La comunità cristiana secondo Atti 2,42-47. Una meditazione di sr. Antonietta Pellegrino

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /10 /2011 - 14:29 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito la trascrizione di una meditazione di sr. Antonietta Pellegrino del monastero di Santa Scolastica a Civitella San Paolo, tenuta in occasione del ritiro dei catechisti della parrocchia di San Saturnino, guidati dal parroco don Marco Valenti.  I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/10/2011)

1. Lettura di At 2, 42-47

2. Analisi del testo.

v. 42)  erano perseveranti. Chi? Quelli che «si  trovavano tutti insieme nello stesso luogo» di At 2, 1 ovvero gli apostoli con Maria esplicitati in At 1, 13-14.

La perseveranza è una delle caratteristiche fondamentali di questo testo e dunque della comunità cristiana.

Fin dalle origini essere cristiani, dunque seguire Gesù, non è questione di una stagione, di alcuni mesi, ma è "perseverare", durare nel tempo, dare continuità a quanto si è intrapreso. Il termine proskartereîn, perseverare, perdurare, nel NT oltre ad essere utilizzato con questo significato, (come si evince da At 1, 14 «erano perseveranti», At 8, 13  «di quelli perseveranti con lui», Rm 12, 12 «perseveranti nella preghiera»), curiosamente in Mc 3, 9 è utilizzato nel senso di «mettere a disposizione». Gesù chiede «ai suoi discepoli che una barca si preparasse – proskarterê -, si mettesse a disposizione per lui». Questo significato  ci abilita a pensare che perseverare non si basa solo sulla buona volontà - questo a lungo andare stanca. Si persevera quando «ci si mette realmente a disposizione» con l’atteggiamento interiore che fa dire: «eccomi: sono qui a servire, sono aperto al progetto del Signore».

2.1. Nel nostro testo si esplicitano 4 perseveranze:

1. nell'insegnamento degli apostoli,

2. nella comunione (koinonía),

3. nella frazione del pane e 

4. nelle preghiere.

2.1.1. Qual’è la didakê degli apostoli? Gesù Cristo morto, risorto e asceso al cielo, il Kerigma trasmesso dai discepoli che hanno vissuto con Gesù. Questo il nucleo fondamentale, poi tutto l’insegnamento di Gesù, agito con autorità insieme al suo modo specifico e unico di fare esegesi, di comprendere e interpretare come le Scritture, l’AT, si sono compiute in lui. Una icona di questo ce la consegna Lc al c. 24, 27.32.45 («Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro ciò che si riferiva a lui... non ardeva forse in noi il cuore... quando ci spiegava le Scritture?... allora aprì la loro mente per comprendere le Scritture»). Sull’importanza delle Scritture sante torneremo. Perseverare nell’insegnamento degli apostoli... e in quello del vostro parroco!

2. 1. 2. La koinonía. Non possiamo riferirci a tutta la centralità e ricchezza con cui la koinonía è presentata nel NT: procedo per accenni.

a. Koinonía è anzitutto un dono gratuito. Perché mediante il Battesimo, in forza dello Spirito Santo, siamo immersi nella relazione amante tra il Padre e il Figlio. Un solo riferimento: Gv 17, 21b. 22b,. 23. 26b «Come tu, Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in - en - noi... siano una cosa sola come noi siamo una cosa sola. Io in loro e tu in me... l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro». Di qui possiamo affermare: koinonía è partecipazione all’amore trinitario.

b. Koinonía è comunione al corpo e al sangue di Cristo (cf. 1 Cor 10, 16-17), questo lo vedremo meglio fra poco.

c. Koinonía è obbedienza comune al comandamento nuovo come ricorda Gv 13, 34-35: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati... da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri». Non è un caso che Paolo, quando esorta i Filippesi a vivere nell’agape, porta a sostegno della sua esortazione l’esempio di Gesù descritto nel famoso Inno cristologico che le comunità già pregavano - ricordate Fil 2, 1-18: Cristo si è umiliato fino a dare la vita... per questo Dio lo ha esaltato! Si può vivere l’agape solo se si ha come fondamento l’umiltà, che è la virtù dei forti. Quella mitezza che è capacità di addomesticare la propria forza e metterla al servizio dell’incontro con l’altro. L’amore autentico per il Signore, inevitabilmente si esprime come fraternità, malgrado tutte le sfide che quest’ultima comporta! Scusate il riferimento personale: dopo 27 anni di vita comunitaria penso di averne una discreta consapevolezza!

d. Koinonía è solidarietà fra i membri della comunità, che si esprime nel «portare i pesi gli uni degli altri» come esorta Paolo al termine della sua lettera ai Galati 6, 2.

e.  Koinonía è condivisione dei beni così come viene descritto nei vv. seguenti. Al v. 44 si dice, infatti, «tutti i credenti avevano ogni cosa in comune, ápanta konià»

f. Koinonía è unanimità, il «cuor solo e anima sola» di At 4, 32 e... molto altro.

