regoli ci ha ricordato l’importanza della società civile, di quel tessuto fatto di relazioni, di valori, di tradizioni ed anche di presenze significative come quella della Chiesa con i suoi vescovi, preti, catechisti e laici che tanto hanno fatto per generare quel sentimento di unità che, nel caso italiano, precede, l’unificazione politica.
Il prof. Rondoni, da par suo, ha mostrato che ruolo abbia giocato la letteratura nell’unificazione del paese. Non tanto la letteratura esplicitamente patriottica, ma i romanzi e le poesie scritti non solo in lingua italiana ben prima dell’Unità, ma soprattutto scritti a partire da un modo di vedere la vita, come le opere di Leopardi o i Promessi sposi di Manzoni.
Recentemente è stato Roberto Benigni, commentando l’Inno di Mameli, a ricordare che è stato Dante Alighieri a fare l’Italia! Benigni affermava: «L’Italia è l’unico paese al mondo dove è nata prima la cultura e poi la nazione. L’ha tenuto insieme la lingua e la cultura, immensa».
Il Museo del Risorgimento, all’interno del Vittoriano, nella sua disposizione precedente al recente rinnovamento, iniziava il suo percorso proponendo proprio gli autori che tramite i loro scritti hanno preparato nei secoli l’Unità. Solo l’ultima risistemazione ha cancellato questa sezione, facendo iniziare l’itinerario, in maniera più ideologica, dalla Rivoluzione francese e dalla repubblica Cisalpina.
Questo tessuto cristiano della società italiana è così evidente che, se da un lato, Giuseppe Garibaldi scriveva nel suo Testamento questa durissima tirata anti-clericale:
«Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo e della confusione che sovente vi succede, s’inoltra e mettendo in opera ogni turpe stratagemma, propaga con l'impostura in cui è maestro, che il defunto compi, pentendosi delle sue credenze passate, ai doveri di cattolico. In conseguenza io dichiaro, che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d'un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell'Italia in particolare. E che solo in istato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada»,
d’altro canto sappiamo che egli, giunto a Napoli, venerò le reliquie di San Gennaro e fece cantare il Te Deum.
Così come sappiamo che Don Bosco, nel 1855, dopo aver scritto una storia biblica ed una storia della Chiesa ad uso dei ragazzi, scrisse anche una storia d’Italia per la loro formazione. Egli formava i suoi giovani da un lato alla fede e dall’altra a diventare dei buoni cittadini. Così come sappiamo che fu il regolamento per l'istruzione elementare del 15 settembre 1860, n. 4336, attuativo della famosa legge Casati del 1859, a prevedere l'affissione nelle aule scolastiche del crocifisso. Lo Stato italiano sapeva di avere una storia specifica e determinata alle spalle.
Nell’incontro di oggi vogliamo, invece, soffermarci sugli anni che seguirono l’unificazione politica ed, in particolare, sulla prima guerra mondiale e sul I dopo-guerra. Le relazioni ci aiuteranno a capire come anche negli anni successivi all’Unità il cemento che rinsaldò l’unificazione provenne non solo dalle nuove leggi e dal nuovo apparato amministrativo, ma, ancora una volta, dal tessuto sociale del paese. L’esperienza della guerra, che vide fianco a fianco giovani di ogni regione d’Italia, fu un crogiuolo di unificazione – e giustamente l’Altare della Patria unisce alla figura del re Vittorio Emanuele II quella del Milite ignoto come ad indicare nella vittoria della I guerra mondiale il culmine di quel processo che portò all’Unità del paese.
Questa sera P. Filippo Lovison ci aiuterà a riflettere sul ruolo giocato dai cappellani militari nel corso della guerra. Il prof. Stefano De Luca ci guiderà invece a comprendere l’enorme trasformazione della politica italiana avvenuta nel primo dopoguerra, quando si scontrarono il mondo socialista, allora favorevole ad una rivoluzione ispirata all’Unione Sovietica, ed i fasci di combattimento che trassero forza proprio dalla paura che il biennio rosso aveva suscitato.
