Arte, croce e delizia del Belpaese, di Antonio Paolucci a colloquio con Carolina Drago
Riprendiamo da Avvenire del 2/10/2011 un’intervista di Carolina Drago ad Antonio Paolucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/10/2011)
Professor Paolucci, spesso si sostiene che il nostro Paese ospiti la gran parte, anche il 60%, del patrimonio artistico mondiale. Un dato che lei ha negato più volte. Perché è una mitologia?
«Si tratta di uno stereotipo molto caro ai cattivi giornalisti e ai cattivi politici. È un’emerita stupidaggine perché prima di tutto non conosciamo la consistenza numerica del patrimonio culturale italiano e ancora meno quella degli altri Paesi del mondo. Confrontare quantità incognite per ottenere un dato statistico è una sciocchezza dal punto di vista matematico prima ancora che da quello storico-culturale. È vero invece, ed è scientificamente dimostrabile, che in Italia il museo esce dai propri confini, occupa le piazze, le strade, si moltiplica all’ombra di ogni campanile. Questo ci rende unici e invidiati nel mondo. Il quadro del Pontormo più bello non si trova agli Uffizi ma a Santa Felicita, una chiesa a qualche centinaia di metri dal museo. È qui la famosa Deposizione che affascinò il Pasolini della Ricotta. Il Tiziano più bello in assoluto è a Santa Maria Gloriosa dei Frari, a Venezia: lo splendido quadro dell’Assunzione della Vergine. Se si vuole conoscere Carlo Crivelli o Lorenzo Lotto occorre girare per le parrocchie della Bergamasca o delle Marche. Il museo diffuso è il vero carattere distintivo dell’Italia. Il fatto cioè che qui da noi, il patrimonio sia presente dappertutto».
Sempre in tema di luoghi comuni, spesso si evidenzia che nelle statistiche dei musei il Louvre o l’Ermitage sono più visitati degli Uffizi. Benché l’Italia sia una meta prediletta del turismo culturale. Come mai?
«Questa è un’altra stupidaggine ed è molto cara, più che ai politici e ai giornalisti, agli economisti che guardano alla fruttuosità economica dei beni culturali. Di recente Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, donna intelligente e simpatica, ha chiesto: “Ma com’è possibile che nell’elenco dei grandi musei del mondo, l’Italia sia solo al diciottesimo posto?”. È vero: gli Uffizi sono al diciottesimo posto per numero di visitatori. Ma è anche vero che agli Uffizi più di un milione e mezzo di persone l’anno non possono entrare perché non ci stanno. Per la semplice ragione che Giorgio Vasari e Bernardo Buontalenti, alla fine del Cinquecento, hanno dato a questo museo le dimensioni che conosciamo. Quello che è importante sapere, invece, è che accanto agli Uffizi c’è il Museo del Bargello, e poi quelli di Palazzo Pitti e che, usciti da Firenze, ci sono i musei civici e i musei diocesani di San Casciano, di Montespertoli, di Empoli, di Montalcino e poi di Colle Val d’Elsa fino ad arrivare ai musei di Siena e continuare per Castiglion d’Orcia e Bolsena e oltre, fino alle porte di Roma. Non dobbiamo obbedire al solito stereotipo che si limita a confrontare la capienza dei grandi musei del mondo. Certo che all’Ermitage ci va più gente, certo che al Louvre ci vanno otto milioni e mezzo di persone e che non c’è partita rispetto al milione e mezzo degli Uffizi. Ma è pur vero che in nessun altro Paese della vecchia Europa e del mondo il patrimonio è minuziosamente presente e universalmente distribuito come da noi».
Da cosa dipende la diversa configurazione del nostro patrimonio culturale rispetto a quello degli altri Paesi?
«L’Italia ha avuto un’altra storia. Lo Stato centrale è recente. Prima c’erano le capitali preunitarie, ognuna con la sua gloriosa storia artistica, i suoi maestri, i suoi capolavori. In Italia la modernizzazione è arrivata relativamente più tardi che altrove. Il nostro Paese non ha conosciuto le dirompenti rivoluzioni che hanno modernizzato gli altri Stati, ma hanno anche distrutto tanta parte del patrimonio, come la Riforma luterana in Germania o la rivoluzione borghese in Francia».
Molti economisti e manager sostengono che per rendere più dinamico il sistema museale del nostro Paese occorre guardare al modello americano delle grandi fondazioni. Qual è la sua posizione?