Con il Concilio Vaticano II siamo tornati a riscoprire l’«ecclesiologia di comunione». Giovanni Paolo II ha dato un contributo decisivo quando ha invitato la chiesa a divenire «casa e scuola di comunione» nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte.

Al n. 43: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo. Che cosa significa questo in concreto? Anche qui il discorso potrebbe farsi immediatamente operativo, ma sarebbe sbagliato assecondare simile impulso. Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità».

Dunque promuovere una spiritualità della comunione, aggiungerei: dare priorità all’approfondimento del nostro essere e poi del nostro agire. Giovanni Paolo continua e offre delle indicazioni importanti, alcune delle quali le abbiamo elencate sopra. Ho piacere a leggervi tutto il n. 45 in quanto cita la Regola di Benedetto... siete in un monastero benedettino![1]

Tutto questo può sembrare idealistico per una grande comunità parrocchiale! Se non per tutta la comunità almeno per il «nucleo caldo, dinamico», per voi e quel gruppo di persone che vivono un’appartenenza più «integrale», rispetto agli altri, per questi deve darsi. Oggi le comunità cristiane devono saper gestire, al loro interno, diverse «forme di appartenenza». Dai parrocchiani che frequentano solo a Natale e Pasqua, a quelli saltuari, fino a quelli dinamicamente impegnati, e a questi offrire seri itinerari di formazione teologica e pastorale

2.1.3. La terza perseveranza è nella «frazione del pane» questo termine, che ritroviamo al v. 46, e l’altro «cena del Signore» in 1 Cor 11, 20 sono i 2 termini più antichi con cui la Scrittura designa la celebrazione dell’Eucaristia nella chiesa apostolica. Qui è stato davvero difficile scegliere tra la grande e diversificata ricchezza di sensi dell’Eucaristia.

* Avremmo potuto riflettere sulla comprensione dell’Eucaristia nella prima comunità cristiana; la cena pasquale del NT come compimento della Pasqua ebraica. La cena pasquale del NT infatti è in continuità con quella ebraica per il nome e il sacrificio che s’immolava, ma si è diversificata e l’ha superata in quanto l’agnello immolato nel sacrificio è Cristo stesso.

* Sull’evoluzione della celebrazione sia nella struttura che nei luoghi: sinagoga, tempio, casa... o vedere la preziosa testimonianza della Didachè, testo sub apostolico (50-70).

* Oppure sull’importanza dell’Eucarestia nella vita dei cristiani dei primi secoli, come gli Scillitani i quali avevano sfidato la proibizione delle autorità imperiali di celebrare il Giorno del Signore e furono martirizzati mentre dichiaravano che non era possibile vivere senza l’Eucaristia, cibo del Signore: sine dominico non possumus.

Mi limiterò a rivisitare alcune luminose acquisizioni del Concilio Vaticano II con accenni alla Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis di Papa Benedetto XVI.

* Tra i frutti migliori del Vaticano II si evince la centralità dell’Eucarestia nella vita cristiana, come attesta la Costituzione sulla Liturgia:

«La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua forza... Dalla liturgia dunque, e particolarmente dall’eucarestia, deriva a noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene, con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della chiesa» (SC 10).

Questo culmen et fons si riferisce a tutta la liturgia eucaristica, intesa come Parola e Sacramento. Esplicito meglio: i padri conciliari sono tornati a considerare l’Eucarestia come il duplice banchetto della mensa Verbi e mensa Sacramenti. Nella Costituzione sulla divina Rivelazione leggiamo: «La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto con il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del pane della vita sia alla mensa della Parola di Dio che del corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli» (DV 21).

Non solo! Il Vaticano II ha significativamente ricuperato l’importanza della Parola di Dio nell’Eucarestia, patrimonio di tutto il popolo di Dio e non di pochi e nella Sacrosanctum Concilium stabilisce: «Affinché la mensa della Parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia» (SC 51). Noi oggi abbiamo un Lezionario ricchissimo.