È in questo contesto che nasce la proposta del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, il cui Appello ai liberi e ai forti che dette di fatto il via al nuovo Partito venne lanciato il 18 gennaio 1919 proprio nell’Albergo Santa Chiara, cioè nel palazzo dove ci troviamo. Una delle tesi che Stefano De Luca a ragione sostiene da tempo è che in quegli anni il Partito popolare fosse l’unico a possedere un radicamento popolare ed una cultura compatibile con la democrazia (sebbene ancora in fieri), mentre il Partito Liberale aveva una cultura democratica ma non un radicamento popolare ed i partiti Socialisti e Comunista da un lato e successivamente quello Fascista dall’altro, avessero allora un radicamento popolare, ma non una visione democratica del vivere civile.
Siamo anche nel luogo dove morì Santa Caterina da Siena, estenuata dai continui pellegrinaggi a San Pietro per chiedere a Dio la grazia del permanere della presenza papale in Roma. Anche la sua vita e la sua opera sono all’origine del nostro paese: non per niente, Caterina è insieme a Francesco d’Assisi patrona d’Italia.
Per introdurre la relazione del prof. Lovison voglio leggervi uno straordinario testo, da lui stesso citato nei suoi scritti, che ci descrive il ruolo dei cappellani militari nella I guerra mondiale al servizio del paese. È un testo del 1917, scritto da un barnabita, padre Giovanni Semeria, ma che si allarga all’intero dramma della guerra ed al ruolo del giovane clero italiano in essa[1]:
«Siamo ormai all’epilogo — speriamo — di questo triste dramma di guerra, e si può incominciare a tirar le somme e a fare i confronti… senza intendere di fare degli affronti a nessuno. I cappellani militari sono stati più o meno apostoli improvvisati. Giovani usciti appena di seminario, preti che conducevano forse vita esclusivamente di studio, timidi scagnozzetti (mi si scusi il termine, che non vuol essere offensivo) abituati soltanto alle tradizionali funzioncine o funzioncione di chiesa, fraticelli inesperti della vita del mondo, uomini avvezzi alle piccole… e grandi comodità di una vita tutta tranquilla. Qualcuno ha mosso qualche lamento perché non sono stati scelti all’ufficio di cappellano militare esclusivamente quelli che avevano già una preparazione pratica di ministero fra i giovani, o erano abituati a trattare un po’ con il mondo ed a conoscerne le malizie ed i bisogni. Ma chi ha un po’ di comprendonio deve capire che la mancata scelta è conseguenza proprio della guerra: infatti furono chiamate prima le classi più giovani, e perciò i preti più giovani e perciò i cappellani più giovani; e fu necessario approntare in pochi giorni circa ottocento cappellani per i combattenti, e poi affrettare la nomina degli altri man mano che ce n’era bisogno. Manchevolezze, errori involontari, non saranno mancati, ma al principio si è dovuto provvedere d’urgenza, e i provvedimenti d’urgenza hanno inevitabilmente qualche difetto. Ma è doveroso e consolante constatare come, nonostante questa improvvisazione di giovani preti a cappellani militari, il risultato sia stato superiore ad ogni previsione, tanto che gli stessi avversari han dovuto riconoscere privatamente e pubblicamente, ed elogiare nei discorsi e sulla stampa, l’opera dei cappellani del nostro glorioso esercito. La gran massa di questi cappellani si sono conquistati il cuore dei soldati e perciò della nazione, e, toltene alcune assai rare eccezioni, han mostrato di saper comprendere ed assolvere il difficile compito loro affidato dalla Chiesa e dalla Patria. Non è ora nostra intenzione tessere un elogio, che potrebbe sembrare inopportuno. Vogliamo soltanto constatare un fatto che torna a lode di tutto il giovane clero italiano, e trarne qualche pratica conseguenza. Quali sono le ragioni di questa bella riuscita? Quali