Un dibattito sulle "competenze" nella scuola tra Giorgio Israel e Luciano Benadusi
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Riprendiamo dal web un dibattito tra Giorgio Israel e Luciano Benadusi pubblicato su Scuola Democratica, n. 2 della nuova serie, giugno 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel. Di Giorgio Israel, vedi su questo stesso sito anche:
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Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2011)
Indice
- 1/ Sulla questione delle competenze, di Giorgio Israel
- 2/ Riflessione conclusiva di Luciano Benadusi
- 3/ Contro replica di Giorgio Israel
1/ Sulla questione delle competenze, di Giorgio Israel
Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una formazione scolastica “per competenze” sono due:
(a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale;
(b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze.
In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che si possa apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche.
Mi è occorso più volte, in dibattiti e conferenze, di leggere alcuni brani per descrivere la didattica per competenze, suscitando un entusiastico consenso da parte dei sostenitori di tale didattica, seguito dall’imbarazzo nell’apprendere che quei brani erano tratti dal Regio Decreto del 1913 istitutivo dei Ginnasi-Licei Moderni. È un peccato veniale introdurre una nuova terminologia per richiamare l’esigenza di insegnare bene.
Tuttavia, l’introduzione di definizioni superflue non è mai un fatto positivo. In realtà, anche l’esigenza (b) è inconsistente, in quanto – come vedremo – la pretesa di misurare le competenze è destituita di qualsiasi serio fondamento.
Ciò non vuol dire che la tematica della didattica per competenze sia priva di motivazioni, che però sono di altra natura. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obbiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che da tempo si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche.
Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento. Al contrario, la teoria delle competenze si è sviluppata nel primo ambito quando nessuno aveva mai pensato di implementarla nel secondo. Una ricostruzione storica accurata di questi processi – che non è qui possibile – potrebbe mostrarlo in modo rigoroso.
Mi limiterò a ricordare che, dopo alcune prove nel settore militare durante la Seconda guerra mondiale, il concetto di competenza fu introdotto nell’ambito aziendale dallo psicologo statunitense David McClelland. Dopo una prima elaborazione teorica, McClelland implementò il modello delle competenze nelle organizzazioni aziendali attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963. I “McClelland-McBer competency models” miravano a replicare i discreti risultati ottenuti in ambito militare.
Tuttavia, mentre la “misurazione” delle capacità di un pilota di aviazione poteva essere stimata in modo accettabile con parametri come il numero di bersagli colpiti rispetto agli obbiettivi prefissati, la misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e la sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test) si rivelò subito molto problematica e ancor più la gestione del colloquio di valutazione. Furono così fatti numerosi tentativi di correzione – in particolare quando la McBer venne acquistata dalla Hay – attraverso lo sviluppo della “Theory of Needs”.
Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti. La definizione della tipologia delle competenze si è rivelata estremamente problematica: anche nel caso di importanti grandi aziende si constata che la tipologia di competenze di un dirigente è quasi uguale a quella di un dipendente del più basso livello. La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà.
Nonostante queste difficoltà – che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale fa acqua da tutte le parti – essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico. Il caso più plateale è quello del modello di insegnamento “efficace” introdotto in Inghilterra nel 2000 e commissionato direttamente alla Hay-McBer. Il modello è strutturato in 16 caratteristiche organizzate in cinque gruppi, riflette in pieno le tecniche e l’ideologia della HayMcBer ed è evidente quanto si basi su definizioni vaghe, generiche e arbitrarie:
Professionalismo: Rispetto degli altri- Capacità di proporre sfide e sostenerle - Fiducia in sé - Capacità di ispirare fiducia
Capacità intellettuali: Pensiero analitico - Pensiero concettuale
Capacità di programmare e creare aspettative: Capacità di guidare il miglioramento - Spirito d’iniziativa - Capacità di ricercare le informazioni necessarie
Capacità di guida: Capacità di gestire gli alunni - Passione nel predisporre l’apprendimento - Flessibilità - Capacità di responsabilizzare gli altri
Capacità di relazionarsi agli altri: Comprensione degli altri - Capacità di persuadere e influenzare - Capacità di lavorare in squadra.
Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che nessuna di queste caratteristiche è misurabile. Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta ma è intrisa di fattori soggettivi. Nella fattispecie essi sono rappresentati dai test che sono lo strumento principe di queste valutazioni quantitative. I test sono preparati da persone che hanno opinioni soggettive – spesso assai opinabili e divergenti tra loro – sui criteri di valutazione delle competenze. Pertanto, credere che il test rappresenti una forma di valutazione oggettiva è un modo inelegante di nascondere la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto.
Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, sostituendo le qualità con i numeri si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile al livello della valutazione di “competenze” minime pur restando intriso di elementi soggettivi.
È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici. Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenze: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato (si pensi ai test d’ingresso nelle università o ai test scolastici in cui si valutano capacità di base di ortografia, grammatica e calcolo). Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali (come nel modello precedente) nessuna stima quantitativa è possibile. Questa ammissione, condivisa da chi si è occupato in modo serio della questione, non impedisce che vi sia chi si ostina a parlare di misurabilità delle competenze.
Il vero punto di forza della didattica delle competenze sta nell’esigenza di determinare modalità di valutazione delle capacità lavorative delle persone che valgano per tutta l’area europea. Allo scopo le culture nazionali rappresentano un intralcio. Le competenze chiave enunciate dal Parlamento Europeo corrispondono a quella esigenza e inevitabilmente indirizzano verso un approccio anticulturale in cui non c’è posto per la letteratura, la storia o la filosofia e neppure per una scienza concettuale, mentre tutto lo spazio è riservato a capacità meramente tecnico-operative. Questo andazzo, oltretutto gestito da una burocrazia priva di basi culturali, dovrebbe preoccupare in quanto può provocare un grave declino dei sistemi dell’istruzione.
