Raffaello e gli altri formato tessera. Le riproduzioni a mosaico di celebri dipinti nelle pale d'altare della basilica Vaticana, di Marco Agostini
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 30/12/2011 un articolo scritto da Marco Agostini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (3/1/2012)
Ai pellegrini, che per fede visitano la basilica costruita sulla tomba del Principe degli Apostoli, si aggiunge ogni giorno il flusso dei turisti che considerano il tempio per la sua arte. I secondi, in modo particolare, sono la riprova che oggi, più che in passato, è giunta a maturazione nell'uomo la reazione a quegli implacabili processi che avrebbero voluto la sua automatizzazione dopo averlo svuotato di ogni spiritualità. Diventare una macchina era un pericolo per l'uomo moderno che, dopo aver reso la materia simile a sé, correva - e forse, ancora corre - il pericolo di rendersi simile alla materia. L'uomo è fatto per il respiro largo e lo sguardo aperto e libero. La fede e l'arte sono le chiavi che spalancano le porte dello spirito e permettono all'uomo di rompere la maglia ferrea che sempre più implacabilmente lo stringe. In giorni come i nostri, nei quali l'arte è da molti intesa e vissuta come espressione e riverbero di un disordine interiore o di una spiritualità frantumata, riflettere su di essa significa richiamarne il valore originario e la funzione rivelatrice e liberatrice. Ogni uomo è attratto dall'opera geniale che tiene insieme alte concezioni, adeguata realizzazione immaginativa e perfezione di abilità tecnica.
L'arte fa respirare l'aria di un tempo diverso e di un luogo diverso che riconduce alla natura, alla sua scaturigine, all'Origine: il turista o il pellegrino nella basilica Vaticana si percepiscono nitidamente immersi in questa atmosfera. C'è il turista più o meno preparato a vedere cose belle, a osservare cose diverse da quelle che scorge nelle vetrine dei negozi, e che s'accontenta della contemplazione dell'opera in ratione naturae; gli basta ciò che è rappresentato: il fatto, la persona. C'è il pellegrino che guarda le opere con una partecipazione che possiamo chiamare emotiva dovuta alla "simpatia" con le stesse cose rappresentate; vede in esse quod naturae modum excedit.
Ma c'è anche il visitatore, pellegrino e turista, che insieme agli atteggiamenti ricordati, coglie le opere nel loro elemento materiale e tecnico, nel loro fine, nella loro collocazione storica, nella loro dipendenza dalla personalità singolare dell'artista, che osserva il modo estetico con cui sono fissate. Costui nota, assalito dalla sorpresa, che gli altari che ornano tutt'intorno la basilica hanno per pale dipinti famosi. "Qui?" si chiede. Sa che la Trasfigurazione di Raffaello, la Deposizione di Caravaggio, la Comunione di San Girolamo di Domenichino, la Crocifissione di San Pietro di Reni, il Martirio di Sant'Erasmo di Poussin si trovano nei Musei Vaticani o la Sepoltura e la gloria di Santa Petronilla del Guercino si trova ai Musei Capitolini, solo per fare qualche esempio.
Si avvicina per meglio osservare e s'accorge che si tratta di magniloquenti repliche a mosaico - alcune antiche di più di due secoli - matericamente preziose, eseguite anche con una tecnica raffinata, ma ugualmente copie ossia emulazioni di qualcosa di anteriore che qui non c'è più o non c'è mai stato. Imitazioni, non capolavori; ma simulazioni di capolavori. La storia dell'arte attribuisce alle riproduzioni un valore documentario: molti capolavori dell'antica statuaria greca li si conosce esclusivamente attraverso repliche di età romana.
Il mosaico in San Pietro è presente da sempre: numerosi lacerti sparsi qua e là nell'ampio spazio della basilica testimoniano che l'antico edificio costantiniano ne era coperto nel prospetto e all'interno. Anche nella nuova basilica, iniziata nel 1506, fu perpetuato l'uso di questa tecnica oggetto di meraviglia e per la difficoltà d'esecuzione e per la durata nel tempo. I cantieri di San Pietro in Vaticano e di San Marco a Venezia furono i due centri nei quali continuò il "ritorno paleocristiano" originatosi a Firenze al tempo di Lorenzo de' Medici.
Il primo parato musivo a essere realizzato fu quello della Cappella Gregoriana su cartoni di un artista molto stimato da Michelangelo Girolamo Muziano (1578-1580). Muziano diverrà il conservatore istituzionale dei mosaici, del decoro della basilica e degli edifici monumentali - in età tardo-manierista nasce lo Studio Vaticano del mosaico.
Poi, tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, venne il turno della Cappella Clementina e della poderosa "macchina di maniera" che è l'ornamentazione della cupola michelangiolesca, a opera di un gruppo di artisti sotto la guida del Cavalier d'Arpino e Marcello Provenzale. La cupola, in modo tutto particolare, resterà esemplare per l'impegno mirante a rendere con il mosaico un effetto difficilmente raggiungibile con pennelli e colori. Dopo la cupola il mosaico si estese anche alle pale degli altari: la prima a essere realizzata fu quella di San Michele Arcangelo (1628) su cartoni del Cavalier d'Arpino.
Ma in connessione alla creazione delle pale, durante il pontificato di Urbano VIII (1623-1644), si determinò un mutamento non privo d'ambiguità: fu deciso di replicare a mosaico dipinti su tela o tavola e anche affreschi che già si trovavano in San Pietro o in Vaticano. Non propriamente una novità giacché riproduzioni a mosaico di originali pittorici se ne erano fatte anche nell'antichità.
