La Privacy inesistente del Web: Google orienta le ricerche a seconda delle idee politiche o religiose dei suoi utenti... Non c’è più privacy, siamo nudi e tracciabili, di Ugo Volli e Privacy Così la tecnologia ci spia, di Gigio Rancilio

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /10 /2011 - 14:42 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 23/10/2011 tre articoli scritti da Ugo Volli e Gigio Rancilio. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (23/10/2011)

1/ Non c’è più privacy, siamo nudi e tracciabili, di Ugo Volli

Siamo nudi. Nudi di fronte al potere, di fronte al marketing, di fronte alle agenzie che rivendono i nostri dati.

Le autostrade, le ferrovie e le linee aeree sanno tutto dei nostri viaggi; le Asl di malattie e medicine; i social media registrano opinioni e relazioni; le carte di credito e i supermercati prendono nota delle abitudini di consumo, i gestori di telefonia registrano i nostri interlocutori e i siti che visitiamo e anche indirettamente la nostra posizione; migliaia di telecamere vedono i nostri movimenti e possono identificarci; i giudici possono intercettarci e pubblicare le nostre telefonate più intime. Vi sono banche dati per automobili, imprese, proprietà immobiliari. Si propone di pubblicare tutte le denuncie dei redditi. I call center ci chiamano a casa, gli spammer riempiono le caselle di posta elettronica di spazzatura più o meno losca, i siti depositano sul nostro computer dei “dolcetti” (cookies) che registrano l’accesso.

Siamo nudi. Non c’è mai stata società che più abbia parlato di privacy e che meno ne ha avuta. Le leggi per garantircela producono solo formulari da riempire. I “condensatori” di informazioni mettono insieme i nostri dati e li rendono disponibili. Ne è nato perfino un verbo: se vuoi conoscere qualcuno, gli americani dicono: «google him», googlalo.

Mi sono googlato, prima di scrivere questo articolo: ho trovato 88.100 documenti su di me. Molti non c’entrano o sono indifferenti. Ma con pazienza si ricostruisce tutto quel che ho fatto, negli ultimi anni: che cosa ho scritto, le situazioni pubbliche in cui mi sono trovato, i giudizi delle commissioni di cui ho fatto parte, i curricula che ho dovuto lasciare, notizie sulla mia famiglia, la mia posizione religiosa, i miei atteggiamenti politici. Su Facebook (o Twitter o Google+) c’è anche di più: un ritratto sempre aggiornato dove nulla viene mai cancellato, anche se crediamo di farlo, come ha rivelato un’inchiesta europea. Si potrebbe dire: che importa?

Non ho nulla da nascondere. Ma questa non è una risposta. Perché il rischio che di questi dati si impadronisca prima o poi un regime autoritario, un malintenzionato, anche semplicemente qualcuno che ce l’ha con noi è forte.

Faccio un esempio personale. Diversi siti antisemiti hanno ripubblicato una lista di “professori universitari ebrei” dove compare il mio nome. Io sono fiero della mia religione, ma è chiaro che quella pubblicazione è una minaccia che giustamente ha destato scandalo. Quante di queste liste esistono, classificando gli italiani per temi più o meno sensibili, per le loro idee, per le loro frequentazioni, per la loro situazione economica, per le loro malattie? Che ne potrebbe fare un fascismo futuro? Diffidarne non è fobia.

Una volta che un dato è registrato, eliminarlo è impossibile, viene copiato, archiviato, spostato. Si ha un bell’essere incensurati, solventi, in regola con le tasse, anche ragionevolmente sani. Di noi si sa comunque tutto.

Siamo in parte complici, molti dati li forniamo liberamente noi, per esempio su Facebook o con le tessere sconto; ma spesso è obbligatorio essere “tracciabili”, per esempio sempre più coi pagamenti. Non ci sono più lettere telegrammi e telefoni pubblici: ogni comunicazione dev’essere “tracciabile”, come le mail. Per entrare in molti luoghi ci vuole un badge, che trasmette i nostri dati. Ci sono codici a barre su esami, ricette, biglietti. Le varie banche dati che ci registrano tendono a unificarsi, a diventare tutte accessibili a chi può e vuole.