furono i mezzi per ottenerla? Le ragioni sono semplicissime. Il clero comprese subito la solennità dell’ora, e, trascurando ogni umano miraggio di fronte al supremo interesse delle anime, accettò ed amò i sacrifici più amari, i pericoli più gravi, i distacchi più dolorosi e si diede interamente (specialmente i cappellani del fronte) e senza riserva alle anime. Le comodità, le comode tradizioni, gli affetti domestici, gli interessi materiali, la vita propria, tutto passò in seconda linea, e trionfò soltanto la sublime carità di Cristo. I sacerdoti non furono più soltanto sacrificatori all’altare, ma furono anche sacrificati: ecco la ragione per tanta efficacia di bene. E i mezzi quali furono? I mezzi furono anzitutto la perfetta disciplina, poi l’essersi accomunati coi giovani, aver vissuto con loro, aver pianto e gioito realmente con loro, averli amati ed essersi fatti amare. Se così è, o confratelli sacerdoti, rendiamo a Dio le grazie più sincere, perché la sua Misericordia ci ha aiutato; rallegriamocene con noi stessi, perché la sua Provvidenza ci ha mostrato che possiamo far molto più di quanto forse non avevamo fatto finora. Finirà la guerra, e, se a Dio piacerà, riprenderemo tutti i nostri posti di prima. Ma come li riprenderemo? Per ritrovare i comodi, gli affetti, i lucri, gli onori, le tristi tradizioni? … No, non mai. La guerra ci ha insegnato quali siano i mezzi per operare il bene, e noi nel dopo-guerra li attueremo con lo stesso slancio di questi mesi memorandi, dimenticheremo completamente noi stessi, e con l’aiuto di Dio condurremo le anime alla conquista della Patria eterna».
2/ I cappellani militari nella grande guerra
[Speriamo di poter mettere a diposizione a breve la relazione del prof. Filippo Lovison]
3/ Le origini della democrazia di massa in Italia e il ruolo dei cattolici, di Stefano De Luca
Il 21 gennaio 1919, in una riunione socialista Turati «stava spiegando: “Dobbiamo preparare le coscienze all’avvento della società socialista, ma, al tempo stesso, bisogna operare per la graduale trasformazione della società”, allorché una voce lo interruppe, dicendo: “È troppo lungo!”. E Turati di rimando: “Se conoscete una via più breve, indicatemela”. Allora molte voci risposero: “La Russia, la Russia, viva Lenin!”» (F. Chabod, L’Italia contemporanea, Einaudi, 2002², p. 37).
«Io ho l’impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. (…) Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci» (B. Mussolini, Discorso per la fondazione dei Fasci di Combattimento, in “Popolo d’Italia”, 24 marzo 1919)
Non verrà sottolineato mai abbastanza il fatto che la democrazia di massa, in Italia, nasce all’insegna di un binomio fatale: guerra e rivoluzione. La Grande Guerra è la prima esperienza ‘nazionale’ degli italiani e vede il protagonismo di ceti sociali rimasti sino ad allora ai margini della vita politica (contadini, piccola borghesia, operai); la Rivoluzione bolscevica, dal canto suo, dimostra che la società comunista non è un approdo così lontano da apparire irraggiungibile, ma qualcosa che si può realizzare qui e ora.
Nasce su questo sfondo quella «miscela esplosiva di aspirazioni di riscatto sociale» e di «diffusi miti rivoluzionari»[i] che caratterizza l’Italia del 1919: i contadini vogliono la terra, una richiesta di cui si è discusso sui giornali durante il conflitto e che è stata blandita, dopo Caporetto, persino dalla propaganda ufficiale; gli operai, inebriati dal successo della rivoluzione leninista, vogliono la repubblica socialista e i soviet; la piccola borghesia, che subisce le conseguenze economicamente più pesanti della guerra ed è esacerbata dalla sindrome della ‘vittoria mutilata’, vuole uno status sociale adeguato e una nazione forte, rigenerata moralmente, rispettata all’estero e all’interno.
