Ridate alle parole il loro senso. Introduzione a I santi segni, di Romano Guardini
Riprendiamo sul nostro sito da Romano Guardini, I santi segni (originale 1927), in Romano Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia, 1980, pp. 127-133 l’introduzione all’opera. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2012)
Eccoti un libretto ben modesto nelle mani. Esso parla di cose che forse ti sembrano di poca importanza; eppure, quel che vuole propriamente dirti, è qualcosa di grande. Noi viviamo in un mondo di segni ma abbiamo perduta la realtà da essi significata. Non pensiamo più cose, bensì parole.
Quando una persona dice «faggio», le sta veramente dinanzi agli occhi un nobile fusto grigio-argenteo, un ampio sviluppo di rami modellati con forza ed insieme con delicatezza fin nelle ultimi propaggini, delle foglie compatte e senza pieghe, soffuse alla luce solare di riflessi così delicati nelle loro iridescenze verdi-gialle? Forse! Ma per taluno «faggio» è proprio solo una parola; una parola con la quale intende quell’albero, allo stesso modo che una moneta gli fa pensare ad un determinato valore numerico. Quando la pronunzia, forse gli guizza attraverso lo spirito un’immagine fuggevole, ricordo sbiadito di qualche gita in montagna, ma niente di più.
Oppure uno dice «miseria». Ma la sua parola è davvero gravata dall’oscuro fardello che pesa sul cuore dell’uomo? Sente egli come una stretta al cuore l’amarezza che queste tre sillabe significano oppure queste sono per lui soltanto quasi fredda moneta ch’egli trasmette senza commozione, come un infermiere comunica all'altro il numero d'una stanza, senza riflettere a quel che è chiuso in quello spazio contrassegnato da una morta piastrina di ottone?
Cosa proviamo quando diciamo di aver meritato tante e tante lire? Sentiamo quale giudizio è implicito in questa parola «meritato»? Soddisfacimento tranquillamente consapevole, oppure un'ingiustizia che esige espiazione, ovvero addirittura una beffa crudele? E così per molte altre parole...
Parole, parole! Per questo il nostro pensiero ha sì poca importanza nei riguardi della realtà che non afferra affatto saldamente. Per questo la nostra parola è così pallida e fioca, esangue e priva di forza figurativa. Per questo ciò che udiamo non ci tocca l'anima. Altrimenti potremmo ascoltare e leggere ogni giorno tante cose? Se le parole fossero per noi qualcosa di più d'un suono che significa alcunché, d'una struttura sonora accompagnata da fugaci sensazioni e da immagini evanescenti, come potremmo leggere tanti giornali e prestare ascolto a tante novità?
Pensa alla schiatta terribile dei luoghi comuni! Se vuoi percepire quanto sia vuoto il nostro discorrere pubblico, presta attenzione ai luoghi comuni. Rabbrividirai fin nelle intime fibre. Essi sono vuoti, irrispettosi e distruttori come soltanto il vuoto può esserlo. La cosa più bella è resa volgare. Se per avventura una parola sgorga dal fervore del cuore, tutta piena di sangue e di forza, in pochi giorni i giornali e le chiacchiere della gente ne prendono possesso, la sbiadiscono a luogo comune, la rendono scipita fino alla nausea. Oh, noi dovremmo apprendere a custodire le nostre parole più care, affinché la volgarità del pubblico chiacchierio non le insozzi!
Ed il nostro agire! Noi eseguiamo delle forme e non delle azioni! Diciamo delle larve di parole; compiamo delle ombre di azioni. Siamo consapevoli di quello che facciamo quando stringiamo la destra a qualcuno? Ci è chiaro che noi gli diamo la nostra fiducia, la nostra anima? Se lo sapessimo, lo faremmo con minor frequenza. Ma così tale atto è una vera formalità, che solo di rado è compenetrata di realtà spirituale, al punto che possiamo dare la destra all'amico intimo come a chi ci è indifferente o, addirittura, spregevole.
I saluti, gli auguri, i doni e la comunanza della tavola, le svariate forme della deferenza, hanno esse ancora un'anima? In caso diverso non potremmo scialarle con tanta facilità. Noi diciamo delle mere parole. Noi compiamo delle formalità. Viviamo in un mondo di segni, ma la realtà che essi significano l'abbiamo perduta.
Fintanto che le cose rimangono così, non c'è da parlare di una nuova civiltà. Questo lo possiamo anzi fare, solo perché si tratta di mere parole, ché, se con esse noi parlassimo di cose, sentiremmo subito quanto insignificanti esse siano. Solo attingendo il reale, la nostra vita potrà rinnovarsi. Solo rifacendosi all'infinità dell'essere, la nostra civiltà può ringiovanire. Fino a tanto però che non ci poniamo dinanzi al reale, alle cose, all'anima; fino a tanto che non ne percepiamo l'urto, donde ha mai da scaturire la realtà nuova? Sorgono nuove parole, godono per breve tempo una parvenza di vita, finché le avvolge il fascino della loro origine; ma presto sono ridotte ad un paio di luoghi comuni e nulla più. Tutto rimane oratoria da comizio, articolume di giornale, fino a che non evadiamo dalla parvenza e riattingiamo l'essenza e la realtà.
Immagini significative di cose, corpi sonori di fatti spirituali: questo han da essere le parole. Le azioni devono essere compenetrate di realtà interiore e debbono a lor volta abbracciare realtà. E riconosciamo vera forza di rinnovamento là ove l'uomo è di nuovo sensibile all'urto dell'essere, vi si arresta dinanzi, ammira, interroga; dove questo urto, ripercotendosi, gli foggia la parola e l'opera.
