Nel nome di Dio, di Romano Guardini
Riprendiamo sul nostro sito da Romano Guardini, I santi segni (originale 1927), in Romano Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia, 1980, pp. 198-203, il breve capitolo sul nome di Dio. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (19/1/2012)
Noi uomini siam divenuti grossolani. Di molte cose delicate e profonde non sappiamo più nulla, e la parola è una di queste. Pensiamo ch'essa sia qualcosa di esteriore, perché non avvertiamo più la sua realtà interiore. Pensiamo che sia qualcosa di labile, perché non ne sentiamo più la forza. Essa non urta più, non colpisce più, è solo una debole struttura di suono e timbro. Invece è un fine involucro per racchiudere alcunché di spirituale.
L'essenza di una cosa, e la nota della nostra propria anima dinanzi ad ogni cosa, s'incontrano nella parola e vi ottengono espressione. O meglio così dovrebbe essere. E certamente nel primo uomo era così.
Nella prima pagina della Sacra Scrittura si legge che Dio «condusse innanzi all'uomo gli animali» perché li denominasse. L'uomo con aperti sensi ed anima veggente. spinse lo sguardo attraverso la figura nell'essenza, ed espresse quest'ultima nel nome. E la sua anima rispose alla creatura. Si sentì tocca in qualcosa che stava in particolare relazione coll'essenza di quella creatura, giacché nell'uomo si presenta la sintesi e l'unità della creazione intera. E questi due elementi: l'essenza della cosa, fuori e la risposta a quest'ultima nell'uomo, dentro - elementi ambedue vitalmente uniti - espresse egli nel nome.
Nel nome adunque si combinarono insieme un atomo del mondo ed una nota dell'interiorità umana. E quando l'uomo pronunziò il nome, la fisonomia essenziale della cosa emerse nel suo spirito, e a questa intuizione corrispose nella voce quello ch'era stato risposto dal suo intimo. In tal modo il nome divenne un segno misterioso, per cui l'uomo prese possesso del mondo e di se stesso.
Le parole sono nomi. Ed il parlare è l'arte sublime di usare dei nomi delle cose; di cogliere l'essenza delle cose e l'essenza della propria anima nella loro armonia da Dio voluta.
Questa intima relazione però, col creato e col proprio Io, non fu durevole. L'uomo peccò, il vincolo fu spezzato. Le cose gli divennero estranee, anzi nemiche. Egli non le penetrò più con occhio puro, bensì cupidamente, da tiranno ed insieme con lo sguardo malsicuro del colpevole.
Esse però gli chiusero la loro essenza. Ed anche il fondo del proprio essere gli fuggì, perché aveva voluto attuarlo egoisticamente. Non visse più guardando infantilmente nella propria anima. Questa gli sfuggì ed egli divenne ignaro di se stesso ed impotente di fronte a se stesso.
La parola «nome» non stringe ormai più per lui, in unità vivente, l'essenza della cosa all'essenza dell'uomo. In tale parola non lo investe più ormai il pensiero divino della creazione ordinata nella pace. L'uomo vi vede solo una figura lacerata e sconvolta, vi percepisce come un motivo stonato, soffuso di cupi presentimenti e di aneliti oscuri. E quando per avventura ode in modo giusto la parola, allora si arresta, presta ascolto, riflette, e non ne trova più il senso. La parola rimane confusa, enigmatica, ed egli sente dolorosamente che il paradiso è perduto.
Ma neppure questo succede più. Noi uomini siam divenuti così superficiali, che non proviamo più ormai il dolore per le parole distrutte. Abbiamo preso a pronunciare i nomi in modo sempre più rapido, più superficiale ed esteriore, pensando sempre meno alle essenze espressevi. Le abbiamo trasmesse ad altri, come si passa una moneta da una mano all'altra; non si sa che aspetto abbia, cosa ci sia sopra; si sa soltanto che per essa si riceve tanto.
Così le parole son corse celermente di bocca in bocca. Il loro intimo non ha parlato più; l'essenza della cosa non si è fatta più udire; l'anima non si è più rivelata in esse. Si ridussero ormai solo a parole-monete: indicarono la cosa, senza però rivelarla. Si ridussero a meri segni, che permettessero agli altri di intendere la propria volontà. Così il linguaggio coi suoi vocaboli, non è più un commercio pieno d'anelito coll'essenza delle cose, né un incontro di cose ed anima. Non è più ormai nostalgia del paradiso perduto, bensì un frettoloso sonar delle parole-monete, quasi una macchina numeratrice che distribuisca le monete e nulla sappia di esse.