Su tutto domina un clima di impazienza (specie tra i giovani) e di radicalizzazione emotiva e ideologica. Le due nuove ‘religioni politiche’ che si dividono le piazze – questo nuovo luogo della politica, dove ci si mobilita, dove si tengono i comizi e dove sempre più spesso ci si scontra fisicamente – sono il socialismo e il nazionalismo: a dividere i loro seguaci, sin dalla guerra di Libia, è la nazione.
Il conflitto tra nazione e internazionalismo (tra nazione e ‘antinazione’) è la prima forma di polarizzazione ideologica che si manifesta nell’Italia del Novecento, portando con sé la demonizzazione dell’avversario e la disposizione all’uso della violenza.
Alla ‘mobilitazione rumorosa’ di socialisti e nazionalisti si affianca quella ‘silenziosa’ dei cattolici, che sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, quando è ancora in vigore il non expedit, operano nella dimensione sociale e culturale, dando vita ad una serie di iniziative (settimane sociali, cooperative e leghe, banche popolari) che rafforzano il loro rapporto con il mondo rurale e con i ceti medi.
E se nel 1913, grazie al Patto Gentiloni, entrano in parlamento una trentina di deputati cattolici, dopo la guerra i tempi sono ormai maturi perché i cattolici, nonostante le diffidenze della Chiesa verso la democrazia, operino senza la ‘tutela’ della classe dirigente liberale: nasce così nel 1919 il Partito popolare, guidato da don Sturzo.
Alla mobilitazione di ispirazione nazionalista, cattolica e socialista (cioè di quelle che diverranno le culture politiche di massa dell’Italia del Novecento) si contrappone l’inerzia dei liberali, che governano il paese dall’unità ma non riescono a comprendere quanto esso sia profondamente mutato. I liberali accetteranno nel 1918 – quando dispongono ancora di un’ampia maggioranza parlamentare – di varare la legge elettorale proporzionale e lo scrutinio per liste di partito, ma non si doteranno di un partito organizzato, cioè dell’unico strumento adeguato per fronteggiarne gli esiti di una simile riforma.
In questo quadro, le elezioni del 1919 produrranno «il più grande terremoto elettorale della storia nazionale»[ii]: il Partito socialista, pur essendosi opposto ad una guerra vittoriosa, passa dal 17,7 al 32,3% dei consensi, triplicando i suoi deputati (da 52 a 156); il Partito popolare, che ha solo pochi mesi di vita, ottiene il 20,5% dei voti e 100 deputati; i vari gruppi liberali, riuniti come sempre intorno a singole personalità (Nitti, Giolitti, Orlando, Salandra), scendono dal 67,6% al 38,9%, passando da 383 a 216 deputati. La classe dirigente che ha governato il Paese per sessant’anni non ha più una maggioranza, a meno di non allearsi con i socialisti o con i popolari.
A questo straordinario successo politico dei primi due partiti di massa della democrazia italiana va aggiunto che ciascuno di essi dispone di un sindacato ‘amico’: i socialisti controllano la Confederazione generale del lavoro (Cgdl, sorta nel 1906), che ha due milioni di aderenti; i popolari possono contare sulla Confederazione italiana lavoratori (Cil, nata nel 1918), che ha quasi un milione e duecentomila iscritti (di cui un milione sono coltivatori). Se a questo si aggiunge l’insediamento nelle amministrazioni locali (i socialisti controllano il 24% dei comuni, i popolari il 13%) si ha un’idea di come il 1919 abbia letteralmente travolto i vecchi assetti politici.