Ed il significato più profondo del movimento giovanile, in quanto è movimento e non solo mera organizzazione, sta appunto in questo: nella sua volontà protesa al reale. Basta colle larve di parole: rimettiamoci dinanzi alle cose! Evadiamo dalle nebbie infide delle idee indeterminate ed adusate e riapriamo gli occhi alla forza penetrante del reale! Deponiamo la veste glaciale delle frasi fatte! Rioffriamo il petto all'impressione delle cose, di modo che esso, nello stupore, nel dolore, nella gioia, ne percepisca la potenza!
Certo, al primo momento, questo sconcerterà e renderà muti. Le parole sembrano non più usabili, essendo state prostituite da un lungo abuso. Ricomincia una specie di balbettio. Molte cose vengono scoperte di nuovo e in modo nuovo vissute; gli oggetti, visti e sentiti in una nuova maniera, debbono cercarsi il proprio corpo verbale: allora la parola acquista una potenza nuova, e la più semplice comincia a risplendere con la maggiore intensità.
È così anche con le formalità. Via le maschere che non rivelano più i sentimenti, bensì li occultano! Via i formalismi che si frappongono tra cuori viventi e li ingannano! La gioventù ha da sperimentare di nuovo nel profondo ciò che vuol dare al prossimo, ciò che vuol essere per lui. Essa sente inoltre che nelle forme correnti non sopravvive molto di questa sincerità. Ne rimane sconcertata. E la si rimprovera di sconvenienza perché non ne vuol più sapere ormai di questi cadaveri di azioni. C'è anche il disorientamento della ricerca che qui comincia; ma dopo qualche giravolta essa giunge di nuovo a vere forme. E per questa via essa scoprirà come forme nuove anche le vecchie, scaturite dalla stessa essenza umana: esse vivranno allora della vita di questo essere e la semplice stretta di mano, i doni, la comunanza della tavola riassurgeranno a verace espressione di realtà interiori.
Tutto ciò ha da portare qualcosa di sconcertante, un cercare ed errare penoso. Chi lo esperimenta appare spesso scontroso, perché non può più scialare a chiunque ciò che per lui ha un significato così profondo; deve apparire come un originale, perché prende sul serio cose che nessuno più avverte; perché vede problemi che da tempo sono svaniti nella cecità di tutti gli occhi. Ma beata questa pena: da essa è per scaturire una civiltà nuova vitale.
Strano! Anni fa il Papa Pio X ha detto: «Ridate alle parole il loro senso!». Quanto profondamente ci penetra oggi nell'anima questa esortazione! Sì, ridare alle parole il loro senso, e così pure alle forme ed azioni della vita. Questo dovrà fare la gioventù.
Perché ho parlato di tutto questo? Perché in nessun ambito la profanazione della parola, lo svuotamento dell'agire, la vanificazione del segno è così terribile quanto nella vita religiosa.
Cosa deve succedere alla nostra anima, quando essa ha disimparato a soffermarsi dinanzi alle realtà della salvezza? Quando essa pronunzia sante parole che sono una vuota eco? Quando ha santi segni e compie sante cerimonie senza più avvertire la realtà che vi è rinchiusa? Dillo tu stesso, che peso hanno per noi le parole: «Dio», «Cristo», «grazia»? Cos'è per noi fare il segno della croce? Il piegare le ginocchia? Rivelazione di una realtà soprannaturale? Oppure una figura d'ombra? Una ascesa verso il cielo? O piuttosto un compiere delle formalità? Non è troppo spesso la seconda cosa? E tutto questo non perché in noi rigettiamo quelle verità, bensì perché in noi non v'è più quella viva coscienza della realtà di cui qui si tratta. Perché la nostra fede non ha più capacità di presa né forza visiva?
La fede è coscienza di realtà soprannaturali. La fede è vita in un mondo di realtà invisibili. Abbiamo noi questa fede? Qui dobbiamo iniziare il rinnovamento. Non distruggere l'«invecchiato» e trovare il «nuovo». Le grandi parole e le grandi forme della Chiesa scaturiscono dalle profondità essenziali. Cosa mai deve essere qui mutato? Puoi forse modificare la struttura della ruota o quella del martello? Esse sono corrispondenti all'essenza; appena sono viste, sono anche foggiate, e rimangono. Oppure credi di poter mutare l'afferrar della mano, ovvero il modo in cui l'occhio si fissa sull'oggetto? Molte delle parole e delle forme della Chiesa sono di questo genere.
Ci è possibile però un'altra cosa: «ridar loro il proprio senso». Cioè: vedere la realtà che dietro di esse giace. Rivivere ciò che si pronunzia. Allora le forme si svolgeranno dall'interiore pienezza.
Questo libretto vorrebbe esser di sussidio a tale scopo. Vuol mostrare come si possa cogliere un senso dietro le parole che diciamo ogni giorno; come si possano vivere i segni che ripetiamo di continuo. Vuol apprendere ed avvertire il nucleo delle forme di cui è intessuta la nostra vita. Allora sperimenteremo davvero l'urto delle realtà che ci giganteggiano dinanzi nella Chiesa e nelle sue consuetudini. E queste consuetudini riprenderanno a vivere quasi fossero totalmente nuove.
Non vuol essere però un libro didattico. Racconterò, come mi capita, ciò che mi è successo. E così come l'ho visto io, vedilo tu, meglio, più precisamente, più chiaramente; e buona fortuna.