Chi ha a cuore il futuro di questi sistemi dovrebbe battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione
della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratiche e di mercato del lavoro.
Spesso ci si chiede se la didattica delle competenze sia “di destra” o “di sinistra”. È indubbio che fino a tempi recenti le visioni ispirate a un approccio tecnocratico erano duramente avversate dalla cultura progressista. Oggi, dopo l’abbandono di molti riferimenti culturali – si pensi al rigetto della concezione gramsciana della scuola – il costruttivismo pedagogico che sorregge quelle visioni attira un’area progressista che vi scorge assonanze con una sua tradizione legata al costruttivismo sociale. Si tratta, a mio avviso, di un grave fraintendimento che è un’ulteriore manifestazione della confusione teorica del periodo presente.
2/ Riflessione conclusiva di Luciano Benadusi
Il dibattito tra Ajello ed Israel ha visto confrontarsi sulle nostre pagine due posizioni sul tema dell’introduzione dell’approccio per competenze nella scuola italiana. La prima è una posizione di cauta ma convinta adesione, anche se critica sulle modalità con le quali si va oggi avviando nella secondaria superiore la procedura della certificazione. A tale posizione, che è poi quella condivisa dalla direzione della rivista, si è contrapposta, come avevamo previsto e voluto al fine di offrire una rappresentazione la più chiara possibile del dissenso esistente in materia, la seconda, espressa con accenti così veementemente critici da sfociare talora nell’invettiva.
È buona regola per chi, pur abbracciando senza ambiguità un determinato punto di vista, intenda sottrarsi alle zuffe ideologiche che tanto spesso hanno punteggiato la politica scolastica italiana, cercare di capire, prima di criticare il punto di vista opposto, se qualche ragione non possa essergli riconosciuta. Nel caso in questione ritengo che qualche ragione vi sia ma riguardi non già l’approccio delle competenze o altri ad esso apparentati - come il costruttivismo pedagogico – bensì solo alcune loro derive, realmente verificatesi ovvero soltanto potenziali.
Le competenze: polisemia dei significati
Una critica rivolta da molti – ad esempio, da un recente saggio di Crahay – si appunta sulla polisemia del termine competenza e sull’eterogeneità delle concezioni pedagogiche che ne fanno uso. Che coesistano svariate definizioni di “competenza” può però derivare non da una sua intrinseca fragilità ma dal fatto che è una idea non ancora consolidata.
La polisemia rappresenta - è vero - un rischio per chi si disponga ad applicare il concetto senza esserne consapevole e senza cercare di mettere ordine fra i suoi diversi e in parte ancora confusi significati, ma costituisce una trappola anche per chi ne fa la critica opponendole stravaganti misture di obiezioni, spesso fra loro del tutto contraddittorie. Come lo sono quelle secondo cui l’approccio, per effetto del suo costruttivismo spontaneistico “progressista”, sarebbe foriero di degrado nella serietà degli studi e contemporaneamente si farebbe portatore di una pretesa ossessiva, velleitaria e pericolosa di “misurazione”.
Il comportamentismo sotteso ad eccessi di standardizzazione e quantificazione in educazione nulla ha infatti a vedere con i tratti spontaneistici ravvisabili talora nelle pratiche didattiche che un tempo si richiamavano all’attivismo e oggi si richiamano piuttosto al costruttivismo. Allo stesso modo raffigurare l’approccio delle competenze come una pedagogia di stampo espressivo e ludico, per rispolverare e rivolgergli contro le critiche gramsciane alle pedagogie dello “sgomitolamento”, mal si accorda con il rimprovero di abbracciare della scuola una visione strumentale rispetto al lavoro e di farsi veicolo di un progetto educativo di tipo tecnocratico.
Intanto, che l’approccio delle competenze appartenga al filone costruttivista e si ponga in continuità ideale con l’attivismo è asserzione vera ma solo fino ad un certo punto. In talune sue versioni, infatti, esso, come riconosce la Ajello, richiama da vicino la preesistente “pedagogia degli obiettivi” assumendo connotati che rimandano al comportamentismo piuttosto che al costruttivismo. Per Israel i principali motivi addotti dai sostenitori per preferire le competenze alle conoscenze sarebbero due: “la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico” e la loro maggiore misurabilità. Su entrambi punta la sua confutazione.
Del primo motivo contesta la novità e rimarca quindi la sostanziale inutilità.
Ora è pur vero che i libri di testo in matematica, per la verità assai più di quanto non lo siano quelli relativi ad altre discipline, sono pieni di esercizi, ma saper fare degli esercizi non significa ancora saper fare “problem-solving” nel significato che al termine si attribuisce nell’odierno approccio per competenze e che rinvia alla capacità di risolvere problemi in svariati contesti, anche “reali” (cioè extra-scolastici) ed inediti, a volte caratterizzati dalla necessità di combinare più saperi disciplinari.
Oggi, a quanto mi riferiscono colleghi universitari di matematica e non faccio fatica a crederlo pensando a ciò che accade in altre discipline di cui ho diretta esperienza, già il porre un “esercizio” tradizionale al di fuori del capitolo dove sono spiegate le relative regole e teoremi crea difficoltà a chi apprende in modo nozionistico, sicché una prima “competenza” da valutare è proprio la capacità di individuare quale sia lo strumento adatto per affrontare un esercizio senza sapere a quale capitolo si riferisca.
Misurare, stimare, ponderare: con le competenze si può
Quanto alla maggiore misurabilità delle competenze rispetto alle conoscenze, se qualcuno ha sostenuto ciò – mi piacerebbe apprendere chi ma di certo non si tratta di una tesi diffusa fra gli studiosi seri di questi problemi - anche a mio avviso egli sarebbe caduto in errore. Le grandi indagini internazionali, ad esempio Pisa, contengono sia quesiti relativi alle conoscenze che quesiti relativi alle competenze o alle abilità. Non è ciò a fare la differenza nella configurazione e ponderazione dei quesiti, ma è il livello di complessità dei processi cognitivi interessati.