Ma la poderosa armata socialista realizza una sorta di autoconventio ad excludendum: confermando, nel congresso del 1919, la linea rivoluzionaria adottata sin dal 1918 (che eliminava qualsiasi obiettivo intermedio e puntava all’istituzione della Repubblica socialista, alla dittatura del proletariato e alla socializzazione dei mezzi di produzione e scambio).
Il Partito socialista non solo esclude «ogni ipotesi di collaborazione con governi o maggioranze ‘borghesi’», ma preconizza «la conquista violenta del potere» e addita «nelle istituzioni liberali una fortezza nemica da conquistare e da distruggere»[iii].
Un episodio riassume il senso e le conseguenze di questa scelta anti-sistema (che, non va dimenticato, era stata premiata dagli elettori): alla seduta inaugurale della Camera i deputati socialisti, obbedendo ad una delibera del partito, abbandonano l’aula prima del discorso della Corona. All’uscita vengono aggrediti da un gruppo di nazionalisti: seguono tre giorni di scioperi di protesta con violenti scontri di piazza in tutto il Paese.
La scelta rivoluzionaria dei socialisti – e soprattutto lo svilupparsi di quell’ondata di conflittualità operaia e contadina che va sotto il nome di ‘biennio rosso’, con le occupazioni di fabbriche e di terre – innesca la ‘grande paura’ dei ceti borghesi, che non si sentono sufficientemente garantiti dall’attendismo con il quale la vecchia classe dirigente liberale affronta la crisi: su questo senso di insicurezza e di abbandono da parte dello Stato fanno leva i Fasci di combattimento, che vengono da un risultato elettorale assai deludente (alle elezioni del 1919 hanno preso solo poche migliaia di voti, senza ottenere alcun seggio).
L’azione violenta dei fascisti in difesa della proprietà e dei valori della nazione inizia a guadagnare consensi: tra il 1920 e il 1921 i fasci si decuplicano (da 100 a 1000), mentre lo squadrismo si allarga a macchia d’olio dalla pianura padana alla Puglia. Si afferma così, nel giro di pochi mesi, «un soggetto politico dalle caratteristiche del tutto inedite: un movimento che da un lato si ergeva a difensore dei valori borghesi, della tradizione nazionale, di un ideale dello Stato forte e autorevole; dall’altro assumeva una connotazione tipicamente sovversiva»[iv] e rivoluzionaria.
Tra il 1919 e il 1922 si consuma la prima fase di guerra civile ideologica del Novecento italiano: è il conflitto tra due radicalismi, uno di sinistra e uno di destra, uno alimentato dal mito della rivoluzione sociale e l’altro da quello della rivoluzione nazionale, mentre le due forze che rifuggono dall’uso della violenza e sono aliene dal radicalismo (liberali e popolari) non riescono a dare vita ad una stabile ed efficace collaborazione di governo.
Il Partito popolare di Sturzo è indubbiamente una grande novità: secondo Chabod la sua nascita rappresenta «l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente»[v]. Esso segna infatti il definitivo ingresso dei cattolici nella vita dello Stato italiano, fatto di per sé di importanza straordinaria; ma segna anche, nella linea democratico-cristiana di Sturzo, l’incontro dei cattolici con il mondo moderno.
I cattolici, per il prete siciliano, non dovevano più appartarsi in forme proprie, ma aderire alla vita moderna per assimilarla e trasformarla: il moderno, più che sfiducia e ripulsa, doveva destare «il bisogno della critica, del contatto, della riforma»[vi]. Ai cattolici italiani – profondamente radicati nelle masse, a partire da quelle rurali, e sensibili ai loro bisogni sociali e politici – spettava un compito proprio, distinto da quello dei liberali (che per Sturzo erano conservatori, mentre i cattolici dovevano essere democratici) e da quello dei socialisti (portatori di un sovversivismo distruttivo delle strutture sociali e della fede religiosa): per questo i cattolici avevano dovuto organizzarsi in un loro partito, che doveva essere libero di muoversi ora a destra ora a sinistra, al fine di realizzare il suo programma.