Nessuno però si occupa del problema della scomparsa tecnologica della privacy, già probabilmente irreversibile. È un cambiamento antropologico. Una nuova umanità sta nascendo, sempre interconnessa e senza segreti. certamente meno libera. Per ora siamo felici di essere nudi e continuamente radiografati da una tecnostruttura simile al Panopticon, la prigione modello a struttura circolare studiata da Foucault, in cui tutte le celle sono trasparenti verso e scrutate dallo sguardo invisibile del sorvegliante.

2/ Così la tecnologia ci spia, di Gigio Rancilio

In una società piena di fobie, quella di essere spiati dalle tecnologie, sorprendentemente, non raccoglie così tante adesioni come forse meriterebbe. Quasi tutti sappiamo (o dovremmo sapere, visto che se ne parla da almeno dieci anni) che ogni volta che usiamo il telefonino, la carta di credito, la tessera punti di un qualunque supermercato o navighiamo su internet, tutto ciò che facciamo viene immagazzinato in potenti computer.

Si tratta di migliaia e migliaia di dati. Che svelano pezzi della nostra vita: cosa compriamo e dove, quanto siamo stati influenzati da quel certo spot o da quell’offerta sconto, a quali riviste siamo abbonati e dove eravamo quel certo giorno a quella certa ora (meglio: dov’era il nostro telefonino, quel certo giorno a quella certa ora). Eppure, sapere di essere “spiati”, mediamente, ci mette meno in agitazione che lo scoprire che alcuni colleghi o amici parlano male di noi. Il motivo è semplice: siamo convinti che nessuno userà quei dati contro di noi. Perché sono troppi. E ci vorrebbero mesi per leggerli tutti.

Quindi, è la nostra affrettata conclusione, la privacy di nessuno di noi (persone comuni) vale così tanto da meritare un simile trattamento. Il che ci fa dormire sonni tranquilli.

Salvo poi fare un salto sulla sedia quando magari scopriamo che un ragazzo austriaco, per una ricerca, ha chiesto a Facebook quali erano i dati che l’azienda possedeva su di lui e si è visto recapitare un cd, con 1200 pagine formato A4. Cioè, con migliaia di dati relativi a tutto ciò che aveva fatto su Facebook negli ultimi tre anni: commenti fatti, cose scritte, amicizie strette, foto postate, idee e giudizi espressi e tanti, tanti dati relativi alla sua vita (dov’era andato, con chi, a fare cosa eccetera).

Se solo Facebook ha così tanti dati su ognuno di noi, provate a moltiplicarli per tutti gli altri servizi di internet, che normalmente usiamo (social network, o motori di ricerca), aggiungete le carte di credito, i bancomat e le tessere punti che avete nel portafoglio e avrete un numero approssimativo (enorme) di dati della vostra vita regalati ad altri molto vicino alla quantità effettiva. Naturalmente penserete: se hanno ipoteticamente venti, trenta o quarantamila dati su di me, non se ne faranno niente perché sono troppi da analizzare e io non valgo così tanto.

In fondo, un’idea simile ce la conferma anche un film (molto efficace) come Nemico pubblico, con Will Smith e Gene Hackman. Il primo è un giovane avvocato nero che si vede distruggere la vita dall’agenzia americana per la Sicurezza nazionale, perché l’ Nsa crede che lui abbia delle informazioni che a loro interessano. Così usano qualunque sua traccia elettronica non solo per braccarlo, ma anche per spingerlo ad arrendersi. Gli tagliano la carta di credito, gli cambiano i dati della fedina penale (che da pulita diventa “sporca”), gli toccano i dati della previdenza, gli prosciugano il conto in banca e inventano su di lui un sacco di tracce false. Già, ma lui “valeva” qualcosa. Noi (pensiamo) valiamo così poco che, a conti fatti, siamo automaticamente salvi.

A svelarci alcuni rischi che corriamo è stato nel 2008 La finestra rotta, un romanzo (certi libri e certi film spiegano la realtà meglio di tanti convegni) di Jeffery Deaver con protagonista Lincoln Rhyme, il criminologo paralizzato, diventato famoso grazie al libro e al film Il collezionista di ossa. Il killer protagonista del romanzo si diverte a incastrare come colpevoli ignari cittadini (tra cui il cugino di Rhyme) usando contro di loro i dati raccolti da una società che ha immagazzinato un gran numero di informazioni su quasi tutti i cittadini degli Stati Uniti. Mi sembra già di sentirvi: cose così succedono solo nei romanzi. Forse, se parliamo di serial killer che usano dati elettronici per incastrare degli innocenti. Ma la pratica di raccogliere e schedare dati sui cittadini-consumatori esiste e fa parte di quella disciplina denominata data mining. Chi la segue, il più delle volte, è un ricercatore serio.