Quanto poi alle valutazioni che gli insegnanti italiani si accingono a fare per certificare le competenze al termine dell’istruzione obbligatoria, sulla base di una lista ricavata con qualche modifica dalle “competenze-chiave” europee, abbiamo anche qui a che fare con “conoscenze, abilità e competenze” e la scala adottata è a quattro livelli (incluso il non possesso), quindi meno pretenziosa di quella in decimali utilizzata per i voti tradizionali. In altri paesi si sono scelte scale ancora meno pretenziose, per esempio in Francia solo a due livelli. Non vedo dunque quale particolare ossessione misuratoria sia legata alle competenze piuttosto che alle conoscenze.
L’obiezione principale di Israel sul punto riguarda il testing e la questione della misurabilità delle competenze, e – io aggiungo (perché no?) - delle conoscenze. A suo parere, “una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie”. In assenza di tali condizioni non di misurazione si deve parlare bensì al massimo di “stima quantitativa”. Sul significato più forte o più lasco da dare al termine misurazione vi è discussione sia fra i matematici che, ancor più, fra gli statistici. Ad esempio, nell’editoriale del numero del 2009 di Mathesis, la rivista della Società Italiana di Matematica e Fisica, a proposito delle nuove Indicazioni Nazionali per i licei compare senza riserve la famigerata “misurabilità”. Vi si legge infatti: “Le Indicazioni, dunque, costituiranno l’insieme delle mete che gli esperti avranno selezionato e posto a traguardo dell’azione didattica che tutte le scuole del territorio nazionale dovranno svolgere.
Un’azione, quella dei docenti e delle scuole, tesa non solo a raggiungere il traguardo ma a tradurlo in un risultato, accertabile e misurabile”.
Sulla questione, tuttavia, non mi ritengo in grado di interloquire. Posso anche arrivare a comprendere le ragioni di chi, come Israel, reputa più utile, ad evitare confusioni, utilizzare la locuzione “stima quantitativa” piuttosto che “misurazione” ogniqualvolta si abbia a che fare con variabili non rigorosamente metriche, come è nel caso del testing. Mi è del tutto chiaro che in tali operazioni le “misure”, malgrado tutti gli sforzi di standardizzazione, trattengono in se sempre un certo grado di soggettività e non vanno – come fanno spesso gli incompetenti – assolutizzate né reificate. Posso anche accettare che un interrogazione o un esame ben fatto sia migliore di un test, come se ne vedono diversi, mal fatto o male interpretato.
Tuttavia, delle “stime quantitative” effettuate mediante test seriamente costruiti, per quanto le si voglia immaginare intrise di elementi soggettivi, si distinguono per un grado di attendibilità e di condivisibilità sicuramente maggiore rispetto a quello di una chiacchiera da bar, di una sparata ideologica e pure – ed è ciò che qui più ci interessa – di quel voto in decimali su cui si è sempre (o quasi) basata, e tuttora si basa, la valutazione scolastica. Chi conosce la letteratura sul tema sa quante analisi sono state fatte su elaborati scritti valutati secondo spettri larghissimi (da giudizi iperfavorevoli a insufficienze) da insegnanti diversi, per non dire dell’influenza sull’andamento di un’interrogazione di circostanze casuali, quali una lite dell’insegnante, la mattina prima di uscire di casa, con il suo coniuge.
Le procedure di testing, quando seriamente progettate come è nel caso delle grandi indagini internazionali condotte dall’Ocse e dallo Iea, ammettono una variabilità delle valutazioni decisamente più contenuta. Ad esempio, nel caso di Pisa vengono alla fine utilizzati solo quei quesiti che, passati al vaglio di numerose giurie di valutatori, messe al lavoro nei diversi paesi sulla base di criteri espliciti ed omogenei, siano risultati caratterizzati da variazioni di giudizio sulle relative risposte mai superiori al 10%. Malgrado l’adozione di procedure rigorose, che peraltro non hanno impedito l’uso di quesiti assai più complessi di quelli ammessi da Israel, permangono ovviamente elementi di soggettività.
Ma se si dovesse negare attendibilità a qualsiasi “misura” o “stima” che non si conforma alle sue prescrizioni ad essere delegittimati non sarebbero solo i nuovi e sofisticati test di valutazione dell’apprendimento ma la maggior parte delle tecniche quantitative impiegate nelle scienze umane, economiche e sociali e perfino molte di quelle all’opera nelle scienze fisiche e naturali. Con l’effetto di una regressione scientifica e culturale di più di un secolo e di tutta una serie di disastrosi arretramenti di ordine pratico. Si può ben dire, se si vuole, che neanche “mare forza 8” è propriamente una misurazione, ma chi sta per andare in mare con un peschereccio sa perfettamente che imbattersi in un’ondosità “forza 8” o “forza 2” non è esattamente la stessa cosa.
Concezioni, strumenti, contesti: il viaggio delle competenze
Dunque, sono le distorsioni che ne accompagnano talora la concezione e la diffusione e non il testing in se che occorre criticare. È stata, del resto, proprio la letteratura pedagogica, psicologica e sociologica, cioè l’expertise di chi studia i processi e i sistemi educativi e non semplicemente le singole discipline insegnate, che le ha da tempo individuate: il “feticismo del numero”, cui si è già accennato, l’apprendere non per il sapere ed il saper fare ma per “il sapere superare il test”, la concentrazione dei curricoli scolastici e della valutazione sulle materie più suscettibili di divenire oggetto di test e di comparazioni a larga scala con sacrificio delle altre, il dimenticare che una valutazione di ordine globale su uno studente non può prescindere da apprezzamenti di ordine qualitativo di cui a farsi carico deve essere l’insegnante.