Programma nel quale, insieme alle tradizionali richieste del mondo cattolico (libertà d’insegnamento, difesa della famiglia, riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali), erano presenti contenuti schiettamente democratici (voto alle donne, Senato elettivo, riforma fiscale in senso progressivo, sviluppo delle autonomie locali, politica estera ispirata al wilsonismo). Ma la novità del Partito popolare viene sottovalutata dalle altre forze politiche e in particolare dai liberali, nei quali prevalgono vecchi pregiudizi e più recenti incomprensioni. Ad esempio, Giolitti – protagonista per eccellenza della democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca – non sopportava l’idea di dover trattare con un leader (Sturzo) che non sedeva in parlamento e che quindi ai suoi occhi era soltanto un privato cittadino, oltretutto appartenente al clero.
Quanto a Salandra, riconoscendo nel 1924 al fascismo il merito inestimabile di aver debellato i «fatali avversari» dei liberali, individuava quegli avversari non solo nei socialisti, ma anche nei popolari. Queste incomprensioni di fondo – unite al risorgere di antichi risentimenti, ai personalismi dei vecchi leaders e al fatto che i popolari volevano nel governo una parità che i liberali non erano disposti ad accordare – avrebbero avuto «non piccola parte nel bloccare la funzionalità delle istituzioni liberal-parlamentari e nel determinare la crisi dell’intero sistema»[vii].
Va peraltro sottolineato come i popolari fossero gli unici, nel periodo 1919-21, ad avere un seguito di massa e, al tempo stesso, se non una compiuta cultura politico-istituzionale della democrazia (su questo terreno molte erano ancora le carenze, tra i conservatori, i clerico-moderati e i ‘giacobini bianchi’ alla Miglioli), certamente una cultura antropologica i cui valori (rifiuto della violenza, attitudine al dialogo e alla mediazione) erano compatibili con le regole della democrazia.
I social-comunisti avevano (e i fascisti avrebbero avuto) un seguito di massa, ma certamente la loro cultura era incompatibile con la democrazia liberale; quanto al mondo liberal-democratico, aveva la cultura politica appropriata, ma era sprovvisto di seguito popolare.
Nel 1921 interviene infine un ulteriore avvenimento, a complicare il già complesso quadro politico. Il Partito socialista subisce – nonostante le sue posizioni rivoluzionarie – la scissione della sua ala sinistra, che fonda il Partito comunista d’Italia (PCd’I). La spinta decisiva era venuta dal II congresso dell’Internazionale comunista, che aveva imposto ai partiti aderenti condizioni vincolanti, tra le quali il cambiamento del nome (da socialista o socialdemocratico a comunista, come aveva fatto lo stesso Lenin nel 1918) e l’espulsione degli elementi riformisti e centristi.
Inaspettatamente la dirigenza massimalista del Partito socialista resiste, forse per orgoglio (ritenendo di non avere nulla da imparare in tema di intransigenza rivoluzionaria), forse perché consapevole del peso che la componente riformista ha nell’elettorato e negli organismi sindacali. La sinistra si trova così spaccata in due partiti: il Psi, all’interno del quale convivono due anime (quella massimalista, largamente maggioritaria, e quella riformista), e il Pcd’I.
A questa scissione – la ‘madre’ di tutte le scissioni che la sinistra italiana avrebbe sperimentato nella sua storia – seguiranno due espulsioni, entrambe dal Psi: nel 1922 vengono espulsi i riformisti, che fondano il Partito socialista unitario (Psu), e nel 1923 i ‘terzinternazionalisti’, che confluiranno nel PCd’I. Tornando alla scissione del 1921, questa scompagina i piani di Giolitti, che pensava di servirsi dei socialisti riformisti per formare una nuova maggioranza parlamentare, liberandosi dal condizionamento dei popolari e recuperando il ruolo di perno centrale del sistema politico.