«Sono le certezze universali che Francesco Bacone chiamava gli idola fori. Quello della fondazione museale è tra questi e ha a che fare con il sogno americano, l’inguaribile esterofilia degli italiani, la mitizzazione dell’America e dei suoi modelli. Insieme a quella della redditività della cultura. Molti economisti poi non capiscono che se c’è una fruttuosità nel patrimonio culturale italiano, questa è indotta. Quando una persona, per esempio, a Johannesburg compra vestiti, scarpe, olio e vino italiani, l’apprezzamento è l’immediata conseguenza delle colline di Siena, dei dipinti di Leonardo o di Michelangelo. È l’artisticità italiana che si riverbera anche in senso economico nei prodotti del Made in Italy. Questo è un valore incommensurabile. Per questo quando si rovina e si oltraggia il paesaggio italiano si fa un danno anche all’economia».
Professore, tra la terminologia che proprio non le va giù c’è quella dei “beni culturali” e quella di “territorio”. Cosa c’è di sbagliato in queste parole?
«“Territorio” è una parola inventata nell’ultimo mezzo secolo. È un termine che piace ai sindaci, agli architetti e ai geometri perché veicola l’idea che si tratti di qualcosa che deve essere trasformato, utilizzato. Bisogna costruirci sopra l’ipermercato, le villette a schiera, le piscine, gli outlet. Io voglio invece la parola “paesaggio”, che è qualcosa di intangibile, un termine sacro che obbliga alla conservazione e alla contemplazione. Così vorrei che si parlasse di “belle arti”. L’espressione “beni culturali e demoantropologici” è semplicemente orrenda ed è frutto di un mix nefasto di aziendalismo e marxismo. In questo senso credo si debba essere lucidamente e consapevolmente reazionari. Chiamare il territorio paesaggio e cestinare per sempre l’espressione beni culturali per sostituirla con quella di belle arti».
Questa differenza semantica è anche un cambio di prospettiva rispetto alla politica dei beni culturali?
«Quello che nessuno dice mai (è una cosa difficile da far capire ai politici perché probabilmente è impopolare) è che il vero rendimento dei beni culturali, più dell’indotto economico, è l’investimento immateriale. I capolavori che sono nei musei, il paesaggio incontaminato, i centri storici di Todi, di Narni, tutte queste cose servono a rendere la gente più civile, a trasformarla in cittadini. Così pensavano Leone X de’ Medici, il ministro di Mussolini Giuseppe Bottai, il cardinale Bartolomeo Pacca. Tutta gente che si è battuta con successo per la tutela dell’arte e del paesaggio».
Il crollo a Pompei della Casa dei gladiatori e gli altri che ne sono seguiti, oltre a essere eventi tristi, sono anche metafora dello stato in cui versano i nostri beni culturali. Cosa ne pensa?
«La questione Pompei è un problema di contesto. Se il sito si trovasse a Firenze o a Zurigo forse non saremmo qui a parlarne. È invece in una delle aree d’Europa più degradate dal punto di vista civile, amministrativo, politico, sindacale. Non serve aver letto Gomorra. “Un Paradiso abitato da diavoli”, così Goethe definiva questa parte d’Italia. Oggi il “Paradiso” è stato in larga misura devastato dall’abusivismo edilizio, dall’inquinamento, dalla spazzatura. La Campania felix descritta nei dorati dipinti di Hackert sopravvive soltanto per disarticolati frammenti. Il resto è in gran parte orrore edilizio, malapolitica, comuni commissariati per infiltrazioni camorristiche. Provate a girare per l’Agro Casertano e capirete tutto. Restano i “diavoli”, che oggi vogliono dire amministratori collusi, politici inaffidabili, aziende controllate o ricattate dalla criminalità organizzata. In questo contesto devono lavorare chi ha in carica l’area archeologica vesuviana. Bisogna ammettere che non è facile».
Una soluzione possibile?
