Giuliano Ferrara sull'enciclica Spe salvi e le polemiche sulla modernità (dalla rassegna stampa)
Mettiamo a disposizione sul nostro sito l'articolo scritto da Giuliano Ferrara per Il Foglio del 5/12/2007. Al di là della sua forma polemica con la quale replica ad altri polemisti, ciò che preme sottolineare è la domanda sulla speranza che richiede di non essere elusa.
Ehi, laiconi, provate a rispondere al Papa
di Giuliano Ferrara
Sull’amore tutti se la intendono, sulla speranza è più dura. La lettera enciclica sulla speranza cristiana ha avuto l’effetto di una bomba intelligente e edificante. Ha centrato l’obiettivo, colpendo l’impalcatura autoreferenziale del razionalismo soggettivista incurante della urgenza di verità e di fede (troppo umana) coltivata dagli uomini, ma con autorevole dolcezza, senza fare vittime. L’impressione è che partendo di lì, da una discussione adulta e non scontata, non inquinata dal correttismo e cioè dai luoghi comuni sul dialogo, e invece incline a una discussione effettiva, tra moderni secolaristi e moderni cristiani si possa ricostruire qualcosa di sensato.
L’enciclica sull’amore poteva essere assimilata dai secolaristi moderni senza troppi drammi e danni, e letta in modo automanipolatorio, perché il radicamento dell’amore nel problema della verità non è autoevidente, anzi. Spesso l’amore, non l’agape cristiana, non l’eros cristiano, ma la cura degli altri e di se stessi come umanitarismo, si confonde con sentimentalismo e bontà delle intenzioni, con il nutrimento del desiderio e l’affermazione di un mondo di diritti che si autogiustificano nel diritto al benessere. Ma con la speranza non si scherza.
Come notava Péguy (il Foglio, venerdì 30 novembre), è una virtù bambina che trascina tutte le altre in una spirale teologale che è anche il culmine assoluto della filosofia, della vera filosofia viandante con tanto di bastone, e in un certo senso della vera religione, della vera fede, della nostra identità culturale radicale in quanto credenti o non credenti che appartengono al cristianesimo o ne dispongono come di un tesoro nascosto.
Ai primi vespri del tempo di Avvento, Benedetto XVI, citando il nullismo dell’ideologia pagana contemporanea, ha detto, presentando l’anno liturgico e l’enciclica: “Tutto perde di ‘spessore’. E’ come se venisse a mancare la dimensione della profondità ed ogni cosa si appiattisse, privata del suo rilievo simbolico, della sua ‘sporgenza’ rispetto alla mera materialità”. A questa critica schiettamente filosofica, in cui la parola “sporgenza” spiega tutto quel che c’è da spiegare in termini di ragione e dall’interno della storia, Benedetto aggiunge quel che è suo, e che è cardinale nella funzione apostolica e nella libera fede della chiesa, cioè Dio: “L’uomo è l’unica creatura libera di dire di sì o di no all’eternità, cioè a Dio. L’essere umano può spegnere in se stesso la speranza eliminando Dio dalla propria vita”.
Programma troppo ambizioso e destinato al fallimento nella libertà, aggiunge il Papa, perché “all’umanità che non ha più tempo per Lui, Dio offre altro tempo”, il tempo liturgico dell’Avvento, e continua a rivelarsi” (attenzione! ndr) e a farlo “mediante la Parola e i Sacramenti”, “mediante la Chiesa” che “vuole parlare all’umanità e salvare gli uomini di oggi”, attraverso “questa luce che promana dal futuro di Dio” e che “si è già manifestata nella pienezza dei tempi” con l’avvenimento del Cristo morto e risorto. Coloro che si sentono investiti da queste parole, da questa Parola, come da una minacciosa tempesta di vento in mare aperto, non hanno da preoccuparsi né da intristirsi, devono semplicemente rispettare le premesse laiche e secolariste della loro fede nell’immanenza, nell’autonomia dell’uomo e della storia, e domandarsi che cosa Benedetto abbia voluto dire, che cosa significhino per loro le sue parole su questa sostanza delle cose che si sperano e su questa prova di quelle che non si vedono che è la fede cristiana; domandarsi che cosa ha detto il Papa e quanto possa essere significativo, non che cosa avrebbero voluto sentirsi dire nella forma rassicurante di un compromesso o dialogo all’insegna dello scambio tra una modernità furbamente accolta e un’intemporalità, un’inattualità, un’eternità che giudica rinunciando a se stessa (è questa la pretesa che avanza con garbo Orlando Franceschelli, che conosco come storico
intelligente e militante del darwinismo e pubblicista laico sufficientemente attrezzato, anche più di Scalfari, per leggere una lettera enciclica di argomento teologico, il Riformista martedì 4 dicembre).