Nella celebrazione dell’Eucarestia quanto la Parola annuncia, rivela si fa carne, si compie nel pane e nel vino e attraverso questi ultimi la Parola si comunica come “vita” a ogni credente. Ricordo solo alcune affermazioni di Gesù: «Chi ascolta la mia Parola... ha la vita eterna» (Gv 5, 24). E nel grande discorso fattivo consegnatoci nel c. successivo leggiamo: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6, 54). Ogni volta che siamo affamati di Vita vera sappiamo cosa fare e da chi andare. Ogni volta che noi, popolo di Dio, la chiesa, nella nostra realtà teandrica, facciamo memoria, anàmnesis, del mistero pasquale, evento salvifico fontale che riassume tutta la storia della salvezza, si riattualizza, nei segni sacramentali, il sacrificio di Cristo e ci è donata la pienezza della Sua Vita.

Roba da vertigini... forse siamo troppo abituati a questa realtà, realtà che Papa Benedetto nella Esortazione apostolica Sacramentum caritatis definisce: «una realtà che supera ogni comprensione umana» (11). Sacramentum caritatis inizia così: «Sacramento della carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo» (3). E alle pagine successive ribadisce: «Gesù, nell’Eucarestia dà non “qualche cosa” ma se stesso; egli offre il suo corpo e versa il suo sangue» (13). «È un dono assolutamente gratuito» grazie al quale «siamo resi partecipi dell’intimità divina» (14). L’abbiamo ricordato all’inizio quando notavo le diverse esplicitazioni della koinonía. Lascio parlare ancora Papa Benedetto: Nell’Eucarestia Gesù «ci attira dentro di sé»,  coinvolgendoci «nella dinamica della sua donazione»: è un «cambiamento radicale» che «come una sorta di fissazione nucleare... portata nel più intimo dell’essere» suscita «un processo di trasformazione della realtà» (cf. Sacramentum caritatis 16-19), e specificherei: cominciando dalla nostra persona![2]

Prima ho ricordato come il Vaticano II ha riportato l’Eucarestia al cuore dell’autocoscienza della Chiesa. Una luminosa esplicitazione la troviamo nel Decreto sull’ufficio pastorale dei Vescovi (Christus Dominus = CD) il quale riguardo al ministro dei parroci dice: questi, i parroci «abbiano di mira che la celebrazione del Sacrificio Eucaristico diventi il centro e il culmine di tutta la vita della comunità cristiana» (CD 30).

Ne siamo tutti convinti: non è possibile edificare una comunità cristiana senza Eucaristia. Ricordate il celebre adagio: «L'Eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa l'Eucarestia» questo è ben espresso nel Decreto sul Ministero e Vita Sacerdotale (Presbyterorum Ordinis = PO):

«Non è possibile che si edifichi una comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la celebrazione della Santissima Eucarestia, dalla quale deve prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità. E la celebrazione eucaristica, a sua volta, per essere piena e sincera deve condurre sia alle diverse opere di carità e al reciproco aiuto, sia all'azione missionaria e alle varie forme di testimonianza cristiana» (PO n. 6).

Davvero qui c’è tutto! Voglio dare solo un altro esempio in cui si specifica come l'Eucarestia ha un ruolo determinante anche nella realizzazione della vocazione universale alla santità nella Chiesa, in quanto l’Eucarestia ci purifica dal peccato e alimenta in noi l’amore, l’agape, che è l’essenza stessa della santità:

«il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità... cresca e fruttifichi, ogni fedele deve... partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’Eucarestia» (LG n. 42).

In At 2, 46 abbiamo letto: «ogni giorno spezzavano il pane». Qui voglio leggervi alcune espressioni dell’Omelia di Papa Benedetto ad Ancona l’11 settembre 2011 a conclusione del Congresso eucaristico nazionale:

«L’uomo è incapace di darsi la vita da se stesso, egli si comprende solo a partire da Dio: è la relazione con Lui a dare consistenza alla nostra umanità e a rendere buona e giusta la nostra vita. Nel Padre nostro chiediamo che sia santificato il Suo nome, che venga il Suo regno, che si compia la Sua volontà. È anzitutto il primato di Dio che dobbiamo recuperare nel nostro mondo e nella nostra vita, perché è questo primato a permetterci di ritrovare la verità di ciò che siamo, ed è nel conoscere e seguire la volontà di Dio che troviamo il nostro vero bene. Dare tempo e spazio a Dio, perché sia il centro vitale della nostra esistenza.

Da dove partire, come dalla sorgente, per recuperare e riaffermare il primato di Dio? Dall’Eucaristia: qui Dio si fa così vicino da farsi nostro cibo, qui Egli si fa forza nel cammino spesso difficile, qui si fa presenza amica che trasforma.