«La nomina di un commissario con pieni poteri poteva sembrare la soluzione migliore eppure non ha dato gli esiti sperati e per tante ragioni. Il mio amico Philippe Daverio ha detto, una volta, che a Pompei ci vorrebbero i caschi blu dell’Onu. È una battuta provocatoria che tuttavia fotografa bene l’eccezionalità del sito e la sua oggettiva, sperimentata ingovernabilità. La disavventura capitata al ministro Bondi sarebbe potuta capitare a qualsiasi suo predecessore, anche a me che ho tenuto fra il 1995 e il 1996 la poltrona del Collegio romano. Per conservare Pompei ci vorrebbero soprintendenti bravi come Guzzo o De Caro. Questi ci sono e ci sono stati. Ci vorrebbero commissari, manager efficienti, intelligenti, duri e incorruttibili. Si possono trovare. Ci vorrebbe uno statuto di reale autonomia amministrativa e contabile. Ci vorrebbe una pratica di manutenzione costante e competente. Ci vorrebbe, ma questa è la cosa più difficile, temo impossibile da realizzare, un contesto ambientale diverso».
Lei sostiene che in Italia, là dove non ci sono risorse statali per i beni culturali, si supplisce con l’intervento dei privati.
«Sì. Bisogna tenere conto che l’Italia è il Paese delle cento capitali, che in Italia c’è una banca per ogni campanile, che gli italiani non hanno molto il senso dello Stato, poco forse anche quello della nazione, ma hanno fortissimo il senso della piazza. Alla quota governativa per i beni culturali bisognerebbe aggiungere quella che viene dalle banche di credito cooperativo e popolari, dalle fondazioni delle casse di risparmio. Le risorse per la cultura hanno meccanismi molto diversi. In Italia si trova il piccolo imprenditore del piccolo paese che tira fuori l’assegno per il restauro di un polittico. Magari non gli interessa gran che dell’arte ma sentimentalmente è legato alla chiesa dove la mamma lo portava a pregare da piccolo ed è orgoglioso di far sapere agli amici che il restauro l’ha pagato lui. Io credo poco alla cultura di Stato: la cultura ha bisogno di talento, non di soldi. Credo di più invece a questa forma, tipica dell’Italia per ragioni storiche di municipalismo, che mette in campo numerose risorse provenienti dalle pieghe profonde del Paese. Altra cosa è il taglio di fondi alla scuola, all’università, agli istituti di ricerca. Questo è inaccettabile perché compromette il futuro».
Di quali figure professionali c’è bisogno per i nostri tesori artistici?
«Di storici dell’arte, che ci sono, ma sono sempre più disoccupati perché il mercato non riesce ad assorbirli. A chi vuole intraprendere la carriera consiglio la formazione in Italia dove si può vedere e apprendere tutto e poi... andare altrove. I restauratori italiani, poi, godono di eccellente prestigio in tutto il mondo. La teoria del restauro è nata in Italia con Cesare Brandi, con Giovanni Urbani. E l’italiano è il linguaggio universale del restauro. Ovunque trovo restauratori italiani o che hanno studiato in Italia. Ma qui da noi restauratori anche eccellenti non riescono a tirare avanti perché mancano le risorse. Un autentico spreco».
Un fatto che non fa ben sperare per il futuro.
«Io sono testimone di una sconfitta. Posso dire “noi credevamo”: nell’autonomia del ministero dei Beni culturali, ma ci sbagliavamo. I beni culturali dovevano rimanere parte integrante di un più generale ministero della Cultura. Ci doveva essere un interscambio tra i musei, le università e la ricerca. Averlo isolato significa avere interrotto o quanto meno reso difficili i rapporti con il mondo della scuola e dell’università. Quando lo abbiamo capito ormai era tardi per rimediare. Un nobile errore per carità, degno della grande personalità di Giovanni Spadolini fondatore del ministero dei Beni culturali, ma un errore. E credo che stiamo andando verso una sorta di rottamazione del ministero nella sua struttura storica, fatta dalle soprintendenze e dagli istituti centrali».
Una polemica si è accesa sulla quantità di mostre nel nostro Paese. Molte esposizioni con pochi capolavori e spesso male allestite. Cosa ne pensa?
«Penso che in questo caso giochi anche una buona percentuale di ipocrisia perché quelli che scrivono contro le mostre sono gli stessi che, se devono organizzarne una, pretendono che si chiuda un occhio su tutto. Lo dico un po’ per scherzo e un po’ perché da marinaio di lungo corso nel settore ne ho viste tante. Penso che le mostre si dividano in due categorie: quelle che fanno gli altri – e sulle quali occorre esercitare la tutela più vigile e rigorosa – e quelle che facciamo noi e i nostri amici e allora ci vuole la giusta tolleranza ed è bene chiudere un occhio. Di fatto è così che funziona. La mostra è oggettivamente un business. Fa guadagnare, dà la visibilità a sindaci, a storici dell’arte, ad architetti. E in fondo è una cosa facile».
