Dialogo. Le condizioni di Roma, di Kurt Koch
Riprendiamo da Avvenire del 13/11/2011 un testo di Kurt Koch con lì’introduzione redazionale che lo accompagnava. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sull'ecumenismo, vedi su questo stesso sito la sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (13/11/2011)
Il cardinale svizzero Kurt Koch è il presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Il suo intervento «La dimensione apostolica della Chiesa nel dialogo ecumenico», di cui in queste pagine pubblichiamo uno stralcio, è uscito sull’ultimo numero della rivista internazionale «Communio» dedicato a «La Chiesa apostolica» e con articoli di Giorgio Fedalto («L’apostolicità della Chiesa di Aquileia nel secolo IV»), Roch Kereszty, Luigi Mezzadri («I cristiani nascosti in Giappone»), Hermann Pottmeyer («Il magistero al servizio dell’apostolicità»), Patrizio Rota Scalabrini, Maria Antonietta Crippa, Giuseppe Reguzzoni («La religione civile tra nazionalismi e globalismo»), Pasquale Giustiniani.
Il canone della Sacra Scrittura, la regola della fede, la forma fondamentale del rito eucaristico e la successione apostolica nel ministero episcopale sono i quattro elementi basilari della Chiesa primitiva, inseparabili gli uni dagli altri se si vuole trovare un solido consenso ecumenico sulla questione della successione apostolica.
Se infatti non si tiene conto di questo contesto ecclesiologico generale, la questione della successione apostolica diverrebbe a sua volta unilaterale e apparirebbe come qualcosa di meramente formale. Bisogna invece interrogarsi sull’esatto rapporto che sussiste tra la Parola di Dio, la regola della fede, la celebrazione liturgica e i testimoni che la comunità di fede della Chiesa ha incaricato del ministero.
Procedendo in questa direzione papa Benedetto XVI, nell’incontro ecumenico con i rappresentanti delle altre Chiese cristiane avvenuto nel corso del suo viaggio apostolico a Colonia nel settembre 2005, ha sottolineato che il problema ecclesiologico da risolvere in ambito ecumenico è quello della «modalità della presenza della Parola nel mondo», e più precisamente dell’«intreccio di Parola, testimone e regola di fede», ricordando poi che la questione specificamente ministeriologica va al contempo considerata questione della Parola di Dio, della sua sovranità e della sua umiltà, «in quanto il Signore affida la sua Parola ai testimoni e ne concede l’interpretazione, che però deve commisurarsi sempre alla regula fidei e alla serietà della Parola».
Solo su questo ulteriore sfondo si può prendere in considerazione la questione della successione apostolica in senso stretto, che ha avuto un ruolo determinante anche al Concilio Vaticano II, come è già il titolo del terzo capitolo del decreto sull’ecumenismo a segnalare: «Chiese e comunità ecclesiali separate dalla Sede Apostolica romana».
Dopo aver rilevato, nel primo capitolo, che «tra gli elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti» – come la Sacra Scrittura, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità «e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili» – «possono trovarsi» anche «fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica», e che lo Spirito Santo «non ricusa di servirsi» delle Chiese e comunità separate da essa come di «strumenti di salvezza», ci si chiede, coerentemente, se anche tali Chiese e comunità debbano essere o meno definite «Chiese».
Per quanto riguarda le Chiese orientali non ci furono difficoltà di sorta, essendo dati, in queste Chiese, il ministero episcopale in successione apostolica e tutti i sacramenti validi, di modo che esse dispongono degli elementi ecclesiali essenziali che le costituiscono come Chiese singole, benché in assenza del rapporto che le lega al rappresentante del ministero petrino in quanto fondamento gerarchico dell’unità di ogni Chiesa singola.
Per quanto concerne invece le comunità occidentali sorte dalla Riforma protestante, il problema è se si possa far uso del concetto di Chiesa in senso teologico anche là dove il ministero episcopale non è dato, o comunque non lo è in modo certo, in successione apostolica, e dove solo una parte dei sacramenti viene riconosciuta.
Come spiega Johannes Feiner nel suo commento al decreto sull’ecumenismo, su questo piano le opinioni dei Padri conciliari erano molto distanti. Mentre gli uni desideravano che anche le comunità non cattoliche d’Occidente andassero definite «Chiese», per quanto in senso analogico, gli altri obiettavano che una comunità ecclesiale in cui non sia presente il ministero episcopale in successione apostolica non possa essere definita «Chiesa», o possa avvalersi di tale definizione solo in comunione imperfetta con la Chiesa cattolica.
Di fronte a questo grave dissenso, il cardinal Franz König di Vienna propose, durante il dibattito conciliare, che si possa e si debba definire queste comunità come communitates ecclesiales, riconoscendo da un lato che hanno un carattere ecclesiale e che adempiono tra i loro fedeli la missione della Chiesa, e rimarcando dall’altro lato che tali comunità ecclesiali, in ottica cattolica, per essere pienamente considerate Chiese sono prive di elementi costitutivi.
Per il decreto sull’ecumenismo, le deficienze principali delle comunità ecclesiali sorte dalla Riforma protestante sono la «mancanza del sacramento dell’ordine» e di conseguenza l’abbandono della «genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico».
Il ministero episcopale in successione apostolica e la validità dell’eucarestia, quindi, sono per il Concilio Vaticano II i criteri determinanti per poter applicare la definizione di «Chiesa» alle comunità separate dalla Chiesa cattolica.