A ciò i sociologi e gli psicologi ad indirizzo culturalista aggiungono quella sorta di individualismo, per così dire ontologico, che pervade talora l’interpretazione politica delle “misure” delle competenze e che induce a trascurare il ruolo svolto dai contesti sociali ed organizzativi entro i quali le competenze si manifestano. Se prendiamo un atteggiamento – ad esempio, la motivazione – o un’abilità – ad esempio, il saper lavorare in gruppo – possiamo constatare come essi varino da contesto a contesto chiamando in causa “altro” rispetto ai supposti attributi o “meriti” personali. Non per questo però attributi come quelli ora indicati debbono essere considerati insuscettibili di stima quantitativa.
Probabilmente, l’insuccesso dello strumento di rilevazione delle motivazioni utilizzato nelle aziende dalla Hay-McBeer menzionato da Israel, ed al quale peraltro non si può attribuire un valore rappresentativo degli innumerevoli strumenti impiegati da questa stessa società e da altri nella gestione delle risorse umane per competenze, dipende proprio dall’avere sottovalutato il problema della contestualizzazione. In ogni caso, al di là delle critiche alle quali può essere giustamente sottoposta l’una o l’altra delle applicazioni, vi è da ricordare che l’uso del concetto di competenza nelle scienze organizzative ha preso le mosse con McClelland dal riconoscimento del fallimento predittivo degli altri strumenti fino ad allora impiegati negli Stati Uniti: titolo di studio e test attitudinale. Inoltre, come ci rammenta la Ajello, “Il concetto di competenza nelle scienze organizzative si connette alla necessità di superare quello di skill legato alla tradizione fordista, a favore di una visione più complessa dell’agire intenzionale nei contesti di lavoro. Dalla “mansione” al “ruolo” alla “professione” si è progressivamente focalizzata la funzione della conoscenza applicata ai contesti di lavoro, mettendone in luce tanto la valenza come motore di innovazione, quanto la flessibilità, la continua adattabilità a situazioni mutevoli”.
Ma è poi vero che l’approccio delle competenze sia viziato, come proclamano degli intellettuali che politicamente si collocano nella sinistra radicale, in curiosa consonanza con chi su posizioni politiche opposte vagheggia il ritorno alla scuola elitaria e classista del passato, da uno strumentalismo utilitarista e dalla subordinazione tecnocratica dell’educazione al lavoro?
Non basta per dimostrare tale asserto notare che il metodo delle competenze è trasmigrato nella scuola dopo essere nato nella gestione aziendale delle risorse umane. Innanzitutto perché educare alle competenze significa cercare di stabilire un nesso non solo con il lavoro ma con un insieme di pratiche sociali significative, incluse quelle di cittadinanza, come ci hanno ribadito più volte i suoi sostenitori, a cominciare da Perrenoud. Ed anche un nesso con situazioni problematiche di tipo personale ad affrontare le quali potrebbe giovare, ad esempio, un apprendimento vivo, e non inerte, di una disciplina fondamentale, ma oggi depotenziata da una cattiva didattica, quale la filosofia.
Poi perché la genealogia dell’approccio per competenze è assai più complessa e alcune matrici, come il cognitivismo e più in generale il costruttivismo psicologico, sono tutt’altro che di provenienza aziendale. Infine, guardare con sospetto ed ostilità alla connessione, che non equivale a subordinazione, tra educazione e lavoro, due mondi abnormemente divaricati, è un atteggiamento comprensibile solo in un contesto culturale ancora impregnato di idealismo e di ideologia, come quello italiano. Sorprende però che si dimentichi quanto il tema del rapporto della scuola con il lavoro e con le pratiche sociali abbia occupato una posizione centrale non solo nel pragmatismo americano ma anche nella tradizione pedagogica marxista, da Marx fino allo stesso Gramsci, filosofo della prassi.
Le competenze non oscurano il ruolo del sapere
Non mancano versioni dell’approccio per competenze caute se non diffidenti nei riguardi del testing e delle comparazioni basate su indicatori; ed in teoria potrebbero essere proprio queste, in quanto più vicine a ciò che in passato è stato l’attivismo, il bersaglio delle critiche mosse da Israel al “costruttivismo progressista”. In effetti, una deriva anti-intellettualista fu allora presente in alcune delle esperienze delle “scuole nuove”, nei casi in cui la giusta attenzione agli interessi naturali dello studente ed all’importanza dell’apprendere attraverso il giocare ed il fare ha condotto ad appannare il ruolo del sapere.
Contro di essa alcune decine di anni fa indirizzò la sua critica Bruner, e da essa si sono tenuti a distanza tanto il costruttivismo cognitivista quanto quello socioculturale, come ne era già rimasto immune nella sostanza il pensiero pedagogico di Dewey. Anche se fenomeni analoghi possono essere ricomparsi in fasi più recenti dell’innovazione nelle scuole, non mi sembra proprio che siano da additare come le cause del lamentato declino dei livelli di apprendimento. Semmai, una causa importante, insieme ad altre, è stata una certa rassegnazione o lassismo diffusosi fra gli insegnanti quando alla crisi irreversibile dei vecchi modelli educativi non si è potuto (o saputo) dare risposta introducendone in modo solido ed efficace dei nuovi.
Dunque, per dirla con la Ajello, “non esiste in linea di principio alcuna contrapposizione fra scuola delle conoscenze e scuola della competenza”, questa può essere al massimo una deriva, tutt’altro che inevitabile, dell’approccio per competenze. Se correttamente inteso ed efficacemente implementato, tale approccio è in grado al contrario di esaltare il ruolo del sapere mobilitandolo nell’azione e promuovendone la trasferibilità in contesti altri rispetto a quelli scolastici, così da assicurare nello stesso tempo una più piena padronanza ed una più trasparente (e motivante) attribuzione di senso.