Però le mostre sono un’occasione di far conoscere l’arte. In questo senso sono un grande veicolo educativo, non crede?
«In Italia non ci sarebbe neppure bisogno di mostre, non d’arte almeno. Basterebbe che la gente guardasse quello che ha sotto casa. C’è gente di Viterbo, e sembra incredibile, che ha viaggiato fino a New York per visitare il Moma ma non ha mai messo piede nel suo museo civico per vedere la Deposizione di Sebastiano dal Piombo dove si vede quella luna shakespeariana, indimenticabile. Allora io dico: prima vedi la Deposizione, guardala e riguardala molte volte, e poi sarai intellettualmente attrezzato per capire il Moma».
Come far conoscere queste realtà al turismo culturale di massa?
«Basterebbe far sapere che l’Italia ne è piena e andarle a cercare. Proviamo a fare l’esempio della Puglia. Un luogo straordinario è il duomo di Altamura con un bellissimo portale e il paesaggio della Murgia intorno. Eppure quanti ci vanno? La gente va lì per farsi il bagno a Ostuni, ma non certo per vedere il duomo. Un altro luogo mirabile è la cattedrale di Troia, dell’XI secolo, in mezzo a un deserto giallo di grano bruciato dal sole. Il rosone è scolpito con fantastici decori dove si mescolano suggestioni bizantine, normanne, arabe. In cima al Gargano si trova il santuario dell’Arcangelo Michele. Qui, a 800 metri d’altezza, finiva l’Europa cristiana, era davvero il finis terrae, oltre c’era il mondo arabo e greco. Questo è il fascino dell’Italia!».
Venendo invece all’arte contemporanea, sembra che oggi più che opere belle si producano provocazioni. E più queste sono violente più muovono un mercato miliardario.
«Io ho un’idea molto precisa in merito. C’è una discontinuità radicale e non colmabile tra l’arte che i manuali ordinano cronologicamente da Fidia a Picasso e quella contemporanea. Viviamo in un momento di decomposizione linguistica. Gli alfabeti si sono frammentati e non ci sono messaggi da veicolare se non quelli della provocazione. Ma questo lo sostenevano già i dadaisti: ed era ormai un secolo fa».
Quindi lei non ama l’arte contemporanea?
«Non è che non la ami. Mi incuriosisce, mi stupisce, qualche volta mi affascina. Come quando vedo, a Firenze in Palazzo Vecchio, nello studiolo esoterico di Francesco I de’ Medici, il teschio tempestato di diamanti di Damien Hirst. Provocazione e meditazione, vanitas e lusso estremo; tutto tenuto insieme per un effetto che vuole essere (ed è in effetti) scioccante. Ma proprio questo è oggi, nei suoi esiti migliori, l’arte. I codici di riferimento, l’idea stessa di arte, sono irreversibilmente mutati. Di fronte agli eventi contemporanei gli strumenti tradizionali dello storico dell’arte non hanno più ragione di essere. Sono inutili, patetici. Ci vogliono altre chiavi di lettura, altri strumenti esegetici; che però non sono i miei».
È dai tempi di Hegel che si discute di “morte dell’arte”. Eppure l’arte non muore, le opere contemporanee si vendono a prezzi strabilianti.
«Io credo che tutto questo sia concime per l’arte che verrà. Oggi il nostro è un sistema di segni in decomposizione e servirà come materiale di partenza per il Dante Alighieri, il Mozart, il Michelangelo del futuro. Quando? Ventunesimo, ventiduesimo secolo? Non lo so. E non so neanche dove. In Cile piuttosto che in Australia, ma io non dubito che ci sarà e che verrà fuori in modo totalmente imprevedibile. È già successo nella storia. Pensiamo all’Italia alla fine del XIII secolo quando si scriveva nel latino ossificato delle università e della Chiesa o in linguaggi d’élite come la lingua d’oc. Una generazione dopo, all’inizio del Trecento, è arrivato un italiano che si chiamava Dante Alighieri. Nessuno poteva immaginarlo, ma è accaduto ed è accaduto in una forma non prevista, grazie a uno di quei provvidenziali “deragliamenti” della storia, che succedono e che è sciocco cercare di prevedere».