Il mondo alla vigilia. Se abbiamo la fortuna di essere cristiani, abbiamo imparato a distinguere l'aspettativa dalla speranza, che è un dono prezioso, di Alain Besançon
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 9-10/1/2012 un articolo scritto da Alain Besançon. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (11/1/2012)
Il primo gennaio ci siamo augurati il buon anno. Ma né io né i miei amici l'abbiamo fatto tanto volentieri. Non sembrava realistico. Un'amica mi ha detto: mi aspetto cose terribili. In questi momenti di pessimismo, bisogna però tenere conto di ciò che è oggettivamente fondato e di ciò che dipende dall'umore malinconico.
Certamente ci sono motivi per essere preoccupati. La mia amica riteneva che eravamo arrivati a una convergenza di molte correnti diverse, che fluivano verso la stessa cascata, e che tutto si sarebbe fuso in una crisi più grande, di natura sconosciuta.
C'è una crisi economica a prima vista così profonda e complicata che gli economisti più esperti non sono d'accordo né sulle cause né sui rimedi. La maggior parte pensa che durerà per molti anni. Dall'ultima guerra le nostre società sopportano la disuguaglianza compensandola con la crescita, da cui traggono giovamento tutti, compresi i più poveri. Se non c'è più crescita, come reagiranno le nostre società, così ferocemente ugualitarie? Bisognerebbe quanto meno che fossero governate da una classe politica di grande qualità. In alcuni Paesi (fra cui l'Italia) noto un sussulto di spirito civico. In altri non lo percepisco.
Usciamo dall'Europa. In gioventù ho conosciuto un'America tranquilla, sicura delle sue istituzioni, bipartisan sulla maggior parte dei temi importanti. La violenza delle opposizioni, l'incompatibilità dei programmi, l'irrigidimento delle dottrine: era questo il pane quotidiano del mio Paese, la Francia, ma non quello degli Stati Uniti.
I nostri media si sono entusiasmati dinanzi alla cosiddetta primavera araba. Un anno dopo, prendiamo coscienza di essere in qualche modo al centro di un immenso movimento del quale non conosciamo la conclusione e non sappiamo neppure esattamente in cosa consista. Quel che dobbiamo fare, in attesa di vederci chiaro, è ridurre il nostro deficit cognitivo. Prima di agire o di non agire bisogna innanzitutto capire.
Un altro conflitto o diversi confitti sembrano maturare nel Vicino Oriente. Molti nodi non sono stati risolti. Se si giungerà a una guerra, nessuno può dire fino a dove si estenderà né quale forma assumerà. La Cina e la penisola coreana ci pongono altre questioni, e noi occidentali ne siamo sempre più coinvolti.
Ma la nostra preoccupazione può essere spiegata solo da fattori oggettivi? A me sembra che il nostro malessere, confuso ma profondo, provenga da più lontano. Dopo tutto, finora non è successo granché. Si direbbe persino, guardando la televisione, che non succede quasi nulla. Il livello di vita non è seriamente intaccato. Le lotte sociali, gli scioperi, le manifestazioni sembrano sorprendentemente poco numerosi e miti. Allora perché tanta preoccupazione?
Perché non capiamo più bene il mondo. Ieri avevamo la sensazione, senza dubbio illusoria, di capirlo. Ora non è più così. Troppi fenomeni nuovi e sconosciuti appaiono contemporaneamente. Penso a un romanzo di Turgenev che s'intitolava Alla vigilia. Anche noi abbiamo l'impressione di essere "alla vigilia", ma non sappiamo di cosa. Tanto che, se ci venissero chiesti dei consigli, non sapremmo più darli. Né ai capi di Stato né agli imprenditori oseremmo dire cosa fare.
Sentiamo che il nostro mondo è in pericolo. Ma facciamo fatica a prendere le sue difese. La vera arte, la buona letteratura, il grande pensiero devono esistere da qualche parte, ma non sappiamo più dove. Ci mancano opere e uomini da ammirare. Non ci amiamo più abbastanza.
Se abbiamo la fortuna di essere cristiani, abbiamo imparato a distinguere l'aspettativa dalla speranza. Dell'aspettativa possiamo fare a meno, ma non bisogna dimenticare che noi sappiamo molte poche cose. Non sappiamo se la nostra angosciata apprensione è esagerata. Temiamo qualcosa d'imminente. Forse è un'illusione.
Si parla troppo oggi della fine del mondo. Non dobbiamo dimenticare, come ci ricorda il Vangelo, che non sappiamo "né il giorno né l'ora". Quanto alla speranza, bisogna considerarla un dono prezioso, un tesoro da amare. Non sappiamo, in effetti, se, accanto a tutto ciò che muore, sta per nascere qualche nuova meraviglia. Come se altre meraviglie, altrettanto inattese, non si fossero improvvisamente prodotte nel corso della nostra storia, in questi tempi che, in ogni modo, sono "gli ultimi".
(©L'Osservatore Romano 9-10 gennaio 2012)