Da una minore dilatazione dell’area dei contenuti – di certo non inopportuna in una scuola che ha sofferto a lungo i danni di un enciclopedismo ipertrofico e velleitario – e da una concentrazione sulle strutture portanti delle discipline, che sarebbe propria di una scuola divenuta un poco più intensionale e un poco meno estensionale, possono infatti trarre beneficio sia la profondità del processo di appropriazione che la capacità di attivazione delle conoscenze acquisite.
In una società della conoscenza e dell’apprendimento permanente imparare ad accrescere il proprio patrimonio di conoscenze ed a riusarlo in situazioni e dinanzi a problemi nuovi è divenuto oggi il compito fondamentale dell’istruzione iniziale. Come osservò Papert, uno dei pionieri delle nuove tecnologie dell’apprendimento, a chi ha bisogno di pesce per mangiare più che fornirlo di pesce è utile dargli una lenza e insegnargli a pescare.
Certo, perché l’approccio per competenze abbia successo sono necessarie diverse condizioni: innanzitutto insegnanti più preparati, nei metodi come nei contenuti, nonché un grande rinnovamento della didattica, quale oggi è reso possibile, più che non lo fosse in passato, da un intelligente utilizzo scolastico delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. E a cui si accompagni un analogo rinnovamento degli stessi ambienti fisici dell’apprendimento, ancora strutturati secondo un modello che difficilmente si accorda con una didattica diversa da quella tradizionale di tipo trasmissivo.
La diffusione degli stage, dell’alternanza, del lavoro per progetti e di altre forme di apprendistato cognitivo, soprattutto ma non solo nell’istruzione tecnica e professionale, rappresenta un altro passo necessario nella direzione indicata. Occorre poi che l’intero percorso curricolare venga strutturato secondo la logica integrata delle conoscenze e delle competenze, come si è fatto in Francia ed in Spagna nel recepire le Raccomandazioni dell’UE sulle “competenze-chiave per l’apprendimento permanente”, anziché, come si va facendo ora in Italia, introdurre la certificazione di queste ultime solo lateralmente e ad un certo punto del percorso, senza un organico coordinamento con i programmi di studio regolati dalle Indicazioni nazionali e dalle Linee-guida e senza connessione con il meccanismo ordinario degli esami.
Dittatura degli esperti?
Per finire, mi trovo controvoglia nella necessità di commentare in modo polemico la parte finale dell’intervento di Israel dove la critica, sempre utile anche quando non condivisibile, scivola nell’invettiva. Mi pare di capire che egli veda nel ceto degli esperti della “organizzazione scolastica” – un ceto che, in quanto sociologo, vorrei un poco meglio identificato – una sorta di Anticristo, il subdolo portatore di tutte le malattie di cui soffre la nostra scuola. Personalmente, pur rifiutandomi di riconoscere come esperti tutti quelli che si considerano o sono considerati tali, ritengo che i pericoli maggiori vengano piuttosto dagli inesperti o dai dilettanti, a volte perfino orgogliosi della propria incompetenza. Le loro opinioni in Italia – diversamente che in altri paesi – godono di un’eco mediatica e di un’influenza sulle politiche educative ben maggiore di quelle degli esperti e dei ricercatori. A meno che si ritenga che l’educazione, a differenza di tutti gli altri settori della società, non meriti di essere studiata con metodi scientifici da una comunità, peraltro multidisciplinare, di studiosi e di ricercatori specializzati. Non sarebbe questa una manifestazione davvero inquietante di anticultura?
3/ Contro replica di Giorgio Israel
Desidero ringraziare Luciano Benadusi per avermi offerto l’opportunità di una replica.
Inizierò dal suo commento polemico nei confronti di quella che definisce la mia “invettiva” contro la “dittatura degli esperti”. Detesto troppo gli integralismi di ogni sorta per pensare a chicchessia come “Anticristo”e rivolgergli invettive. Rivendico invece il diritto all’indignazione nei confronti di fenomeni che illustrerò con qualche esempio.
Penso alla pretesa di imporre autentiche assurdità di merito dall’alto di una generica competenza nelle metodologie didattiche. Giustamente il sociologo Benadusi ammonisce di non giocare con le categorie sociologiche senza corrette specificazioni. Sono d’accordo e proprio per questo trovo inaccettabile che certi psicologi o pedagogisti, per sostenere le loro teorie sui disturbi di apprendimento, propinino come verità indiscussa una definizione della matematica come “scienza procedurale”, oppure che un somministratore di test inventi la ridicola categoria della “matematica argomentativa”.
Potrei riempire pagine con le assurdità inventate da certi didatti della matematica, per esempio sulla distinzione tra divisione “per ripartizione” e “per contenenza”, presentate come concetti diversi di cui si dovrebbe addirittura dimostrare a posteriori l’equivalenza (traggo questo esempio da un documento ministeriale). Dopo qualche decennio di studio di una disciplina si ha il diritto di rifiutare che venga fatta a pezzi per ragioni ideologiche.
Sono pronto a offrire la fenomenologia in mio possesso, perché Benadusi ne tragga conclusioni con la competenza del sociologo. Mi riferisco a persone prive di esperienza specifica in tema di insegnamento, e la cui formazione generalista è inadatta a comprendere i problemi specifici di insegnamento e apprendimento, la cui carriera si è sviluppata in altri contesti, come quello giuridico, amministrativo, burocratico, economico o manageriale, e che presumono che la competenza acquisita in tali contesti basti a gestire ogni sorta di struttura organizzativa, inclusa quella scolastica, e dispensano precetti in modo apodittico.
