La croce e il mistero della dignità umana, di Robert Spaemann (Che cosa rende persone le persone?)
Riprendiamo da Avvenire del 26/10/2011 un testo di Robert Spaemann. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (26/10/2011)
È Robert Spaemann il docente ospite del X ciclo di seminari della Scuola di Alta Formazione Filosofica (SdAFF) di Torino, intitolato «La riscoperta dell’idea di natura, la dignità umana e le ragioni dell’agire» che si chiude sabato. Erede della cattedra di Hans Georg Gadamer ad Heidelberg, membro onorario dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali di Pechino e della Pontificia Accademia per la Vita, Spaemann nel suo ciclo di incontri seminariali si occupa di etica e natura in un’ottica di recupero della teleologia nelle scienze. Oggi alle ore 18 presso il Circolo dei Lettori di Torino, terrà inoltre una lezione magistrale in italiano intitolata «Che cosa rende persone le persone?» affiancato dal filosofo Ugo Perone. Il brano che pubblichiamo è tratto dal volume «Tre lezioni sulla dignità della vita umana» che esce in questi giorni da Lindau (pagine 112, euro 12).
La dignità umana non ha una «ragione» biologica, ma avere dignità è una conseguenza dell’appartenenza biologica alla famiglia degli esseri liberi: i rapporti familiari sono anche rapporti personali. Quello di padre, madre, sorella, fratello, nonno e via dicendo è – in contrasto con gli animali – un ruolo che dura per tutta la vita. È perciò irrilevante che un singolo membro della famiglia abbia avuto, abbia o avrà mai quelle proprietà che c’inducono a parlare di persone, quelle proprietà, cioè, in cui la dignità si manifesta come fenomeno.
Il detto comune che la dignità umana vada rispettata si fonda su una peculiare ambivalenza nel pensiero di un soggetto libero. Un’ambivalenza dalla quale scaturiscono due percezioni diverse riguardanti ciò che costituisce una violazione di tale dignità, definita «inviolabile» (unantastbar) dalla Costituzione tedesca, nel cui commento standard è giustamente specificato che tale aggettivo va interpretato in senso normativo, non descrittivo. «Inviolabile», dopotutto, potrebbe significare che è impossibile violare una certa cosa, come pure che quella cosa non deve essere violata.
Entrambi i significati affondano la loro comune radice nel fatto che gli esseri umani sono, da una parte, persone, soggetti liberi, e come tali non possono essere toccati e violati dall’esterno. La tradizione cristiana ha come proprio simbolo centrale l’immagine di qualcuno che in apparenza è totalmente privato della sua dignità, denudato e crocifisso, ma al tempo stesso, proprio come tale è onorato con la più profonda reverenza possibile.
È secondo questa tradizione che va interpretata la scena del Re Lear di Shakespeare in cui il conte di Kent offre i propri servigi al vecchio re, scacciato dalle figlie e in pieno declino. Quando Lear obietta di non essere nessuno, Kent risponde: «C’è nel vostro aspetto qualcosa che m’induce a chiamarvi padrone». Qui la dignità regale non deriva dal potere regale. La dignità regale corrobora la rivendicazione del potere, ma esiste a prescindere dal fatto che tale rivendicazione si realizzi.
Anche all’estremità inferiore della scala sociale troviamo esemplificata la qualità della dignità. Il servizio comporta una dignità speciale, una dignità che impedisce a chi la possiede di essere un semplice esecutore di ordini. È questa, e non una generica «dignità umana», a dare al servitore il senso particolare della propria importanza di fronte al suo padrone. Ci sono condotte, azioni e situazioni che dimostrano quella qualità in modo speciale. Ce ne sono altre in cui anche solo un accenno di dignità evocherebbe immediatamente un senso di ridicola affettazione. Ce ne sono poi altre ancora alle quali è associato il carattere dell’indegnità come una qualità negativa che degrada l’agente. L’indegnità può appartenere soltanto alle azioni e agli atteggiamenti delle persone, vale a dire di esseri liberi ai quali attribuiamo almeno un certo grado di dignità (se non vogliamo sentirci in imbarazzo per loro). Il risentimento, l’odio e il fanatismo sono atteggiamenti totalmente opposti alla dignità. Umiliare deliberatamente chi è più debole è poco dignitoso quanto battere in ritirata dinanzi ai più forti. La dignità umana è così inviolabile che nessuno ce la può togliere.
Soltanto noi possiamo rinunciarvi. Tutto ciò che gli altri possono fare è offendere la nostra dignità non rispettandola. Nel qual caso, però, non riescono a privarcene. Non sono stati Massimiliano Kolbe e Kaplan Popieluszko a perdere la propria dignità, bensì i loro assassini. Ciò che invece è possibile togliere a un altro è l’opportunità di presentarsi dignitosamente. Se la legge romana proibiva di crocifiggere i cittadini romani non era soltanto perché la crocifissione era più dolorosa della decapitazione, ma soprattutto perché esponeva la vittima allo sguardo di tutti, privandola della possibilità di presentarsi. La vittima giustiziata stava di fronte agli altri in un confronto che, dal suo punto di vista, mancava del carattere di «auto-rivelazione» essenziale per la comunicazione personale.
Obiettivamente, è una situazione priva di dignità. Lo stesso valeva per la gogna, che sottoponeva il reo a una situazione di oggettiva mancanza di dignità. Più e più volte l’arte cristiana ha ripreso questo oggetto che crea avversione (Goethe) per evidenziare la dignità del Crocifisso anche in una situazione di oggettiva indegnità. Così il Crocifisso rimane esposto da secoli al nostro sguardo, ma come oggetto di culto. La croce rappresenta il balzo gigantesco verso la radicale interiorizzazione del concetto di dignità, verso la consapevolezza di qualcosa, nel fenomeno della dignità, che è velato e svelato al tempo stesso.