L’impossibilità di realizzare questo disegno induce il vecchio statista alla scelta delle elezioni anticipate, alle quali i liberali si presentano, nel Nord, in ‘blocchi nazionali’ che includono nazionalisti e fascisti, allo scopo di compattarsi, rivitalizzarsi e infliggere un colpo a socialisti e popolari. Le elezioni del 1921, che si svolgono in un clima di violenza, segnano un’ulteriore frammentazione del sistema politico, con l’ingresso alla Camera di due nuovi partiti, quello comunista (che ottiene 15 seggi) e quella fascista (che elegge, all’interno dei blocchi nazionali, una trentina di deputati).
Nel complesso si confermano gli equilibri del 1919: i socialisti ottengono 122 seggi, che sommati a quelli comunisti danno alla sinistra rivoluzionaria e classista una ventina di seggi in meno rispetto al 1919; i popolari hanno un lieve incremento, passando da 100 a 108 deputati; i gruppi liberal-nazionali raggiungono a stento la maggioranza e soltanto grazie alla presenza dei deputati fascisti. Questi ultimi, sotto la guida di Mussolini, fanno subito capire che intendono muoversi liberamente: fallito il disegno di Giolitti e archiviati velocemente i deboli tentativi di Bonomi e Facta, inizierà l’avventura di Mussolini alla guida del governo, che nel giro di due anni condurrà alla nascita di un sistema dittatoriale a partito unico.
Cosa emerge alla luce di questa breve – e per forza di cose sommaria – ricostruzione del periodo 1919-1922? In primo luogo, che il sistema politico cambia natura e struttura: da una democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca si passa ad una democrazia dei partiti tipicamente novecentesca. Nel 1914 la politica la faceva ancora il Parlamento, per impulso di personalità di spicco che riunivano intorno a sé composite ‘maggioranze ministeriali’, formate da gruppi tra i quali le differenze di programma erano poco marcate. Partiti organizzati, se si eccettuano il Partito socialista e il piccolo Partito repubblicano, non ce n’erano e la libertà d’azione dei parlamentari era ampia: la nazione, politicamente, esisteva soltanto nel Parlamento.
Nel 1919 tutto è cambiato: la politica si fa nella società, nelle piazze, attraverso partiti organizzati che hanno una precisa fisionomia ideologico-programmatica e che incanalano le esigenze e le aspirazioni di milioni di persone. La nazione, politicamente, esiste fuori del Parlamento e quest’ultimo dev’essere soltanto una proiezione fedele di tale fisionomia: i deputati votano seguendo le delibere delle direzioni dei rispettivi partiti.
Assistiamo, quindi, alla nascita della democrazia dei partiti e, al suo interno, al successo dei ‘partiti di massa’ (che, come abbiamo visto, sono fiancheggiati da ‘sindacati amici’): il Partito socialista, espressione della subcultura operaia, e il Partito popolare, espressione della subcultura cattolica. A partire dal 1921 si rafforzerà il Partito nazionale fascista, che diverrà espressione (pur nel peculiare contesto di un sistema dittatoriale) della piccola e media borghesia.
In secondo luogo, il sistema politico manifesta la tendenza alla frammentazione partitica e alla polarizzazione ideologica. Per quanto riguarda la frammentazione – cioè la tendenza alla divisione e quindi alla moltiplicazione dei partiti – la vicenda della sinistra è emblematica: nel giro di un anno quest’area politica si spezza in tre partiti (il Psi, il PCd’I e il Psu), tra i quali quello di ispirazione riformista è largamente minoritario. Inoltre i due grandi partiti della sinistra assumono una precisa configurazione: il Psi è caratterizzato dal massimalismo verbale e dalla rissosità interna, mentre il Pcd’I è caratterizzato dalla ferrea disciplina interna (lo statuto del partito stabilisce che la disciplina è il «supremo dovere di ogni membro di ogni organizzazione del partito») e dal legame con l’Unione Sovietica (la sua fonte di legittimazione sta «nell’autorità della Terza Internazionale e comunque del Partito bolscevico russo»[viii]).
