Pranzi e rinfreschi in onore del caro estinto. Fu sant’Agostino tra i primi a opporsi alla pratica dei «refrigeria», di Fabrizio Bisconti
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 2-3/11/2011 un articolo scritto da Fabrizio Bisconti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/11/2011)
I gesti, i riti, le cure nei confronti dei defunti, durante il tempo nevralgico della tarda antichità, proprio quando si innerva e si diffonde la religione cristiana, rispondono, com’è noto, a esigenze sostanzialmente uniformi, che, specie nella prima stagione, non mostrano rilevanti divergenze con la precedente o coeva civiltà pagana; anzi paiono coerentemente rispondere alle istanze urgenti di una mentalità generalizzata, secondo la quale la morte non rappresenta, di fatto, l’annullamento della persona, ma comporta la conservazione di una sensibilità fisica e spirituale, per cui il defunto continua ad avere bisogno di cure, nell’immediato e nel tempo.
Tali cure esprimono la continuità dei legami di affetto tra i defunti e i sopravvissuti e assurgono a una vera e propria manifestazione religiosa, a una forma di culto spontaneo, con un sistema di riti di grande e lunga tradizione.
Subito dopo il decesso, iniziavano le celebrazioni del funus, che comportava un susseguirsi di pratiche che accompagnavano il defunto sino alla sepoltura, ossia la preparazione e la vestizione del corpo; l’esposizione del defunto sul feretrum; il corteo che lo accompagnava - tra canti e preghiere - sino al luogo della tumulazione: la sepoltura.
Essa, per i cristiani, secondo quanto testimoniano i Padri della Chiesa, a cominciare da Minucio Felice nel suo Octavius, consisteva nell’inumazione, in quanto rito antico e più adatto per chi concepisce la resurrezione della carne. Il funus cristiano comportava anche la sinassi eucaristica, secondo quanto ricorda Agostino, quando descrive, sino al dettaglio, il funerale della madre Monica (Confessioni, IX, 12). Un banchetto, consumato dai convenuti presso la tomba, concludeva il funerale.
Alla sepoltura seguiva un periodo di lutto, con commemorazione del defunto nel terzo, settimo o nono, trentesimo o quarantesimo giorno. Se i pagani celebravano la ricorrenza della nascita del defunto con il natalicium, i cristiani rievocavano il dies natalis, corrispondente con l’anniversario della morte che, per paradosso, rappresentava la nascita alla vera vita.
Nella interazione tra riti pagani e riti cristiani risulta, inoltre, significativa la trasformazione dei pagani parentalia, un rito che comportava dieci giorni di lutto, che si concludeva il 22 febbraio con i caristia, i quali rappresentavano una festa di riconciliazione familiare, da consumarsi presso la tomba dei defunti nella festa Natale Petri de cathedra, come ricorda, la Depositio martyrum, il più antico calendario della Chiesa romana, riferibile al 336.
È interessante rilevare come la festa pagana e quella cristiana comportino l’allestimento simbolico del banchetto funebre, che rappresenta un poco il leit motiv di tutta la ritualità del mondo antico. Il pasto funebre, d’altra parte, era celebrato da parenti e amici presso la tomba del defunto, che diveniva, così, un convitato invisibile, che fungeva da elemento aggregante per rinsaldare i vincoli della solidarietà e della concordia familiare, affidando al rito valenza sociale, con implicazioni di carattere economico, se, nell’occasione, si consumavano i pasti evergetici, di cui fa menzione Paolino di Nola, che rievoca il solenne convito organizzato nel 397 dal nobile Pammachio per i poveri della città, addirittura nella basilica di San Pietro in Vaticano, in memoria della moglie (Epistula, XIII, 11).
Questi pasti funebri erano sintomaticamente definiti refrigeria, intendendo, con questo, un rinfresco fisico che vuole, però, alludere alla felicità e alla condizione celeste, come esprime efficacemente la lastra sepolcrale, conservata nelle catacombe di Domitilla e dedicata alla piccola Criste, rappresentata, attraverso un’incisione, in atteggiamento di orante e, dunque, già assunta in un ameno aldilà; mentre il padre Crestor è colto nel gesto del refrigerio al cospetto del cagnolino tanto amato dalla defunta.
