Siamo di nuovo capaci di rimettere in moto la storia della ricerca di Dio?, di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire del 6/11/2011 un articolo scritto da Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/11/2011)
Due sono le categorie con le quali è difficile parlare dell’ora cruciale di Dio in Europa: i cristiani troppo impegnati, e i non credenti troppo disimpegnati. Il problema sta in questo: sia i primi che i secondi, sia pure con diversa proporzione, com’è ovvio, sembrano molto numerosi. I primi tendono a sviluppare una sempre maggiore autoreferenzialità: prendono distanza dalla cultura pensante, che li disorienta, e si riprendono il gergo di un cristianesimo iniziatico che li rassicura.
Funzionano le parole d’ordine (di destra o di sinistra, dell’identità o del dialogo): l’urgenza dell’azione sconsiglia di perdere tempo con le sofisticazioni della teologia. Magari le parole d’ordine sono in apparenza molto dogmatiche, la sintassi però è per lo più quella dei blog. È un cristianesimo di affetti, ma anche d’effetto: «Noi contro il resto del mondo, che è perduto, per salvarne il più possibile»; oppure «il resto del mondo è già avanti e noi dobbiamo raggiungerlo, altrimenti siamo perduti noi». Cristianesimo psicologico, sociologico, dell’azione diretta. Dio sostiene la buona causa di un ordine sociale migliore, insomma, più che essere l’unum argumentum dell’amore impossibile, eppure imperdibile, che sfida la morte e rende il resto un sovrappiù.
I secondi sono sempre più scettici. Un po’ perché fiutano il vento (se persino il cristianesimo è in ricerca, stiamo come stiamo e si vedrà). Un po’ perché il sottile messaggio della cultura dell’Occidente in declino ('sottile' si fa per dire) è finalmente arrivato alle masse: «Chi vuol esser lieto sia, del doman non v’ha certezza».
Nemmeno il presente, in verità, se la passa tanto bene. E quanto alla letizia, è sempre più un atto della volontà (o un effetto di qualche euforizzante): convivere con la radiazione malinconica di fondo che filtra dalle presuntuose centrali del benessere, rimane un tema di adattamento quotidiano. Dio arriva, al più, con le discussioni sul celibato dei preti e il divieto del sesso, i roghi dell’Inquisizione e i soldi del Vaticano. Insomma, Dio - lui in persona, dico, l’enigma di ogni spes contra spem, che impone di non abitare la terra invano - non arriva proprio.
Il punto è questo e niente meno che questo: Dio. In gioco, è l’attitudine della fede cristiana a onorare - non semplicemente ribadire - il radicamento di Dio in Gesù: per tutte le disperazioni e per tutte le speranze che stanno fra cielo e terra. La mossa è sulla scacchiera: Benedetto XVI ne ha fatta lucidamente avvertita una Chiesa che sta nel culmine di un drammatico esame di coscienza e si trova sempre di nuovo nella tentazione di aggirare l’ostacolo, occupandosi di mille faccende che sono rispetto a quella questione - certamente secondarie. «Nel nostro tempo, in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13,1) - in Gesù Cristo crocifisso e risorto».
Il punto è semplicemente questo. Il cristianesimo deve trovare tempi e luoghi dell’incantamento della presenza di Dio nella vita quotidiana degli uomini comuni, da far percepire che quella presenza ha il potere di fermare tutto, nel cristianesimo stesso: il chiacchiericcio, le dispute, le agitazioni, la propaganda, le istruzioni per l’uso e le attività di aggregazione e di scambio. Perché solo di lì, da quel roveto ardente, il cristianesimo riprende la vita che deve: e cessa di girare in tondo o di sopravvivere di espedienti. Come Mosè sul Sinai: che sembrava lo vedesse, «l’Invisibile» (Eb 11, 27). Da volerci rimanere per sempre, in quel luogo, come Pietro e Andrea sul monte della trasfigurazione del Volto del Signore.
Non è questione di passività della contemplazione, a cui abbiamo ridotto il tema del «vedere Dio». Il fatto è che, da questi eventi - miracoli! - della visione di Dio all’opera, deve sprigionarsi l’energia capace di rimettere in moto la storia della ricerca di Dio. Non la nostra.
L’energia della storia, della quale indichiamo la destinazione eterna. La teoria che deve riprendere il suo corso è quella degli impasticcati del benessere, quella dei disillusi della verità, quella degli indifferenti alla giustizia e al sacrificio che nutre gli affetti di cui soltanto vive il mondo. Questo mondo, e l’altro, e quanti sono: dato che nel grembo della vita di Dio, mille mondi sono come un piccolo giardino. E il bello deve sempre venire.