Se l’ufficio della chiesa, sempre avida di riforme e aggiornamenti, è pur sempre “evangelizzare la storia dall’interno”, senza appartenerle interamente, e non piuttosto farsi convertire per inerzia dalle religioni immanentiste, ciò che mi sembra non solo vero da duemila anni compresi gli anni del Concilio Vaticano II, ma anche ragionevole e utile al mondo, compreso il mondo moderno e in specie esso, allora nasce o rinasce la responsabilità dello spirito secolare: pensare, pensare se stesso, i propri approdi, le proprie certezze e incertezze, la propria idea di speranza, anzi la propria fede-speranza come sostanza, substantia, radicamento in ciò che si è più che opinione su ciò che si è.
In molti si domandano molte cose, e dialogano. Il pensiero cristiano, che da sempre è coscienza razionale del mondo e coscienza credente nel sopramondo incarnato, nel “plusvalore” del cielo (come scrive Benedetto), nell’àncora lanciata in tempesta verso il trono di Dio, nella stretta di mano del Padre e nella sua fedeltà, si permette il lusso di offrire risposte. Criticarlo e respingerlo è possibile, ovviamente, ma non più, nel tempo che viviamo, in nome dell’affettazione del dubbio, ponendo mere questioni di metodo. Il libro di Sofri, che sto leggendo, gira intorno al problema della risposta, intanto su chi è il mio prossimo, poi si vede, e gira con efficacia e costrutto senza naturalmente
trovarla. D’Alema, parlando con gli studenti, fa il suo giretto. E Bertinotti il suo
aggraziato passo di danza, presentando un libro su Giovanni Paolo II.
Abbiamo passato l’estate a chiedere appunti per il dopo, e cioè: che cosa sperate?
Torniamo a farlo. Io speriamo che me la cavo è una risposta tenera, terrestre e non necessariamente pedestre, ma palesemente insufficiente. La storia e lo spirito assoluto del reale razionale hanno smesso di parlarci, con il Novecento e oltre. Questo mutismo dei tempi la chiesa lo registra e contrattacca. Un argomento, per cortesia, che parli di una qualche sostanza inattaccabile dalla fede e sia prova di cose che si vedono. Provate a vedere se vi riesca. Grazie.
Ehi, laiconi, provate a rispondere al Papa
di Giuliano Ferrara
Sull’amore tutti se la intendono, sulla speranza è più dura. La lettera enciclica sulla speranza cristiana ha avuto l’effetto di una bomba intelligente e edificante. Ha centrato l’obiettivo, colpendo l’impalcatura autoreferenziale del razionalismo soggettivista incurante della urgenza di verità e di fede (troppo umana) coltivata dagli uomini, ma con autorevole dolcezza, senza fare vittime. L’impressione è che partendo di lì, da una discussione adulta e non scontata, non inquinata dal correttismo e cioè dai luoghi comuni sul dialogo, e invece incline a una discussione effettiva, tra moderni secolaristi e moderni cristiani si possa ricostruire qualcosa di sensato.
L’enciclica sull’amore poteva essere assimilata dai secolaristi moderni senza troppi drammi e danni, e letta in modo automanipolatorio, perché il radicamento dell’amore nel problema della verità non è autoevidente, anzi. Spesso l’amore, non l’agape cristiana, non l’eros cristiano, ma la cura degli altri e di se stessi come umanitarismo, si confonde con sentimentalismo e bontà delle intenzioni, con il nutrimento del desiderio e l’affermazione di un mondo di diritti che si autogiustificano nel diritto al benessere. Ma con la speranza non si scherza.
Come notava Péguy (il Foglio, venerdì 30 novembre), è una virtù bambina che trascina tutte le altre in una spirale teologale che è anche il culmine assoluto della filosofia, della vera filosofia viandante con tanto di bastone, e in un certo senso della vera religione, della vera fede, della nostra identità culturale radicale in quanto credenti o non credenti che appartengono al cristianesimo o ne dispongono come di un tesoro nascosto.