Parallelamente al rito del refrigerium, prosegue, come retaggio delle consuetudini pagane, il gesto, superstizioso delle libagioni, che comportano l’alimentazione dei defunti attraverso fori e condotti fittili, praticati in corrispondenza della salma, come ricorda, ancora Agostino, rievocando un episodio accaduto alla madre Monica nel loro soggiorno milanese.
Ebbene, la donna, mentre si accingeva a visitare il cimitero della chiesa milanese per inserire nelle tombe farinata e vino annacquato, fu redarguita dal custode, ligio al divieto di celebrare il rito della libagione imposto da Ambrogio alla comunità (Confessioni, VI, 2).
Rispetto alla ritualità funeraria, che rasentava, la superstizione, la Chiesa ufficiale assunse, talora, provvedimenti decisi, come testimonia Tertulliano, agli esordi del III secolo, quando la partecipazione ai banchetti, almeno in Africa, è vietata ai cristiani, per il carattere idolatrico che essa comporta e che viene considerata immorale, di lì a qualche decennio, anche da Cipriano (Epistula, LXVIII, 6).
Eppure, una certa tolleranza nei confronti dei banchetti funebri permise ai nuovi convertiti di non allontanarsi dalla comunità, per tornare alle pratiche della tradizione, anche se Agostino, tratteggiando l’ambiente africano del maturo IV secolo stigmatizza ebrietates et luxuriosa convivia (Epistulae, XX, 6), tanto che nel 397 un concilio di Cartagine ne vietò la pratica ai vescovi, sconsigliandola anche ai laici; mentre qualche anno dopo, agli inizi del V secolo, se ne auspicava la soppressione ovunque.
Molte necropoli dell’area mediterranea hanno mantenuto strutture relative alla celebrazione di questi particolari riti funerari, come hanno dimostrato vecchie e nuove indagini archeologiche, che hanno restituito mense, stoviglie e resti di pasti, mentre centinaia di iscrizioni graffite nella cosiddetta triclia di San Sebastiano in Roma, ricordano i refrigeria celebrati in onore dei principi degli apostoli, tra la metà del III secolo e gli inizi del IV.
Anche nelle catacombe romane, come nelle necropoli sub divo, sono evidenti bancali, pozzi, mense e cattedre scavate nel tufo, dove si riteneva sedesse idealmente il defunto, nel momento del refrigerium.
Alcune pitture catacombali rappresentano fedelmente la dinamica di quest’ultimo rito, offrendoci uno spaccato saliente del vissuto quotidiano dei primi cristiani «fotografati » nel rito intimo del pasto funebre, così carico di significati e così rappresentativo del sentimento della convivialità, della solidarietà, della familiarità, della concordia, ma anche dell’aspirazione verso una vita ultraterrena.
Quest’ultima proiezione paradisiaca, d’altra parte, traspare anche da altre decorazioni catacombali, che tradiscono la pratica funeraria costituita da altri riti e consuetudini, pure provenienti dalla civiltà pagana. Un tema eloquente, in questo senso, è rappresentato dalle decorazioni che riproducono orti e giardini e che restituiscono, da un lato, le caratteristiche delle sistemazioni dei recinti funerari pagani e, dall’altro, l’uso pagano e cristiano di decorare le tombe con fiori recisi e ghirlande.
Specialmente nelle regioni catacombali si innesca, poi, il problema dell’oscurità, che i cristiani cercano di combattere con mille espedienti: dalla sistemazioni di lucerne nella chiusura dei loculi, all’applicazione di elementi di materiale riflettente, come conchiglie, monete, tessere di mosaico, paste vitree, bracciali e altri monili in metallo, in osso e in avorio.
La ricerca affannosa della luce tradisce una tensione verso quel paradiso luminoso, che rappresentava per i primi cristiani la meta ambita e ultima di un popolo assopito in attesa della resurrezione.