Quanto al Partito popolare, fin dalle sue origini esso è contrassegnato dalla eterogeneità dei suoi componenti: reduci della prima democrazia cristiana, esponenti del clerico-moderatismo, seguaci di Sturzo, nonché un mondo sociale composito tenuto insieme dal richiamo all’ispirazione cristiana. In un solo partito – ha scritto Carlo Morandi – «non s’erano mai veduti così opposti temperamenti, così diverse concezioni della lotta politica»[ix], anche se la disciplina cattolica e l’accorta guida di Sturzo riescono a preservarne l’unità.
Vi è infine il vario mondo liberale e democratico di ascendenza risorgimentale, la cui incapacità a costituirsi in partito (il Partito Liberale, com’è noto, fu costituito soltanto nel 1922, a venti giorni dalla marcia su Roma) costituisce paradossalmente un’altra conferma della tendenza alla frammentazione: qui non si divide qualcosa che era stato unito, ma non riesce a unirsi qualcosa che era diviso in partenza (anche se si trattava di divisioni ideologicamente ‘deboli’).
Venendo alla polarizzazione ideologica, essa trova espressione, a sinistra, nella deriva massimalistica del Psi e nella nascita del PCd’I e, a destra, nella nascita e nello sviluppo del fascismo. Quando entrano in scena le culture politiche di massa di sinistra e di destra, queste conducono subito alla lacerazione, si annunciano come gli attori di un conflitto incomponibile, che ha per luogo la piazza (e non il parlamento), per oggetto la trasformazione rivoluzionaria della società (e non il suo governo), per metodo lo scontro violento (e non il conflitto istituzionalizzato).
Si annuncia così la lunga guerra civile che attraverserà l’Italia del Novecento, con fasi calde e fasi fredde, fasi di partecipazione allargata e fasi di partecipazione ristretta. In presenza di questo radicale conflitto si radicherà l’abitudine alla demonizzazione dell’avversario e la tendenza (a volte necessaria) a posizionarsi contro qualcuno piuttosto che a favore di qualcosa: nasce così la ‘sindrome dell’anti-’, che avrà una lunga serie di incarnazioni.
In terzo luogo, si manifesta la tendenza all’instabilità governativa: tra il 1919 e il 1921 si succedono cinque governi, tra il 1921 e il 1922 tre. Tale instabilità nasce dalle caratteristiche sopra richiamate: la frammentazione partitica rende più difficile la formazione e la tenuta di una maggioranza, mentre la polarizzazione ideologica (cioè la presenza di partiti anti-sistema) rende più ristretta l’area dei partiti candidabili al governo.
[1] Da padre Giovanni Semeria (che volle mantenere celata la propria identità, ma che si firmava “P. S.”: è facile comunque riconoscere, anche dal tenore dello scritto, il P. Semeria), che descriveva, a guerra inoltrata, lo status del Cappellano militare (P. S., Ieri - oggi - domani, in «Il prete al campo», Anno III, n° 17, 1° settembre 1917, rubrica Note apologetiche, pp. 235-236).
[i] M. Ridolfi, Storia dei partiti politici. L’Italia dal Risorgimento alla Repubblica, B. Mondadori, Milano 2008, p. 65.
[ii] G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, in Storia d’Italia. a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1998, vol. 5, p. 116.
[iii] G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, cit., p. 117.
[iv] Ivi, p. 128.
[v] F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961; II ed., 2002, p. 43.
[vi] M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 80.
[vii] G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, cit., p. 111.
[viii] M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 80.
[ix] C. Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia (1848-1985), Le Monnier, Firenze 1945; X ed. ampliata, 1986, p. 80.