Vienna 1683, ultima «guerra santa», di Franco Cardini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /11 /2011 - 01:03 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 17/11/2011 un articolo scritto da Franco Cardini con l’introduzione redazionale che lo accompagnava. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Vedi anche su questo stesso sito la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2011)

È un ciclopico affresco quello che lo storico Franco Cardini compie nella sua ultima fatica, «Il Turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683» in uscita per Laterza (pp. 778, di cui oltre 250 di note e apparati; euro 28) e del quale anticipiamo in questa pagina l’epilogo. Frate Marco d’Aviano, Jan Sobieski alias Giovanni III re di Polonia, il gran visir Kara Mustafa capo dell’esercito ottomano sono alcuni dei protagonisti della giornata campale del 12 settembre 1683, che si concluse con la liberazione della capitale absurgica nonché prima città del Sacro Romano Impero, cinta d’assedio per due lunghi mesi. Terminava così anche l’ultima «Grande Paura» per la cristianità occidentale, ancora lacerata da molte divisioni politiche e dottrinali però non più minacciata dall’espansione islamica. Almeno fino all’attuale – vero o presunto – «scontro di civiltà»...

Le date «da cui comincia la nuova storia» hanno com’è noto un semplice valore convenzionale. Che deve essere di continuo rimesso in discussione, pena il radicarsi di pigri e pericolosi luoghi comuni. Ma hanno anche un valore simbolico. Che, proprio in quanto tale, non deve essere sottovalutato. Il 12 settembre del 1683 è senza dubbio una di tali date. Sia perché come tale è stata concepita e continua ad esserlo da una ininterrotta tradizione storiografica, sia perché in effetti quel giorno – con la splendida vittoria delle armate austro-germano­polacche cui erano aggregati volontari provenienti praticamente da tutta l’Europa cristiana, la fuga disordinata del temibile e sterminato esercito ottomano e il sostanziale disimpegno dei suoi più o meno coatti e infidi alleati – segnò un ribaltamento nei rapporti di forza nell’intero quadrante sud­orientale d’Europa e al tempo stesso (nonché soprattutto) l’irreversibile fine del mito dell’invincibilità ottomana in terraferma: e in modo molto più deciso e radicale di quanto la giornata di Lepanto, per i turchi una battaglia perduta all’interno di una guerra vinta, non avesse segnato la fine di quello della loro invincibilità sul mare. Non è certo il caso di spingersi con ciò fino ai limiti ucronici – molto cari peraltro agli «storici della domenica» prediletti dai media – di chi disegna scenari terribili d’un islam dilagante su tutta l’Europa, se gli ottomani non fossero stati fermati sotto le mura della capitale austriaca.

Quel che è stato detto per i «miti» di Poitiers nel 732 e di Lepanto nel 1571 è tanto più vero per Vienna nel 1683. Certo però quell’episodio segnò una definitiva e per alcuni versi irreversibile battuta d’arresto dell’espansione ottomana.

Non che, dopo allora, non si registrassero altri successi vuoi terrestri vuoi navali delle armi ottomane; ma senza dubbio da allora, e dalla ventennale guerra che ne seguì, si avviarono tanto una sostanzialmente progressiva e irreversibile ritirata della potenza ottomana dal territorio europeo, quanto una nuova e coerente politica danubiana degli Asburgo d’Austria, una Südostpolitik che avrebbe condotto a un assetto dell’area balcano-danubiana destinato a venir posto in discussione solo nell’ultima fase del processo di liquidazione dell’impero sultaniale, quella caratterizzata dalla dinamica imposta dai nuovi obiettivi imperialistici della potenza czarista e dal suo cinico uso degli strumenti ideologici del panslavismo e dell’insorgenza dei vari nazionalismi balcanici.

Nella pratica, la fase storica aperta dal 12 settembre 1683 si concluse soltanto nel 1914 con l’inizio del suicidio dell’Europa che avrebbe avuto, come suo primo catastrofico evento di rilievo, la scomparsa dei tre imperi sovranazionali che per oltre due secoli avevano garantito all’ampia area compresa tra Adriatico, Dnestr e Bosforo pace ed equilibrio: una pace e un equilibrio duraturi, per quanto occasionalmente attraversati da crisi, e che da allora ai giorni nostri non sono stati più ritrovati, com’è provato anche da recenti vicende.

D’altronde, solo a posteriori e con una buona dose di volontà schematizzatrice e periodizzatrice si potrebbe sostenere che i trattati di Passarowitz (che nel 1718 conclusero il conflitto scoppiato tra l’Impero Ottomano e la Repubblica di Venezia, al cui fianco era intervenuta anche l’Austria, ndr) segnino di per sé l’inizio della sia pur lenta, ma irreversibile, eclisse della potenza ottomana.

Le armate sultaniali restavano temibili: e avrebbero riportato altre vittorie. La stessa ormai acquisita «superiorità dell’Occidente» in termini tecnologici e militari, che nella nostra prospettiva appare evidente, era un fatto ben lungi dall’essere universalmente accettato. Il Turco si era alquanto rapidamente impadronito della tecnologia militare per quel che concerneva artiglieria, fortificazioni e navigazione; anche se ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che esso si familiarizzasse sul serio con le questioni riguardanti equipaggiamento, logistica, tattica, cartografia, finanziamento delle forze armate.

Quel che nell’impero sultaniale riguardava la Porta e gli organi di governo, in Europa concerneva invece l’intera società civile. In realtà, la rivoluzione militare moderna è stata un aspetto delle trasformazioni sociali, civili, culturali ed etiche dell’intera modernità occidentale: ed è questo che i sultani e i loro governi, i quali ancora per molto tempo continuarono a pensare che il segreto della potenza cristiana stesse nella pura e semplice tecnologia, non riuscivano a comprendere.

Per lunghi decenni essi continuarono a reclutare e a retribuire ingegneri ed esperti occidentali: quel che non capivano è che in quei «barbari occidentali», dei quali ammiravano le realizzazioni tecnologiche ma disprezzavano la cultura, l’eccellenza tecnologica era invece frutto proprio di una profonda rivoluzione culturale avviata già almeno dal XII-XIII secolo e maturata fra XV e XVI. Durante quella profonda rivoluzione culturale, scandita in lunghe fasi e attraversata anche da profonde rotture e da significative svolte, la respublica christianorum aveva ceduto progressivamente il passo all’Europa ancora cristiana, sì, ma ormai segnata da uno scisma che avrebbe finito col dividerla anche in senso latitudinario e con l’entrare in un complesso gioco di ridefinizioni istituzionali ed etnogeografiche; mentre la contesa tra le potenze del continente si dislocava sugli oceani, si apriva la corsa al possesso del pianeta, si inauguravano «economia­mondo» e «scambio asimmetrico», nasceva il lungo processo di globalizzazione e, insieme con esso, di secolarizzazione.

Di tale processo Paul Hazard, scrivendo e studiando in un altro intenso momento di crisi della coscienza europea, gli anni Trenta del secolo scorso, testimoniò la dinamica relativa appunto ai medesimi anni dell’«estate indiana della crociata»: che di tale crisi è una componente non secondaria. Mentre la potenza ottomana veniva arrestata e costretta a retrocedere nei Balcani e sul Mediterraneo, negli stessi anni nei quali tramontava il Sole di Versailles, si concludeva l’ultima «guerra santa» e l’Europa cristiana cedeva definitivamente il passo all’Occidente, che altro non è se non la Modernità. La fine delle imprese crociate costituisce – al di là dei suoi nominalistici, malintesi e pretestuosi revivals – una parte essenziale della Entzauberung, del weberiano «disincanto del mondo».