Ma l'operazione congelò la palpitante spontaneità del mosaico nella fredda immobilità della copia e soprattutto impiantò un sistema che finì per svilire ancor più la bontà di tale tecnica pittorica. Il mosaico in basilica, da allora, perdette la sua autonomia espressiva a favore di una piatta imitazione della pittura fino a essere considerato una "pittura fatta di pietra". Per adattarli a luoghi di collocazione diversa, gli originali furono, talvolta, riprodotti ingranditi o diminuiti nelle dimensioni con esiti modesti ed eccentrici.
Aveva cominciato a farsi strada l'idea che sugli altari ci potevano stare "trascrizioni" anziché originali. Si pensava che i virtuosismi di una tecnica difficile bastassero a sopperire alla rinuncia ai talenti, alla confusione eclettica dei linguaggi, concentrandosi su forme sempre più esangui di conveniente decoro e rappresentazioni estenuate del "bello ideale". Mosaici di maniera, in cui le figure si assomigliano, i colori sono tenui e il disegno è privo della forza dei secoli passati.
Una svolta brusca e per certi aspetti inspiegabile nel tempo in cui, tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento, una Roma nuova stava sorgendo e che vedeva operare i più grandi geni del momento: da Caravaggio ai Carracci e agli "Incamminati" bolognesi, dal Bernini a Borromini a Pietro da Cortona. Al principio del Seicento grazie al mecenatismo dei Papi e delle nobili famiglie della loro cerchia politica, Roma stava autorevolmente riemergendo come centro artistico e culturale. I pontefici e i cardinali, secondo la tradizione del secolo precedente, si erano dichiarati protettori degli artisti predisponendo un clima che dava un volto nuovo all'Urbe.
Fu nella prima metà del Settecento, allorquando si consolidò l'istituzione preposta alla conservazione delle ornamentazioni della basilica, che la svolta manifestò i suoi aspetti più pericolosi: l'interesse eminente era ormai per il perfezionamento della tecnica e la sperimentazione. Il notevole progresso nel campo della ricerca sui materiali - ad esempio la scoperta di un nuovo smalto che assicurava effetti speciali - fece ritenere che ciò bastasse a motivare la riesecuzione di quasi tutte le pale degli altari. Innanzi alle conquiste tecniche concetti come originale o copia, già compromessi, furono del tutto accantonati. Dagli originali furono ricavate copie che funsero da cartoni per i mosaici.
Di più, dato che s'imponeva la "necessità" di rifare, ci si spinse oltre mutando i soggetti da copiare. Il San Michele di Guido Reni a Santa Maria della Concezione non era forse più bello di quello del Cavalier d'Arpino? Si cassò quest'ultimo, un originale, e lo si rimpiazzò con la copia di Reni. Si replicarono tele: il mosaico della Trasfigurazione di Raffaello fu eseguito tra il 1759 e il 1767 derivandolo da una copia dell'originale eseguita per fungere da cartone. Si segarono pareti e trasportarono affreschi altrove: il Martirio di San Sebastiano di Domenichino ora nella basilica di Santa Maria degli Angeli, il San Pietro che cammina sulle acque di Giovanni Lanfranco ora sul muro esterno della Cappella Paolina. Nell'Ottocento si copiarono la Deposizione nel sepolcro di Caravaggio, l'Incredulità di S. Tommaso di Passignano e via discorrendo.
Il beato Pio IX e, poi, san Pio X posero dei limiti all'istituzione che "conservava" in tale maniera, fino alla cessazione delle attività con Paolo VI nel 1967. Talvolta una certa "disinvoltura" artistica e storica affiora dentro e fuori la basilica.
Ma andiamo a riprendere il nostro turista che si è appressato all'altare più vicino: la scoperta che la Comunione di San Girolamo di Domenichino è una copia a mosaico lo trattiene discosto dagli altri altari convinto a proseguir la visita leggendo la guida. Il nostro è attratto dagli archi, dalle volte, dalla cupola michelangiolesca, dalla loro prospettiva e simmetria: continuità concave che racchiudono in uno spazio una civiltà un'anima quella del rinascimento.
Si lascia attrarre dai monumenti dei Pollaiolo, di Michelangelo, Pietro da Cortona, Bernini, Algardi o Canova e altri originali ancora. A occhi aperti sogna una basilica dove sono tornati "al loro posto", misure permettendo e naturalmente senza nuove distruzioni - magari con una semplice sostituzione o sovrapposizione - gli originali sopravvissuti e albergati al Museo.
Vede, d'improvviso, il Bene supremo colto come Vero manifestarsi con particolare splendore. Vede nella chiesa dileguarsi l'atmosfera algida e apocrifa delle pale musive e diffondersi un vivo calore. Ode i dipinti sussurrargli la felicità di essere stati restituiti al loro ambiente naturale e alla funzione per cui sono stati realizzati. Vede i sacerdoti celebrare Messa con più fervore e letizia e i fedeli inginocchiarsi con gioia perché il Vero e il Bello sono tornati a splendere a gloria del Sommo Bene. E sente che pure a lui, turista assetato di bellezza e smarrito nelle secche dei tempi moderni, è data la possibilità di progredire dal bello sensibile alla Bellezza eterna ove sono il riferimento e il valore primo, percepisce che l'amore delle cose belle eleva la sua anima all'amore della Bellezza prima, incorporea, ingenerabile, incorruttibile. Sente la nostalgia serrargli il cuore e prendergli il desiderio di fermarsi dinnanzi a un altare. "Se mai momento della vita merita d'essere vissuto dall'uomo, questo è quello che egli vive quando contempla la Bellezza in sé" (Platone, Il Convito, traduzione di C. Diano, Bari 1946, p. 211).
(©L'Osservatore Romano 30 dicembre 2011)