La pietà e la ragione, di Carlo Cardia (dinanzi alla fine di Gheddafi)
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Riprendiamo da Avvenire del 22/10/2011 un articolo scritto da Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/10/2011)
Le immagini della morte di Gheddafi hanno provocato in tanti di noi un grumo di sentimenti e un groviglio di pensieri che si sono intrecciati velocemente come in un caleidoscopio confuso. Un sentimento di pietà che non deve mai abbandonarci, per il corpo colpito ed esposto con brutale insistenza anche mediatica, e insieme di commiserazione per una umanità che fatica a trovare un equilibrio tra giustizia e orrore, che non dovrebbero mai stare insieme.
Però, è riaffiorata anche la pietà per le tante vittime che il regime del rais si è lasciato dietro di sé. È una pietà profonda, non erosa dal tempo trascorso, perché i dissidenti libici incarcerati, giustiziati, torturati, e gli italiani e gli ebrei perseguitati e scacciati, fanno parte dello stesso lugubre affresco di cui Gheddafi è stato autore, come ne fanno parte le vittime straziate e strazianti degli attentati internazionali organizzati e comandati negli anni 80, primo fra tutti quello di Lockerbie, da un colonnello trionfante, ebbro di potere, di odio verso l’Occidente.
È una pietà senza fine, perché a voler percorrere all’indietro la scia di sangue e di dolore che il regime libico ha costruito, la ragione vacilla, potrebbe quasi giustificare l’orrore di oggi. Ma la nostra umanità non può cedere a una vendetta che eguagli la ferocia del persecutore.
La ragione stenta a prendere il sopravvento in questo crogiuolo di sentimenti dolenti che non hanno risposte, eppure deve farlo per poterci nutrire di speranza. Ci chiediamo, in tempi ravvicinati, se questa guerra di Libia decisa a tavolino era necessaria, se necessarie fossero le tante vittime che ha provocato tra gli innocenti e i colpevoli, distruggendo mezzo Paese che non meritava di essere martoriato. Se la decisione non sia stata affrettata, sollecitata perfino dall’enfatizzazione degli eventi, dettata da interessi di alcuni Stati o potentati economici, che non hanno lasciato spazio ad alternativa.
È una domanda legittima perché le distruzioni e le tragedie che ne sono derivate ci fanno sentire in qualche modo colpevoli per non aver saputo evitare il peggio. Ma possiamo interrogarci anche sul ruolo internazionale che l’Occidente vuole svolgere. Perché da più d’un secolo tanti Paesi democratici, e di antica civiltà, seguono una strada ambigua e contorta, nell’accettare, incoraggiare, blandire, a volte in modo non degno e neanche utile, le peggiori dittature, e poi scoprono d’un tratto che gli stessi dittatori sono impresentabili, da cacciare, anche con guerre che oggi hanno il volto della tecnologia sempre più affinata e letale.
Dobbiamo chiederci se davvero non si possa seguire una politica diversa che eviti questa 'doppia verità' del dittatore accettabile o impresentabile, amico da accogliere oppure orco da sopprimere, a seconda delle convenienze e delle utilità. Una politica che riconosca, progressivamente isoli, le dittature, spingendo a un cambiamento interno dei peggiori regimi, ovunque si trovino e da chiunque siano diretti, farebbe fare un formidabile passo in avanti alla convivenza e alla pacificazione dei popoli, eviterebbe sciagure e tragedie che si ripetono con impressionante similitudine.
Non è facile scegliere questa strada, una dose di realismo è sempre necessario, e d’altronde la politica non realizza mai sulla terra l’ideale cui si aspira. Eppure, le immagini di Gheddafi e la memoria delle sue vittime ci dicono, ci gridano dentro, che neanche noi siamo innocenti.
Non lo eravamo quando abbiamo accarezzato il dittatore, non lo siamo oggi quando per eliminarlo – dopo un’iniziale affermazione di puro intendimento umanitario – abbiamo sacrificato persone e princípi, coerenza e saggezza di comportamento.
Ancora un interrogativo resta sospeso nella nostra coscienza, che avvolge l’intero 2011 che si sta consumando e ha visto cadere i regimi del Nord Africa. Dobbiamo porci il problema se siamo di fronte a una autentica primavera politica, che produrrà democrazia e diritti umani, o se alle ribellioni non seguiranno scelte autoritarie, repressione e ostilità per le minoranze, una nuova arroganza dei vincitori. Nessuno può dare una risposta, e alcuni segnali non sono incoraggianti, ma il risultato conclusivo dipenderà anche da noi, da un Occidente che riveda in modo stabile il suo atteggiamento verso le dittature e i regimi autoritari, di qualsiasi colore e natura siano.