Mi limito a due esempi. L’ex-manager della McKinsey, Roger Abravanel ha affermato: «La gente non ha capito che il mondo è cambiato, che siamo ad un’economia post industriale basata sui servizi, in cui conta non tanto imparare a memoria le idee di un altro, ma esser capaci di avere proprie idee». E ancora: «La scuola del domani non deve insegnare cosa pensare ma soltanto come pensare». È grottesco ritenere che si possa apprendere a pensare senza oggetto del pensiero. Inoltre, l’idea che finora l’umanità si sia limitata ad apprendere a memoria le idee degli altri e che soltanto ora si sia appreso ad avere “idee proprie”, è una sciocchezza talmente grande, una manifestazione così clamorosa di ignoranza della storia della cultura e delle idee da non meritare commenti.
Eppure l’autore di questi propositi viene spesso consultato come un “guru” dell’istruzione.
Secondo Henry Jenkins, Direttore del Comparative Media Studies Program (negli USA), tra gli adolescenti si starebbe affermando un nuovo modo di apprendere basato sullo scambio di opinioni e informazioni in rete, che imporrebbe una concezione nuova del sapere e del modo d’apprendere. Colui che sa – continua Jenkins – non è l’insegnante, il professore, ma il primo tra pari. Cambierebbe così il concetto di proprietà della conoscenza che diverrebbe un patrimonio non esclusivo ma condiviso, aperto, accessibile a tutti, ovunque, sull’istante, e così verrebbe sottratto all’istituzione scolastica il monopolio dell’accesso al sapere.
È un ragionamento volgare, basato sulla confusione elementare tra informazione e conoscenza. L’accessibilità massima all’informazione – che è un effetto positivo delle tecnologie informatiche – non implica affatto il possesso della conoscenza. Quest’ultima si costruisce attraverso un interminabile processo in cui il ruolo dei “maestri” è fondamentale. L’idea che la conoscenza sia qualcosa cui si accede sull’istante e di cui ci si impossessa come una notizia è una sciocchezza sesquipedale.
Dire questo non significa fare invettive bensì mettere in guardia contro le conseguenze disastrose che possono derivare dall’affidare il futuro della cultura e dell’istruzione a chi coltiva con tanta supponenza, una simile confusione mentale. Penso anche a certi dirigenti ministeriali che, abusando della loro posizione, invitano perentoriamente gli insegnanti a tenere le relazioni con i propri studenti attraverso Facebook o forniscono consigli altrettanto sconsiderati. Non ho titoli per fare analisi sociologiche e rinuncio volentieri alla categoria vaga dell’“esperto”. Ma il problema esiste, e sarebbe grave sottovalutarlo.
Veniamo ora al tema delle competenze in cui, forse, i dissensi sono riconducibili alla categoria dei malintesi o degli equivoci verbali, per cui un approccio costruttivo appare possibile.
Convengo che l’approccio delle competenze ha connotati che richiamano sia il costruttivismo che il comportamentismo. È difficile contestare che esso sia influenzato da un approccio pragmatista di matrice anglosassone, in cui vive una certa diffidenza nei confronti delle “conoscenze” e dei “concetti”, imputati di ostacolare lo sviluppo delle capacità operative.
Questa diffidenza ha radici in una visione empiristica della scienza e, più in generale, della conoscenza, ma non è qui la sede per affrontare un tema così vasto e complesso. Mi limito a dire che è sbagliato e superficiale imputare alla tradizione culturale, scientifica ed educativa “europea” una disattenzione per la funzione operativa delle teorie e delle conoscenze. Benadusi osserva che i libri di matematica sono pieni di esercizi, ma questo non significa capacità di risolvere i problemi nel senso del “problemsolving”.
Ma non è così. L’idea che l’esercizio sia solo una fase iniziale e limitata in cui si apprende a manipolare un concetto, mentre la fase importante è quella della risoluzione dei problemi, inclusa l’applicazione a questioni concrete, appartiene a una tradizione consolidata della matematica e del suo insegnamento. Affermare che la matematica va insegnata risolvendo problemi è un po’ la scoperta dell’ombrello: l’approccio contrario è cattiva didattica basata su tecnicismi ripetitivi, ma non c’è bisogno di scomodare le competenze per questo. Andrebbero piuttosto esplorate le radici di questa cattiva didattica nel contesto italiano.
Non sono propenso a demonizzare Giovanni Gentile, ma penso che se un danno ha prodotto l’approccio gentiliano nell’insegnamento delle scienze è l’aver trasferito in quest’ultimo procedure tipiche dell’apprendimento tradizionale della grammatica, con l’applicazione ripetitiva di “regole”, che si traduce nella tendenza a imporre allo studente il calcolo ripetitivo di centinaia di espressioni o di estrazioni di radici. Invece, la matematica è una sorta di “cassetta di concetti e metodi” che si arricchisce nel viavai continuo tra problemi e teoria e in cui l’addestramento procedurale ha una funzione secondaria (se pure necessaria). L’equilibrio sta nel mezzo, tra teoria e problemi, e ogni squilibrio produce effetti negativi.
Una mera pratica di “problem solving” priva di supporto teorico e che non miri ad arricchirlo – per acquisire nuovi strumenti concettuali al fine di risolvere altri e più difficili problemi! – non ha niente a che fare con la matematica e il suo apprendimento. Pertanto, se è sbagliato pensare alla matematica in termini puramente teorici o addestrativi, è non meno sbagliato confonderla con i conti della spesa o con la cosiddetta “matematica del cittadino”. Rinvio qui a un’analisi dei pessimi esiti dell’insegnamento della matematica in Finlandia (“Il Foglio”, 21 aprile 2011, o http://gisrael.blogspot.com/2011/05/il-bluffdella-matematica-finlandese.html) per dire che, se questa è l’idea della didattica per competenze, allora “vade retro”: si tratterebbe semplicemente di una drammatica regressione.