Ma si stanno facendo largo aziende (altrettanto serie ma un tantino più pericolose per noi) che usano potenti computer per estrarre informazioni sensibili su chiunque di noi, da usare (per ora) in ambito commerciale. Un esempio banale: quanto vale per una casa automobilistica conoscere quanti sono gli utenti interessati al prodotto che sta pensando di mettere in produzione, così da sapere in anticipo se e quanto successo avrà?

Una delle applicazioni del data mining, infatti, è quella di saper prevedere i nostri “bisogni commerciali” prima che noi stessi li rendiamo pubblici. In fondo non è tanto distante da quello che già fa nel suo campo Google. Per noi è solo un servizio, comodo e utile. Ma ogni volta che lo utilizziamo lui associa il nostro pc alle ricerche fatte. E così crea un nostro profilo (vero o verosimile). Man mano che facciamo ricerche, Google ci darà prima che ad altri le informazioni più vicine alla nostra sensibilità. Fate la prova: se conoscete una persona profondamente diversa da voi come interessi, opinioni politiche e gusti, chiedetegli di provare a cercare su Google un certo tema o una certa cosa e voi fate la stessa ricerca. In Italia siamo agli inizi, ma in America i vostri risultati saranno profondamente diversi.

Perché Google non ha solo cercato quello che gli avete chiesto, ma facendolo ha tenuto conto del vostro profilo. Un gesto “gentile”. Che però applicato al marketing diventa oro. Provate a pensare quanto sarebbe costato all’ipermercato nel quale vi servite di solito, registrare ogni minuto i gusti di decine di migliaia di clienti, sapendo esattamente chi sono e cosa vogliono; che gusti hanno, quali prodotti prendono sempre e quali invece cambiano perché insoddisfatti o sulla spinta di una efficace campagna pubblicitaria.

L’uso della tecnologia, infatti, non ci toglie solo la privacy (e su questo ci sono scritti e convegni che ne dibattono da almeno dieci anni), ma usa ciò che facciamo e diciamo per spremerci al massimo come consumatori.

E sotto questo punto di vista ognuno di noi vale, e molto. In fondo, per dirla un po’ brutalmente, il punto vero sta proprio qui: ciò che facciamo vale più o meno della possibilità di acquistare con lo sconto o di avere gratis un aspirapolvere o un microonde?

3/ Per i «social network» ogni utente ha il suo prezzo, di Gigio Rancilio

Quanto valgono i nostri dati? Difficile rispondere. Ma in America, dove di business si intendono, hanno fatto una serie di calcoli molto precisi su quanto valgono gli utenti dei social network. E hanno scoperto che il valore degli iscritti non è legato ai possibili introiti pubblicitari generati dal traffico su questi siti, come la tv fa grazie all’audience.

No: il valore di Facebook o di Twitter, solo per fare due nomi, non sta nella loro capacità di raggiungere tanti milioni di persone, ma di possedere i dati di questi milioni di persone. E più se ne lasciano e più il valore sale.

Ogni iscritto a MySpace, il primo social network (ora in declino), valeva ventun dollari, mentre quelli di Twitter (che sono oltre trecento milioni, di cui cento che si collegano ogni giorno) valgono trenta dollari l’uno. Linkedin, il social network che raccoglie i curriculum dei manager, di utenti ne ha centonovanta milioni e ognuno vale quarantatré dollari, perché qui gli iscritti lasciano molti più dati sensibili.

Il top dei top, ovviamente, è Facebook, che in queste ore ha annunciato di essere arrivato a un milione di utenti. Ogni iscritto, vista la quantità di dati che lascia sui computer dell’azienda (dati personali, opinioni, preferenze commerciali eccetera), vale tra i settanta e i cento euro. Infatti, il valore di Facebook, che a gennaio era di cinquanta miliardi di dollari, ha ormai raggiunto (e sta velocemente superando) i settanta miliardi di dollari.