Ma che cosa comporta per la nostra vita quotidiana questo partire dall’Eucaristia per riaffermare il primato di Dio? La comunione eucaristica, cari amici, ci strappa dal nostro individualismo, ci comunica lo spirito del Cristo morto e risorto, ci conforma a Lui; ci unisce intimamente ai fratelli in quel mistero di comunione che è la Chiesa, dove l’unico Pane fa dei molti un solo corpo (cfr 1 Cor 10,17)... Come Pietro, anche noi diciamo, con l’intelligenza dell’amore: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69)».

Anche gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 Educare alla vita buone del Vangelo della CEI (4/10/2010) suggeriscono che per ridare tono e vitalità alla nostre comunità cristiane occorre ritrovare il primato di Dio nella vita e nell’azione delle nostre Chiese e incrementare la testimonianza quale forma dell’esistenza cristiana.

2.1.4. La quarta perseveranza è nelle preghiere. Anche questo è un tema ricco e variegato. Con le preghiere possiamo intendere le 2 forme: quella comunitaria e quella personale. Tant’è che subito dopo il nostro testo, il capitolo 3 degli Atti inizia così: «Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio».

Qui è citato anche il luogo della preghiera: il tempio. Sappiamo che i primi cristiani frequentavano anche le sinagoghe, ed erano soliti pregare anche in casa. In At 10, 9 leggiamo che Pietro stando in casa  «salì sulla terrazza verso l’ora sesta per pregare». Qui abbiamo l’esempio della preghiera personale in casa. In At 12, 12 Pietro è in prigione, dopo la liberazione miracolosa da parte dell’angelo del Signore «si recò a casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove molti erano radunati in preghiera». Dunque preghiera comunitaria in casa. Lc 4 ci riferisce di Gesù nella sinagoga di Nazareth, dove gli fu dato il rotolo del profeta Isaia, e Lc 13, 10-14  di Gesù sempre in sinagoga che insegna e guarisce la donna inferma da 18 anni! E At 9, 20 ci ricorda la frequentazione delle sinagoghe di Paolo, quando a Damasco «si mise a predicare Gesù nelle sinagoghe proclamando: “Questi è il Figlio di Dio”».

È superfluo ricordare che il maestro e modello di preghiera della comunità cristiana è stato Gesù e qui potremmo ricordare le diverse testimonianze evangeliche di Gesù in preghiera da solo, nei diversi momenti della giornata e della sua esistenza. Come ogni pio ebreo, di certo Gesù ha pregato 3 volte al giorno lo Shemà, la preghiera ebraica per eccellenza: «Ascolta Israele il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (composta da 3 brani Dt 6, 4-9; 11, 13-21 e Nm 15, 37-41). Sappiamo che Gesù di buon mattino si ritirava in luoghi deserti a pregare oppure che, venuta la notte se ne stava tutto solo sul monte a pregare. Prima di scegliere i Dodici passò tutta la notte in preghiera... e non è possibile citare tutti i momenti di svolta in cui ha pregato, come la preghiera al Getsemani, ecc. Tutte queste testimonianze le conosciamo bene e non mi soffermo. Ricordo solo la risposta di Gesù ai discepoli che gli chiedevano d’insegnar loro a pregare: quando pregate dite «Padre nostro» - e per noi questa è la preghiera assolutamente tipica! Da quanto detto finora mi sembra risulti chiara l’importanza della preghiera personale e comunitaria, l’una non si dà senza l’altra. Di più: un sano equilibrio fra le due è garanzia di una profonda vita di fede.

Note al testo

[1] Sempre a proposito di scuola di comunione, Benedetto alla fine del Prologo della RB, recita: «Dobbiamo dunque costituire una scuola del servizio del Signore. E nel costituirla speriamo di non prescrivere nulla di aspro, nulla di pesante. Ma se, per giuste ragioni, si dovrà pur introdurre qualcosa di più duro per correggere i vizi o custodire la carità, non ti lasciar prendere subito dallo sgomento così da abbandonare la via della salvezza, in cui non si può entrare senza passare attraverso uno stretto inizio. Avanzando però nell’esercizio della virtù e della fede, il cuore si dilata e, con indicibile soavità di amore, si corre nella via dei precetti divini» RB, Pr 45-50. E al penultimo capitolo della RB lui, esperto di umanità, della fatica a trascrivere nel quotidiano l’ideale della koinonía, recita: «I monaci devono esercitare lo zelo buono con ferventissimo amore, cioè si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; sopportino con somma pazienza le proprie miserie fisiche e morali... nulla assolutamente antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti insieme alla vita eterna» RB 72, 3-5. 11-12.

[2] Nella Lettera enciclica Deus caritas est  del sacramento dell’Eucarestia Papa Benedetto sottolinea: «Il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome dell’Eucarestia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi» n. 14.