Benadusi obietta contro chi critica il concetto di competenza a causa della sua polisemia, osservando che questa può derivare dal fatto che si tratta di un’idea non ancora consolidata. Non trovo affatto criticabile il concetto di competenza per la sua polisemia. Al contrario. Sono i più competenti difensori della didattica per competenze a dire che esistono numerosissime definizioni di competenza ricordando come una quindicina di anni fa venne costituita in Svizzera una supercommissione mondiale per trovarne una definizione. Ne vennero fuori a centinaia e la conclusione fu che solo in pochissimi casi è possibile qualche forma di “misurazione”.
Spero che non venga mai messa in discussione la polisemia del concetto informale di competenza. Del resto, quante definizioni univoche possono darsi nel sistema delle conoscenze? Neppure in matematica è facile dare definizioni univoche. La definizione euclidea di “punto come ciò che non ha parti” è polisemica e si presta a commenti di centinaia di pagine. Soltanto la matematica assiomatica moderna fornisce definizioni assolutamente univoche, ma a un prezzo molto alto: svuotarle di qualsiasi significato concreto! Ovviamente, in fisica è ancor meno facile dare definizioni univoche. Tanto che Léon Walras, per difendere il tentativo di dare una definizione scientifica e matematica di utilità si appellava alla difficoltà di definire in fisica cosa sia la massa. In fisica il problema si supera introducendo definizioni operative che individuino unità di misura definite in modo oggettivo. Non sempre questo è facile: come ricordava Henri Poincaré a Walras, neppure la temperatura, prima dell’avvento della termodinamica, poteva essere considerata come una grandezza misurabile. Figuriamoci cosa accade fuori delle scienze naturali!
Qui tocchiamo il tema centrale: la giustificazione principale del concetto di competenza è legata alla speranza che – ammessa l’impossibilità di misurare le conoscenze – esso consenta una stima quantitativa degli apprendimenti indipendente da giudizi soggettivi. Ho individuato nel mio primo intervento alcune radici di questa idea derivanti dal settore militare e manageriale. Aggiungo che essa appartiene al filone dei tentativi di trasferire nelle scienze umane i metodi matematici quantitativi che hanno avuto tanto successo in fisica.
Trattasi di un filone nato in Europa, e soprattutto in Francia, in particolare nelle scuole di ingegneria ma che, paradossalmente, non ha mai dato luogo in quel contesto all’idea che la quantificazione potesse produrre regole di decisione impersonali e “oggettive”. Al contrario, nella cultura scientifica e politecnica francese prevaleva l’idea che i numeri fossero un’arma a doppio taglio perché con essi si poteva dimostrare tutto e il contrario di tutto. Come ha osservato Theodore Porter nel suo “Trust in Numbers”, «la quantificazione pratica deve essere intesa in termini di politiche culturali. I Francesi, attraverso istituzioni come l’Ecole Polytechnique mantennero una tradizione seconda a nessuno e impiegavano regolarmente il calcolo come aiuto al management. Ma l’uso sistematico degli IQ test per classificare gli studenti, gli “opinion polls” per quantificare le visioni del pubblico, per elaborare metodologie statistiche in tema di droga, in tema di costi-benefici e di analisi di rischio in tema di lavori pubblici – tutto in nome di una oggettività impersonale – sono prodotti distintivi della scienza americana e della cultura americana». Pertanto qui non si ha a che fare con risultati scientifici indiscutibili, ma con un paradigma culturale.
Benadusi teme che si possa tornare indietro rispetto alle tecniche quantitative usate nelle scienze umane aprendo la strada a regressioni scientifiche e culturali disastrose. Mi permetta di osservare – su un tema di cui mi occupo professionalmente da un trentennio – che la discussione circa l’applicabilità alle scienze umane dei metodi mutuati dalle scienze fisico-matematiche è aperta da due secoli e non si è mai chiusa. Ed è bene che sia così, perché trattasi di una discussione scientifica e metodologica cruciale e non di un conflitto tra progresso e arretratezza. È piuttosto da chiedersi – e se lo chiedono molti scienziati che non sono mistici nostalgici del Medioevo e della candela – se non occorra fare il punto sull’uso sconsiderato di modelli matematici (come le equazioni di Merton-Scholes) che hanno avuto un ruolo non secondario nella crisi finanziaria da cui non si riesce a uscire.
Penso tuttavia che qui sia presente un malinteso sul senso del termine “misurazione”. Il fatto che l’utilità sia indiscutibilmente non misurabile (come si ripete da Poincaré a von Neumann) non implica che non si possano fare speculazioni quantitative e matematiche in economia. Per misurazione invece intendiamo una valutazione oggettiva che esclude i dissensi soggettivi: dieci persone in una stanza che misurano la lunghezza di un tavolo otterranno lo stesso risultato a meno di scarti di errore, purché, beninteso, nessuno usi un metro personale… Ma se si dice – come è stato detto! – che esiste un’unità di misura delle competenze, e che questa unità di misura è il test, allora non ci siamo proprio. Non esiste alcuna possibilità di definire un test oggettivo universale buono per tutti che permetta una misurazione oggettiva delle competenze.
Il che non toglie che si possano fare trattazioni quantitative, non ignorando che sono intrise di soggettività. Come accade quando si danno i voti a uno studente, e come accade quando si stima un mare “forza 8”. Benadusi non mi farà fare la figura di chi proscrive (ridicolmente) questo genere di stime quantitative. Vogliamo chiamarle tutte “misurazioni”? Facciamolo pure. Non sono appassionato di logomachie. Purché sia chiaro che esistono misurazioni “oggettive” e altre che non lo sono. Benadusi osserva che il ricorso a prove “oggettive” quali i test può evitare inconvenienti quali «l’influenza sull’andamento di un’interrogazione di circostanze casuali, quali una lite dell’insegnante, la mattina prima di uscire di casa, con il suo coniuge». Mi pare un argomento assai debole. Viene da pensare che i preparatori di test abbiano frequentissime liti con il coniuge, a giudicare dal carattere arbitrario e talora dalla pessima qualità delle loro escogitazioni.