Ai primi vespri del tempo di Avvento, Benedetto XVI, citando il nullismo dell’ideologia pagana contemporanea, ha detto, presentando l’anno liturgico e l’enciclica: “Tutto perde di ‘spessore’. E’ come se venisse a mancare la dimensione della profondità ed ogni cosa si appiattisse, privata del suo rilievo simbolico, della sua ‘sporgenza’ rispetto alla mera materialità”. A questa critica schiettamente filosofica, in cui la parola “sporgenza” spiega tutto quel che c’è da spiegare in termini di ragione e dall’interno della storia, Benedetto aggiunge quel che è suo, e che è cardinale nella funzione apostolica e nella libera fede della chiesa, cioè Dio: “L’uomo è l’unica creatura libera di dire di sì o di no all’eternità, cioè a Dio. L’essere umano può spegnere in se stesso la speranza eliminando Dio dalla propria vita”.
Programma troppo ambizioso e destinato al fallimento nella libertà, aggiunge il Papa, perché “all’umanità che non ha più tempo per Lui, Dio offre altro tempo”, il tempo liturgico dell’Avvento, e continua a rivelarsi” (attenzione! ndr) e a farlo “mediante la Parola e i Sacramenti”, “mediante la Chiesa” che “vuole parlare all’umanità e salvare gli uomini di oggi”, attraverso “questa luce che promana dal futuro di Dio” e che “si è già manifestata nella pienezza dei tempi” con l’avvenimento del Cristo morto e risorto. Coloro che si sentono investiti da queste parole, da questa Parola, come da una minacciosa tempesta di vento in mare aperto, non hanno da preoccuparsi né da intristirsi, devono semplicemente rispettare le premesse laiche e secolariste della loro fede nell’immanenza, nell’autonomia dell’uomo e della storia, e domandarsi che cosa Benedetto abbia voluto dire, che cosa significhino per loro le sue parole su questa sostanza delle cose che si sperano e su questa prova di quelle che non si vedono che è la fede cristiana; domandarsi che cosa ha detto il Papa e quanto possa essere significativo, non che cosa avrebbero voluto sentirsi dire nella forma rassicurante di un compromesso o dialogo all’insegna dello scambio tra una modernità furbamente accolta e un’intemporalità, un’inattualità, un’eternità che giudica rinunciando a se stessa (è questa la pretesa che avanza con garbo Orlando Franceschelli, che conosco come storico
intelligente e militante del darwinismo e pubblicista laico sufficientemente attrezzato, anche più di Scalfari, per leggere una lettera enciclica di argomento teologico, il Riformista martedì 4 dicembre).
Se l’ufficio della chiesa, sempre avida di riforme e aggiornamenti, è pur sempre “evangelizzare la storia dall’interno”, senza appartenerle interamente, e non piuttosto farsi convertire per inerzia dalle religioni immanentiste, ciò che mi sembra non solo vero da duemila anni compresi gli anni del Concilio Vaticano II, ma anche ragionevole e utile al mondo, compreso il mondo moderno e in specie esso, allora nasce o rinasce la responsabilità dello spirito secolare: pensare, pensare se stesso, i propri approdi, le proprie certezze e incertezze, la propria idea di speranza, anzi la propria fede-speranza come sostanza, substantia, radicamento in ciò che si è più che opinione su ciò che si è.
In molti si domandano molte cose, e dialogano. Il pensiero cristiano, che da sempre è coscienza razionale del mondo e coscienza credente nel sopramondo incarnato, nel “plusvalore” del cielo (come scrive Benedetto), nell’àncora lanciata in tempesta verso il trono di Dio, nella stretta di mano del Padre e nella sua fedeltà, si permette il lusso di offrire risposte. Criticarlo e respingerlo è possibile, ovviamente, ma non più, nel tempo che viviamo, in nome dell’affettazione del dubbio, ponendo mere questioni di metodo. Il libro di Sofri, che sto leggendo, gira intorno al problema della risposta, intanto su chi è il mio prossimo, poi si vede, e gira con efficacia e costrutto senza naturalmente
trovarla. D’Alema, parlando con gli studenti, fa il suo giretto. E Bertinotti il suo
aggraziato passo di danza, presentando un libro su Giovanni Paolo II.
Abbiamo passato l’estate a chiedere appunti per il dopo, e cioè: che cosa sperate?
Torniamo a farlo. Io speriamo che me la cavo è una risposta tenera, terrestre e non necessariamente pedestre, ma palesemente insufficiente. La storia e lo spirito assoluto del reale razionale hanno smesso di parlarci, con il Novecento e oltre. Questo mutismo dei tempi la chiesa lo registra e contrattacca. Un argomento, per cortesia, che parli di una qualche sostanza inattaccabile dalla fede e sia prova di cose che si vedono. Provate a vedere se vi riesca. Grazie.