Solo qualche volta ci scotiamo. Quando d'un tratto ci viene un richiamo da una parola tale che sembra echeggiare da abissi. L'essenza ci parla. Oppure la parola sta sulla carta, e dal segno nero s'accende come una luce. È il «nome» che si presenta, l'essenza, la risposta dell'anima. Qui riproviamo l'esperienza originaria da cui è scaturita la parola, l'esperienza in cui l'anima incontrò l'essenza della cosa.
Proviamo la visione stupefacente, la stretta spirituale con cui l'uomo colse l'essenza del nuovo che gli sta dinanzi e lo coniò, attingendo al suo intimo, nella creazione del nome. Avanziamo in una distesa immensa, precipitiamo in un abisso, ed ecco che la parola ci ridiventa quell'opera prima a cui Dio chiamò lo spirito umano. Certo, una parola logorata, immiserita. Eppure presto tutto si disperde di nuovo e la macchina numeratrice tintinna di nuovo...
Non lasciar perdere questi istanti.
Forse il nome «Dio» ti si può presentare in modo siffatto. Quando riflettiamo a tutto questo, ben possiamo comprendere perché i fedeli dell'Antico Testamento non pronunciassero affatto il nome di Dio. Ad esso sostituivano il nome di «Signore».
Infatti da questo è appunto costituita la particolare elezione del popolo ebraico: dal fatto che esso ha sentito più immediatamente degli altri popoli la realtà di Dio, la vicinanza di Dio. La sua grandezza, la sua sublimità e terribilità Israele l'ha sentita più fortemente di ogni altra nazione. Agli Ebrei Dio aveva manifestato attraverso Mosè il suo nome: «Colui che è, questo è il mio nome». «L'Esistente», che non ha bisogno di alcun altro, che riposa tutto in se stesso, sintesi e sostanza di tutto l'essere e di ogni forza.
Il nome di Dio era per essi immagine della Sua essenza. Quest'essenza di Dio la vedevano irraggiare dal Suo nome. Il quale era per essi come Dio stesso, e li riempiva di timore come quando un giorno avevano temuto sul Sinai il Signore in persona.
Ed invero Dio parla del suo nome come di se stesso: «Il mio nome ha da esser là»: Egli dice del Tempio. E nell'Apocalisse promette al fedele perseverante che «lo eleverà a colonna nel tempio di Dio» e che «scriverà il proprio nome su di lui». Lo vuol così consacrare e fargli dono di se stesso.
Così comprendiamo il comandamento: «Non nominare invano il nome di Dio, tuo Signore». Comprendiamo perché il Salvatore ci insegni a pregare: «Venga santificato il tuo nome». E perché dobbiamo incominciare «nel nome di Dio» quanto facciamo. Misterioso è il nome di Dio, l'essenza dell'Infinito ne irradia; l'essenza di «Colui che è» in pienezza incommensurabile ed in elevatezza infinita.
Ed in questa parola vibrano anche le scaturigini più profonde della nostra anima. Il nostro essere più intimo risponde a Dio, poiché appartiene indissolubilmente a Lui. Creato da Lui e per Lui, non ha pace, fino a che non è unito con Lui. Il nostro Io anzi non ha altro senso che quello di restituirsi nella comunione d'amore con Dio.
Tutto questo, tutta la nostra nobiltà, l'anima della nostra anima, si trova racchiusa nella parola «Dio» e «Mio Dio». La mia origine ed il mio fine, inizio e termine del mio essere, adorazione, anelito, rimorso: tutto.
Il nome di Dio è propriamente tutto. Così lo preghiamo che c'insegni a «non nominare invano il suo nome», bensì a «santificarlo». Lo preghiamo che il suo nome ci risplenda nella gloria. Tale nome non deve mai diventare per noi una moneta che passa inerte da una mano all'altra: ci deve piuttosto restare infinitamente prezioso, tre volte santo. Onoreremo pertanto il Nome di Dio, come Dio stesso. Ed in esso onoreremo anche il santuario dell'anima nostra.