Non è colpa mia se si è diffusa la tendenza a parlare di misurazione oggettiva ogni volta che si “somministrano” – vogliamo una buona volta bandire questo termine ridicolo? – test. Quel che è intollerabile non è che si vogliano usare numeri e metodi statistici ma che si voglia gabellare tutto questo come una via per superare le valutazioni “soggettive”, “arbitrarie” e “personali”, con metodi “scientifici” di “oggettività” paragonabile a quelli delle scienze fisico-matematiche.
Pertanto, è possibile trovare un terreno d’intesa su questi temi, a condizione di convincere chi si riempie la bocca della parola “oggettività” e paragona i test Invalsi alla misurazione della temperatura, senza rendersi conto che il termometro “misura” un parametro quantitativo ben preciso, mentre nessuno è in grado di dire quale parametro quantitativo “misurino” i test.
Ho letto nei resoconti di un seminario promosso dalla Fondazione Nova Spes sul tema della “misura del valore aggiunto culturale” una reazione di questo tenore: «perché ostinarsi a ritenere che è impossibile misurare o quantificare ciò che è qualitativo?», lamentando trattarsi di una rigida preoccupazione “fondazionale”. Ho chiarito perché non si tratta di negare la quantificazione del qualitativo (i voti, o il mare forza 8), come stima numerica di una valutazione soggettiva. Il celebre matematico Bruno de Finetti ha lavorato tutta la vita per costruire metodi di valutazione quantitativa delle qualità, tentando di tirare dalla sua parte Henri Poincaré per cui invece l’applicazione del calcolo delle probabilità alle questioni morali era “lo scandalo della scienza”. Proprio per questo il giudizio di de Finetti è importante. Egli osservava che «non ha senso parlare della probabilità di un evento se non in relazione all’insieme di conoscenze di cui una persona dispone» e quindi «la probabilità soggettiva è un aiuto per dare un’attendibile misura di ciò che non si può misurare oggettivamente». Perciò, adottiamo pure un’accezione larga del termine “misura” purché si parta dal dato di fatto che esistono fenomeni e processi che non si possono misurare oggettivamente.
Preoccupazioni “fondazionali” eccessive e astratte? Al contrario. Nulla ha implicazioni più concrete. Ad esempio, nel resoconto di cui sopra si proponeva di introdurre la distinzione tra beni culturali (musei, archivi, biblioteche) e attività culturali, concedendo che sia difficile valutare quantitativamente le seconde, mentre sarebbero «ovvi i criteri quantitativi in grado di valutare la gestione dei primi: numero di visitatori di un museo, numero di volumi posseduti, ecc.».
Davvero? Una biblioteca dovrebbe essere valutata in base al numero di volumi, al numero di utenti e simili parametri? Su questa via vanno chiuse senza indugio tutte le biblioteche contenenti fondi antichi, magari preziosissimi ma pochissimo consultati, con pochi addetti e pochi utenti. Un discorso analogo vale per i musei. Con quei parametri tanto vale spianare con il bulldozer Ostia Antica e Villa Adriana (pochissimo frequentate rispetto al Colosseo), mandare al macero gli archivi dei monasteri e chiudere biblioteche come la Casanatense. Non si vuole negare l’uso dei numeri, bensì combattere l’uso sconsiderato e ossessivo dei numeri.
Lo storico della scienza americano Theodore Porter ricordava come la fiducia dei numeri sia una caratteristica culturale americana. Ma attenzione. Se guardiamo con occhio attento a quel che accade oltre oceano ci renderemo conto che si è aperto un aspro dibattito attorno a quello che molti considerano un eccesso disastroso di gestione di tipo manageriale. Consiglio di leggere il recente libro “The Death and Life of the Great American School System. How Testing and Choice are Undermining Education” (Basic Books, 2010) di un’autorità come Diane Ravitch.
Oggi Ravitch dice che le riforme fondate sul principio dell’“accountability”, sull’uso massiccio dei test e ispirate ai principi del “total quality management” (e che proprio lei ha promosso sotto le presidenze Bush sr e Clinton) hanno prodotto un disastro. Si dichiara convinta che «una persona bene educata ha una mente ben fornita, plasmata dalla lettura e dalla riflessione sulla storia, la scienza, la letteratura, le arti e la politica, ha appreso come spiegare le idee e come ascoltare rispettosamente quelle altrui».
Non è una buona idea imboccare la strada iniziata trent’anni fa all’estero senza far tesoro delle esperienze fatte, ignorando il dibattito che si sta svolgendo e assumendo una posizione acritica. Esaminiamo con calma e obiettività (è il caso di dirlo…) la situazione prima di fare passi avventati. Sono certo che su questa via molte contrapposizioni sterili potranno essere superate. E soprattutto non invochiamo a ogni piè sospinto – come fu fatto sciaguratamente per la riforma universitaria del 3 + 2 – lo slogan «l’Europa ce lo chiede».
Perché, oltre a quel che si è detto sulle competenze, occorre aggiungere che la versione che ne ha proposto l’euroburocrazia con la lista delle competenze fondamentali di Lisbona, è lo specchio triste di tutte le ambiguità di un processo di unificazione costruito soltanto sull’economia e non sulla cultura, o meglio assoggettando in toto la seconda alla prima. Uno specchio triste al pari della carta moneta che ci passa tra le mani, per la quale neppure si è riusciti a trovare una base minima di accordo capace di selezionare un gruppo di volti di personalità o di monumenti rappresentativi della grande cultura europea, ripiegando su forme geometriche asettiche e vuote di contenuto, proprio come le competenze fondamentali di Lisbona.