È un dato su cui, nell’anno giubilare 2000, è tornata la Congregazione per la Dottrina della Fede con la dichiarazione Dominus Iesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa. Essa riconosce alle Chiese orientali lo status di «vere Chiese particolari», mentre ritiene che le comunità ecclesiali «che non hanno conservato l’episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico» non siano «Chiese in senso proprio», per quanto coloro che sono stati battezzati in queste comunità, a causa del battesimo, siano «in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa».
Se si osserva questa dichiarazione alla luce delle discussioni avvenute al Concilio Vaticano II, non si potrà che convenire con quanto afferma il teologo sistematico evangelico di Magonza Notger Slenczka, secondo cui la Dominus Iesus si richiama sostanzialmente solo «alle disposizioni in materia e al programma ecumenico del Vaticano II», secondo il quale l’eucarestia e la successione apostolica sono «i criteri dell’essere Chiesa».
Poiché ne va della sua stessa credibilità, dalla Chiesa cattolica, convinta per fede che la successione apostolica nel ministero episcopale e il mistero eucaristico appartengano alla natura della Chiesa di Gesù Cristo, non ci si potrà aspettare che riconosca alle comunità ecclesiali per le quali queste due realtà non appartengono – perlomeno non nello stesso senso – all’essenza della Chiesa lo status di Chiese, appunto, nello stesso senso.
Ma la conseguenza è che il problema, a maggior ragione, è come trovare un consenso ecumenico sulla successione apostolica. Finché resterà valida l’osservazione del Concilio Vaticano II secondo cui nelle comunità ecclesiali sorte con la Riforma protestante vi è una deficienza nel mistero eucaristico dovuta alla «mancanza del sacramento dell’ordine», non sarà possibile conseguire un consenso ecumenico sulla successione apostolica. Non esiste infatti una via praticabile per sanare le deficienze comparse nel XVI secolo; a meno che non si riconduca il distacco della Riforma dalla tradizionale regola dell’ordinazione episcopale a uno stato di necessità divenuto ineluttabile nella situazione dell’epoca, riconoscendo la prassi ordinazionale sviluppatasi con la Riforma con l’estensione anche all’ordinazione delle idee medioevali relative al battesimo e alla confessione celebrati in condizioni di emergenza, e parlando dunque di «ordinazioni compiute in stato di necessità».
Con la soluzione qui prospettata, tuttavia, la questione è in primo luogo se le comunità protestanti siano disposte ad accettare l’ambizione cattolica di ridare rilievo e valore ecclesiale all’ordinazione, senza escluderne la forma concreta, vale a dire l’antichissimo e venerando gesto dell’imposizione delle mani da parte di un vescovo in quanto segno visibile ed efficace dell’integrazione nella tradizione di tutta la Chiesa, ponendo ad esempio fine alla prassi, spesso impiegata, di sostituire l’ordinazione con il semplice mandato di celebrare la cena o addirittura di far impartire l’ordinazione a non ordinati.
Molto più serio è se il fatto di valutare la situazione dell’epoca della Riforma come ordinamento provvisorio dettato dalla necessità significhi davvero riconoscere le reali circostanze storiche, o se invece a quei tempi a essere messa in dubbio non fosse stata soltanto la successione apostolica in quanto problema singolo e particolare, bensì tutta la visione sacramentale della Chiesa; d’accordo con Walter Kasper dobbiamo quindi affermare che «la frattura avvenne in primo luogo non perché si interruppe la catena delle successioni, ma perché sopravvenne nella Chiesa, nei suoi rapporti con l’evangelo, una nuova concezione della salvezza in Gesù Cristo».
La conseguenza è però che un’intesa ecumenica sulla successione apostolica può avere esito positivo solamente nel quadro di un dibattito ecumenico di fondo sulla natura della Chiesa. Coloro che hanno progredito maggiormente nella direzione sopra segnalata per dare soluzione al problema sono senz’altro alcuni rappresentanti del movimento della Chiesa Alta, avviato in alcuni settori del protestantesimo già nell’Ottocento, dove alcuni ministri evangelici si sono fatti imporre le mani da vescovi in contatto attivo con la Chiesa cattolica, in modo da poter rivendicare formalmente una legittima successione apostolica. Dietro decisioni come questa ci sono certamente la sensazione di inadeguatezza che può caratterizzare le comunità ecclesiali prive di un legame diretto con la Chiesa primitiva e la volontà di dover dare una rappresentanza anche visibile all’appartenenza alla Chiesa di ogni tempo.
Ma poiché sono prive di conseguenze ecclesiali, queste consacrazioni corrono il serio rischio di mettere a loro volta in isolamento la successione apostolica, misconoscendo così, anziché rivitalizzare, l’essenza propria dell’imposizione episcopale delle mani. Di fronte a una tale evoluzione, il cardinal Joseph Ratzinger sostiene a ragione che un’imposizione episcopale delle mani che non sia anche un inserirsi nel contesto della tradizione e della vita della Chiesa non può essere un’imposizione delle mani di carattere ecclesiale, ma va piuttosto considerata una «successione apostolica apocrifa»:
«In realtà, l’imposizione delle mani con la preghiera di invocazione allo Spirito Santo non è un rito che possa essere isolato dalla Chiesa, grazie al quale, per così dire, ci si possa scavare un canale privato di accesso agli Apostoli aggirando la Chiesa universale; essa è invece espressione della continuità della Chiesa, che nella comunità dei vescovi è lo spazio della trasmissione, dell’unico evangelo di Gesù Cristo».
Non si può che concludere, ancora una volta, che il vero dissenso tra la Chiesa cattolica e le comunità protestanti si trova solo in apparenza in una diversa concezione dell’ordinazione sacramentale; molto più significativa è la diversa concezione di Chiesa. La questione della successione apostolica, dunque, può trovare una soluzione ecumenica soltanto in questo quadro ecclesiologico generale.